Una singola vetrina nella più vasta chiesa gotica della città di Valencia, posta in alto in una delle cappelle che fiancheggiano la navata centrale. Nient’altro che uno spazio espositivo, ove campeggia quell’oggetto che potremmo definire alquanto ponderoso e poco pratico all’impiego ideale. Una coppa di pregevole pietra corniola lavorata al tornio, con manici e una base in oro puro. Quest’ultimo elemento, a sua volta ornato da una serie d’imponenti perle candide come la Luna stessa. Tanto che se qualcuno l’avesse mai effettivamente utilizzata per bere, difficilmente egli avrebbe potuto essere un umile falegname della terra di Galilea. Ma forse è proprio questo il punto…
L’umiltà e il principio di magnificenza coesistono da sempre nella rappresentazione iconografica della sacralità cristiana, come un’idiosincrasia alla base del concetto stesso di fede nella Provvidenza e tutto ciò che questo comporta. Poiché se un’intelletto universale governa ogni faccenda e la presunta evoluzione degli eventi, come può essere giustificata la deriva verso l’entropia di colui o coloro che hanno dato un senso alle parole della personificazione stessa di tale Principio? Così preservato, spesse volte, fino all’esagerazione, se è vero che le schegge o chiodi della “vera croce” sono sparse in giro per il mondo in quantità bastante per la costruzione di un intero galeone; che vi sono almeno quattro lance di Longino; tre possibili corone di spine; una mezza dozzina di sudari che riporterebbero l’impronta del corpo del Salvatore. Eppure nulla, in tale ambito, ha raggiunto le vette quantitative di quello che potremmo definire senza ombra di dubbio il singolo oggetto più famoso della religione romana: il sacro calice impiegato, in base alle scritture, dal Figlio in persona durante la storica cena prima del fatale tradimento che l’avrebbe condotto alla crocifissione finale. Quel Graal connesso ad una pletora di miti, che potrebbe essere secondo le divergenti teorie in undici luoghi diversi soltanto in Italia, quattro in Francia, due nel Regno Unito e finanche anche province improbabili come il deserto patagonico dell’Argentina. Per opera di ordini cavallereschi, gruppi di monaci, personaggi leggendari per qualche ragioni trovatosi a colloquio con San Pietro in varie circostanze, che secondo la tradizione avrebbe custodito e trasportato fino al suo rifugio peninsulare questo importante simbolo del suo fondamentale ispiratore. Ed è lì, nel primo secolo, che se ne persero irrimediabilmente le tracce a causa delle persecuzioni ad opera dei Romani, delle generazioni di guerre e conflitti, a causa del rumore di fondo d’innumerevoli miti e leggende popolari che si avvicendarono nel moto senza posa dei secoli intercorsi. Eppure sussistono diverse valide ragioni, per dare credito alla pretesa valenciana più di molte altre precedentemente intercorse…
chiese
Raro soliloquio della torre che imperterrita resiste al grande corso del fiume Volga
Da lungo tempo è il simbolo della piccola città di Kalyazin, situata nella regione di Tver nella Regione Centrale della Federazione Russa. E viene da pensare che se tutto fosse andato come da programma, il grande monastero della Trinità e chiesa di San Nicola costruito inizialmente nel 1694, non sarebbe stato altro che una parte relativamente anonima del vasto patrimonio storico e culturale di queste popolazioni inclini a rendere del tutto manifesta la propria fede in Dio. Costruendo tramite collette, spesso coadiuvati dalla nobiltà locale, vasti luoghi di culto e dichiarando tramite proclami di “Ricostruirli nelle epoche future, se un qualche tipo di disastro o evento bellico dovesse portare alla caduta di queste mura.” Visione assai difficile da perseguire in questo caso costruito sotto l’egida del margravio Makariy Kalyazinsky, visto come il fiume stesso, presso le cui rive campeggiava, sia stato intenzionalmente fatto tracimare nel 1939, su ordine specifico di Joseph Stalin e con l’obiettivo di formare il bacino con diga idroelettrica di Uglich, a discapito di un vasto tratto di territorio antistante. Lasciando che questa espressione di un’originale intento architettonico celebrativo, assieme a 530 case, la Chiesa di Giovanni Battista, la Chiesa della Natività, la Chiesa del Cimitero della Santa Croce e altre, così come grandi gallerie commerciali, andassero letteralmente sommerse con buona pace di chi credeva che il comunismo e la religione ortodossa potessero collaborare nell’accrescimento della società contemporanea. Se non che qualcosa d’incredibile, si poteva dire addirittura un miracolo, si sarebbe presentato in quell’infausto culmine del gran disastro agli occhi dei fedeli raccolti nelle proprie preghiere notturne. Quando al sorgere del nuovo sole, un’ombra ebbe ragione di trovarsi proiettata sulle acque splendenti di un tale increspato oceano lineare: era quella della torre in stile classicista (che si rifaceva all’epoca antecedente a Pietro il Grande) così costruita nel 1796-1800, al fine di costituire il campanile del monastero. Un elegante edificio dell’altezza di 74,5 metri, grosso modo equivalente ad un palazzo di 22 piani, che