Avventura subacquea sul ciglio di una salamoia gigante

Brine Pool

Se aveste chiesto agli antichi navigatori fenici che cosa ne pensano dei sommergibili, la loro risposta sarebbe stata probabilmente univoca: un vascello che affonda intenzionalmente? Davvero una pessima idea! Eppure anche loro, dovevano certamente conoscere il senso e il bisogno di spingersi avanti, oltre quel filo dei pensieri che trasformò le colonne d’Ercole, da limite semi-divino ai vagheggiamenti dell’uomo, a un marmoreo segno di sfida, da lasciarsi alle spalle con tracotanza e sincera soddisfazione. Fino al raggiungimento, tra scogli, sirene e tempeste, di una barriera titanica, costruita nelle ere remote del tempo: oltre il quale, silenzioso e desolato, si estende il deserto del Tartaro, ove le anime vanno ad evaporare, strappate dai corpi dismessi per l’avanzata del tempo. E nulla può sopravvivere, oltre quel punto. Ma immaginate adesso, soltanto per un attimo, di poter disporre di uno scafo completamente impervio alle influenze nocive di ciò che lo circonda. Come una nave spaziale effettivamente costruita, ma a differenza di quella, in grado di operare per un tempo sufficiente a raggiungere i più remoti recessi del suo luogo d’impiego elettivo: il fondo degli oceani della Terra. Nel mezzo del nulla, come al centro dei punti di scambio, ove popoli senza cervello, né occhi, né nome, soggiacciono prosperando, dimentichi di ogni problema. Una sorta di Limbo, o di Purgatorio, purché si escluda la potenziale speranza di redenzione. La vasca subacquea della Morte, che ha un preciso indirizzo laggiù nel Golfo del Messico, definito dagli scienziati protagonisti di questo video, molto appropriatamente, la “Jacuzzi della Disperazione”.
“Ma come…” L’obiezione è lecita, vi prego di continuare: “…Può esistere, un lago effettivamente distinto e separato dall’acqua circostante, a un chilometro sotto la superficie del mare?” Il motivo di una tale situazione, che sia chiaro non è metaforica, bensì la neutrale messa in parole di un’effettiva realtà, è da ricercarsi nella densità e la pesantezza del sale, quella sostanza minerale che un tempo ricopriva la superficie di vaste pianure, un elemento paesaggistico ben più diffuso all’epoca della Preistoria. Finché, per i mutamenti del clima dovuti al progressivo raffreddamento del globo  terrestre (ora siamo nel bel mezzo del processo opposto) un aumento del vapore acqueo nell’atmosfera portò ad un aumento delle piogge, portando a valle sedimenti ed acqua mescolati assieme, in una sorta di tsunami prolungato e finale. Così, il sale primordiale fu ricoperto e svanì dagli occhi di ogni creatura, per sempre sepolto al di sotto del remoto fondale. Per sempre, si fa per dire: poiché è nella natura di questa sostanza granulare attraversare il processo geologico della diagenesi, che la porta a variare la sua disposizione in funzione dell’aumento della temperatura e dei sommovimenti della crosta terrestre. E fu così che accadde, in questo come in taluni altri luoghi sperduti sui remoti confini, che tale composto di ioni cristallizzati (non così diverso dal nostro condimento preferito per le bistecche) assumesse la forma di una cupola in grado di premere dal basso, che sollevò il resto del suolo a formare delle ripide, quanto solide pareti. Le stesse strutture che possiamo ammirare, nel video soprastante realizzato esattamente un anno fa dal sub comandato a distanza della spedizione oceanica privata Nautilus Live, letteralmente ricoperte di molluschi simili a vongole, che le voci entusiastiche fuori campo descrivono soltanto col termine generico di mussels. Mentre ciò che costoro ben sanno, come del resto anche noi, è il passaggio successivo della formazione di questo raro lago-salamoia (in inglese brine lake): la cupola di sale, infatti, ad un certo punto della sua storia, ha fatto breccia nei sedimenti marini, ritrovandosi dispersa nell’acqua soprastante. Che tuttavia, per la mancanza di forti correnti unita al suo peso e densità naturalmente superiori alla media, è rimasta intrappolata fra le alte pareti di un vero e proprio cratere. Generando un ambiente ecologico letteralmente unico al mondo.