adesso campeggiava in assoluta solitudine, alla maniera di una torre magica sopravvissuta all’inondazione del continente atlantideo. Il che in linea di principio non era COSÌ strano, giusto? Dopo tutto lo slargo fluviale in questione aveva una profondità di 5 metri in buona parte della sua estensione, appena sufficiente a ricoprire una metà del primo piano dell’aguzzo punto di riferimento. Se non che il resto del complesso, come negli altri luoghi soggetti a un comparabile destino, era stato preventivamente demolito dai genieri dell’Armata Rossa in qualità di odiato simbolo del potere imperiale, oltre al preciso intento di facilitare la navigazione. E non ci volle poi tanto a lungo, a questo punto, perché le guide turistiche cominciassero a proporre una lunga serie d’ipotesi su cosa, effettivamente, avesse contribuito al salvataggio di un simbolo tanto ingombrante…
Londra in legno: la mini cattedrale che mostrò l’aspetto di un’alternativa St. Paul
Il saggio architetto, l’uomo colto, lo studioso delle stelle e della filosofia naturale osservò il suo Re mentre faceva ingresso nel salone del Collegio Invisibile, posizionato per estendersi oltre l’atrio principale della Barnard’s Inn presso il quartiere Holborn, a Londra. Poco più che trentenne, l’allegro monarca Carlo II sembrava intenzionato a fare onore al proprio soprannome, mentre salutava personaggi del calibro di John Locke, John Evelin, Robert Boyle. E il temporaneamente tranquillo Isaac Newton, il giovane matematico pieno d’idee quanto privo di capacità di scendere a compromessi con i suoi pari. Ma Christopher Wren, in quel momento, non era intenzionato a dare spazio alle antipatie e rivalità dei suoi colleghi cultori della nuova Scienza: dopo tutto, quello era il momento del suo trionfo. La sua intera reputazione presso la corte, la quasi interezza di questi ultimi mesi del 1673 e circa 500 sterline, l’equivalente del valore di una residenza di medie dimensioni, erano stati scommesse sulla reazione di un uomo all’oggetto nascosto sotto il telo nero al centro di questo vasto ambiente. Con un sorriso, fece un passo avanti. Quindi s’inchinò a Sua Maestà: “Siate il benvenuto, sire. Quando volete, possiamo procedere alla presentazione.” Il sovrano esule, rientrato in patria successivamente alla reggenza di Oliver Cromwell degenerata soltanto tre anni prima in una controrivoluzione, sembrava molto soddisfatto delle circostanze. Finalmente avrebbe restituito al popolo qualcosa d’importante, l’edificio che nel 1666, anno dell’Apocalisse, il grande incendio aveva bruciato fino alle fondamenta; una grande cattedrale, il seggio del vescovo di Londra; il simbolo della rinascita e di una nuova epoca per la brava gente che aveva acclamato il suo ritorno. Una cupola magnifica: “Allora scopriamola, esimio architetto. Mostrateci il frutto dei vostri disegni!” Con un gesto magniloquente, Wren indicò al suo assistente di tirare una corda. E davanti al pubblico assiepato presso le alte mura di quel prestigioso ambiente, calò improvvisamente il silenzio. Non tutti, prima di allora, avevano già visto la nuova St. Paul. La chiesa imponente, dall’alta cupola sormontata dalla torre a lanterna, le navate dalla pianta greca ornate di colonne che ricordavano il Partenone greco era lì, davanti a loro. Alta 4 metri e lunga 6, realizzata in solido legno di quercia. Altri celebri edifici venivano evocati dal suo aspetto, per lo più appartenenti alla città di Roma: San Pietro e il Pantheon… Ma qualcosa nel progetto così straordinariamente messo in mostra, parlava di un tipo di razionalismo radicale quanto poteva dimostrarsi attraente, la straordinaria simmetria e la matematica di proporzioni studiate eccezionalmente a fondo. Così messe in mostra, grazie all’aiuto di abili artigiani, con la specifica intenzione di stupire colui che, più di ogni altro, si era dimostrato fino a quel momento il principale sostenitore di Wren. Dopo una breve spiegazione, dunque, l’architetto spiegò al Re d’Inghilterra che qualora lo avesse desiderato, avrebbe potuto “fare il proprio ingresso” nella chiesa in scala 1:25. Carlo dopo essersi inchinato in un’ironica dimostrazione di entusiasmo, sollevò le lunghe vesti e oltrepassò la grande porta. Ora si trovava, in tutto e per tutto, dentro ciò che ancora non svettava sopra la città di Londra. Eppure già sembrava, in tutto e per tutto, esistente: magistrali decorazioni e colonnati erano stati scolpiti nel gesso. Ogni dettaglio di queste navate, dei soffitti a volta, la proporzione degli spazi poteva già essere apprezzata nella più totale perfezione. “Che ne dite, mio signore?” Chiese l’autore di tutto questo. Il Re si voltò allora nella direzione da cui era venuto: incorniciato nel grande portone, dall’interno, vide il volto riccioluto del Grande Architetto in persona, sorridente e speranzoso al tempo stesso. Così trasformato in un gigante tra gli uomini, alto quanto le colonne della sua principale creazione. In quel momento, Carlo II seppe di aver scelto il suo costruttore. E fu istantaneamente convinto che i cittadini e membri del clero, nella loro interezza, avessero scelto con lui.