Leggi tutto

Alle Maldive, un’isola di spazzatura in bilico sulla barriera corallina

Thilafushi

Non siamo mai abbastanza grati alla natura per i posti brulli, oltre alle valli cariche di fiori e alle montagne candide che ci sovrastano brillando sotto il Sole. Le distese desolate, i recessi meno améni, scevri di fascino ma carichi di possibilità. Perché l’uomo, per sua predisposizione innata, tende necessariamente consumare. Fauna, flora ed animali. Ma se tutto attorno noi dovesse diventare sacro, prezioso ed inviolabile, cosa mai potrebbe rimanere del nostro futuro? Unicamente… Un segno di divieto, unito all’immagine di una rovina soverchiante. Sempre al centro del pensiero collettivo. Sarebbe decisamente istintivo e molto facile, come già fatto molte volte in precedenza, lanciarsi in un’invettiva contro la tragica situazione della più grande discarica a cielo aperto dell’Oceano Indiano, collocata su di un’intera terra emersa lunga appena 3,50 Km, ricavata nel 1991 a partire dalla laguna maldiviana di Thilafalhu, poco distante dall’affollata capitale di Malé. Quasi scontato: quale orribile degrado, certamente dovuto a una pessima situazione organizzativa…L’inefficienza dello smaltimento! La corruzione dei politici! E così via, fino all’esaurirsi del residuo fiato…Eppure basta per un attimo provare ad indicare questi luoghi su una mappa, perché germogli nella nostra mente il seme dirompente del dubbio: eccoci davanti, infatti, ad un’intera Repubblica dalla superficie calpestabile di 298 Km² (appena il doppio della città di Firenze) abitata da oltre 393.000 persone e visitata, annualmente, da circa altre 600.000 complessive. Per di più dispersa per un braccio di mare considerevole, e distante 1.000 Km circa dalla costa della più vicina terra emersa, il subcontinente indiano. Il fatto stesso che luogo sostanzialmente privo di risorse tranne il pescato, e in cui persino l’acqua potabile è un bene prezioso nonché raro, sia in grado di sostenere una simile economia fiorente, è l’assoluta dimostrazione che qui non viga più alcun tipo di logica spontanea delle circostanze. Mentre l’intero iter delle procedure seguite dalla popolazione locale, per adeguare un simile sistema al susseguirsi dei tempi moderni, è un purissimo prodotto della globalizzazione. Ed un nome, dal suono esotico e misterioso: Thilafushi. Un’isola evitata addirittura dai gabbiani.
Immaginate, a tal proposito, lo sforzo necessario per nutrire, ospitare e rendere in qualsiasi modo soddisfatto il vero e proprio esercito stagionale, dei signori ricchi o benestanti che sono portati a considerare  un simile recondito paese, sostanzialmente come il paradiso sulla Terra. Colpa, se vogliamo, del marketing e del senso comune. Grazie allo strumento dei trasporti e dell’investimento finanziario, oggi, tutto diventa possibile ma resta una variabile fondamentale: quella del tempo. Così fra tutte le sfide nate da un simile incontro sfortunato, tra spazi piccoli, e grandi quantità di persone, quella preponderante diviene la risultanza inevitabile di un tale consumismo: la produzione di rifiuti. Pensateci. Un problema che non passa con il tempo, ma piuttosto tende a peggiorare, quanto maggiormente si ritarda nel trovare un’efficiente soluzione. Ben conoscono questo dilemma alcuni luoghi urbani d’Italia, che famosamente negli ultimi anni hanno affrontato dei periodi con le strade invase dai sacchetti neri, e molte altre sgradevoli, maleodoranti cose. C’è tuttavia una differenza di fondo, e fondamentalmente vantaggiosa, tra un luogo in cui è sempre possibile far transitare i camion (purché disponibili) per trasportare la materia del collaterale, altrove… Ed un mondo sperduto in mezzo al nulla, invece? In cui l’unico vicino è il mare? Cosa poteva mai restare da fare…
Si, forse c’erano altre strade. Nessuna delle quali però transitabile, pratica, e davvero pronta all’utilizzo in tempi sufficientemente brevi. Dave Hakkens, imprenditore internettiano del web 3.0 ed ambientalista particolarmente attivo, ci accompagna nel video soprastante ad una visita di un simile luogo unico al mondo, almeno quanto le candide spiagge dell’atollo di Landaa Giraavaru, con più posti letto che secondi necessari a percorrerlo da un lato all’altro in bicicletta. Finché non venne…L’ora della Scelta. Ed il cemento cominciò a colare.

Leggi tutto

L’uccellino che sfugge alla risacca per sfidare il mare

Sanderling

Accelerate nell’universale ciclotrone dei campi magnetici terrestri, le particelle piumate sfrecciano dai loro nidi fino ai limiti del mondo. Nessuno sa davvero, perché. Mescolandosi nell’aere, sopra e sotto la presenza delle nubi, squillano d’aspettativa verso il segno di una meta poco chiara. Le regioni artiche dell’ora dell’accoppiamento, ormai un ricordo assai lontano. È quasi inverno, si ripetono tra loro. Finché allo scoccar dell’equinozio nella loro mente, dopo giorni o settimane di volo, essi non “percepiscono” di essere arrivati, calando lievi fino al suolo. Cosa sono in fondo 10.000, 15.000 Km, per un vero uccello migratore? Ed è con tale consapevolezza, che essi iniziano la vera danza. Il piovanello all’opera non può che costituire una scena estremamente buffa: ecco un tenero, tondeggiante passerotto dalla lunghezza di 20 cm, che invece di attendere le nostre briciole, si avventura fin sul bagnasciuga di una spiaggia. Quindi inizia, col suo becco corto ma affilato, a cercare. Piccoli granchi, le loro uova, gli altri invertebrati; ma per farlo nella maniera corretta, esso non può attendere la bassa marea. Perché in quel caso, le sue prede non tarderebbero a nascondersi in profondità, sfuggendo alla questa fame di chi viene da lontano. Laddove invece le creature stesse di un simile fugace habitat, ogni qual volta l’acqua giunge fino al punto superiore delle rispettive piccole buchette, non possono far altro che far sporgere la loro testa di crostacei. Nella speranza di ricevere, anche loro, il dono di un gradito pasto mattutino.
E trae in inganno, certamente. Perché simili palle di candide piume, che si affollano in grandiosi stormi di passaggio in ogni regione del mondo (neanche l’Africa ed il Sudamerica sono esonerati dalla loro presenza transitoria) sembrano cucciolotti timorosi di un qualsiasi influsso incontrollato. Mentre si appropinquano con quell’andatura fluida e simile a una pedalata al terreno di caccia, cento, duecento volte ogni giro dell’ora, per il semplice fatto che le ondate non si fermano. E insistentemente, minacciano di inumidire quei piedini con tre artigli ben proporzionati. Ma basta vedere, per un attimo, uno di loro che apre le sue ali, dall’apertura notevole di 43 cm, per comprendere che questi qui sono dei grandi volatori. Veri e propri albatross delle geografiche circostanze, in grado di sorpassare il viaggio dei più grandi esploratori della nostra storia di umani.
Il Calidris Alba in particolare, la specie mostrata in questo video girato presso la laguna di Cap-Pele in New Brunswick, Canada, è riconoscibile dal piumaggio estremamente candido tranne che per una macchia scura in corrispondenza delle ali. In estate, l’uccello si colora di una macchia rossa sotto la gola, che potrebbe avere la finalità di assisterlo nell’attirare la compagna. Da piccolo, invece, presenta dei contrasti più netti, con il bianco e nero che si rincorrono in ogni sezione delle sue graziose piume. Ma una simile livrea, naturalmente, non poteva permanere fino all’epoca del viaggio, quando avrebbe irrimediabilmente costituito il perfetto richiamo visuale per la fame di un qualsiasi predatore, sempre in agguato sul corridoio aereo che conduce verso sud. E i numerosi punti di sosta lungo il suo percorso, quali le spiagge del golfo di Fundy o del Delaware, e le altre lungo l’intera costa est degli Stati Uniti, dove in determinate stagioni un simile spettacolo è tutt’altro che raro. Mentre qui da noi, nella più temperata Italia, questa tipologia di piovanelli giunge raramente, ed in numero piuttosto ridotto. Così l’avvistamento, da parte di chi fa attività di birdwatching, costituisce sempre un’esperienza straordinaria ed affascinante. Ma immaginate, per un attimo, di trovarvi in spiaggia a prendere il sole! Ed al posto dei soliti gabbiani, vedere innanzi a voi la folla zampettante di quelli che in lingua inglese vengono definiti sanderling (un termine che fa pensare al “popolo” degli gnomi o degli elfi ultramondani) intenti a combattere la loro eterna lotta contro il flusso dell’acqua, prevedibile e costante. C’è sicuramente, da restare affascinati. E da chiedersi se esista a questo mondo un qualche cosa di ancor più fantastico e meraviglioso…