Il sacro ferro fatto scomparire dalla rupe che per mille anni è stata il fodero di Durlindana
Svegliarsi una mattina scoprendo che i propri immediati dintorni, se non il mondo intero, è cambiato. Così che un pacifico villaggio costruito lungo il ciglio di una rupe d’Occitania, famoso in tutta la Francia per il possesso di una sacra reliquia, non avrebbe più potuto beneficiare della portentosa protezione di tale oggetto, la cui presunta antichità era degna di rivaleggiare col concetto stesso di una leggenda. È dell’altro ieri la notizia, terribile a sentirsi: qualcuno di agile è salito lungo una parete rocciosa verticale di nove metri. Soltanto per schiodare una catena e la rugginosa spada saldamente collegata ad essa. Forse. Ed è importante sottolineare tale stato d’incertezza, per il simbolo residuo di una delle storie più famose e ripetute di tutti tempi!
L’ideale del guerriero forgiato ed incrollabilmente dedito alle solenni regole del codice cavalleresco era chiaramente al centro dei pensieri del misterioso monaco Turoldo, possibilmente associato al vescovo Odone, che nell’XI secolo scrisse gli immortali versi della Chanson de Roland. Verità storica e finzione narrativa, strettamente interconnesse a meno di voler davvero credere che un singolo guerriero nell’VIII secolo, per quanto forte e amato dai Poteri Superni, possa essere stato in grado di trattenere migliaia di nemici intenti ad attraversare il passo di Roncisvalle, soltanto per permettere al suo re Carlo Magno di tornare sano e salvo da una sanguinosa campagna contro i saraceni di Al-Andalus. Ma che gli infedeli fossero davvero musulmani, piuttosto che una truppa di guerriglieri baschi intenzionati a vendicarsi del Re dei Franchi che aveva messo a ferro e fuoco la loro capitale Pamplona, non faceva in vero grande differenza, per lo strumento principe del loro sterminio: la divina spada magica Durendal o in lingua italiana, Durlindana, donata da una angelo al sovrano e da esso trasferita al suo servo più fedele, l’eroico governatore della Marca di Bretagna. La “Spada Indistruttibile”, il “Brando che Acceca”, “il Martellatore del Male” o la “Maestra della Pietra” a seconda delle plurime interpretazioni di un’etimologia incerta, che Rolando in persona avrebbe nascosto sotto il proprio corpo accasciandosi infine, poco prima di suonare il roboante corno dell’Olifante, al fine di avvisare il resto dell’esercito che la missione suicida svolta assieme ai suoi compagni aveva fruttato il risultato sperato. Ciò almeno in base alla versione per così dire ufficiale della vicenda, laddove le guide turistiche di Rocamadour e i loro abitanti, per un certo numero di generazioni pregresse, tendono a raccontarla diversamente. Con il fiero guerriero ferito, che prima di spirare raccoglie le forze un’ultima volta. E impugnando l’arma come fosse un giavellotto, la scaglia via lontano affinché non possa cadere nelle mani dei traditori di Dio. A svariate migliaia di chilometri verso Est, per conficcarsi nella pietra calcarea che sovrasta la caratteristica cappella della Madonna Nera, statua in legno d’ebano intagliata dallo stesso santo Amatore (Amadour)…