Leggi tutto

Una fortezza per difendere l’America dai suoi nemici

Fort Jefferson

Montagne alle mie spalle, mare innanzi a me. Chiunque voglia tentare la fortuna per venire a togliermi il fucile, dovrà attraversare 20, 30 metri di spiaggia bruciata dal Sole, ponendo la sua sagoma nel centro del mirino. Possibile? Probabile? Quante volte, davvero, nella storia dell’umanità, è riuscita l’invasione d’oltremare di una terra simile a un bastione naturale… Poche, pochissime! Ma ciascuna, grandemente celebrata e impressa nella mente degli interi popoli coinvolti. Di certo, non tutti i mari sono uguali. E pur considerata la pessima reputazione della Manica, il valico dei popoli  e del tempo, è innegabile che fu proprio quel tratto, fra i tanti disponibili, a vedere il transito di alcune delle forze armate destinate a far deviare il corso della storia. Vedi Guglielmo il Conquistatore, duca di Normandia, che poco dopo l’anno mille radunò all’incirca 8.000 uomini su 700 navi, per cancellare un’ingiustizia e conquistare il trono d’Inghilterra. O ancor lo sbarco in senso opposto, condotto all’apice della seconda guerra mondiale dalle forze degli alleati sull’Europa in mano ai totalitarismi, il 6 giugno 1944 presso quel di Omaha Beach. Ma se siamo qui a citare due successi, è certamente perché questi erano siti ai lati estremi dello spazio cronologico, quando (a) – non esistevano i mezzi tecnici per difendere un’intero tratto di costa, oppure (b) – l’impiego di tecnologie moderne, quali l’aviazione e l’artiglieria, permettevano di renderle in qualche modo vane. Sebbene al costo di parecchie vite umane. Ma basta prendere in analisi un qualsiasi momento degli intercorsi 9 secoli e mezzo, per trovare la storia d’innumerevoli potentati o città stato site sulla costa, magari circondate dai nemici su ogni lato, che tuttavia mai nessuno si sarebbe immaginato di assalire. Mentre l’introduzione della polvere da sparo, in un primo momento, non fece che esacerbare la questione. Un vero forte a stella, dotato di barbacani (preminenze murarie) su ogni lato, poteva scaricare sul nemico in faticosa avanzata un quantità di palle o bombe virtualmente illimitato, distruggendone il morale prima ancora che questi potesse avvicinarsi per scalare quelle avverse mura. Durante la guerra russo finnica del 1809, la celebre fortezza di Sveaborg poté resistere all’assedio dei cosacchi e dell’intera armata di Alessandro I per un periodo di due mesi, nonostante i pochi fondi di cui aveva potuto disporre e i rifornimenti conseguentemente limitati, prima di dover capitolare per ragioni per lo più politiche, e contro il volere del suo comandante. In forza di simili considerazioni, e dopo l’esperienza della guerra contro gli inglesi del 1812, i giovani ed emancipati Stati Uniti decisero quindi di fornirsi anche loro di possenti e invalicabili bastioni, per proteggersi dall’evidente esuberanza dei maggiori potentati europei. In alcuni dei punti strategici di accesso al continente, già esistevano delle antiche basi militari, come quella di Fort Monroe sulla punta estrema della penisola della Virginia, punto di sbarco elettivo per le flotte provenienti dall’Atlantico Settentrionale. Qui le fortificazioni furono ampliate e rese maggiormente solide, per meglio resistere nell’immediato, ipotetico futuro di guerra. Mentre il altri luoghi di evidente importanza, all’epoca non c’era essenzialmente nulla, tranne spiagge assolate, uccelli migratori e tartarughe.
Pensate, ad esempio, al tratto di mare antistante alla Florida. Un’altra terra peninsulare che essenzialmente costituisce, con la sua naturale collocazione geografica, una delle due porte d’accesso verso le preziose acque del Golfo del Messico, un luogo di transito fondamentale per tutti i commerci dei Caraibi resi celebri nell’era delle grandi esplorazioni. Un punto di passaggio, sopra Cuba, dove lo stabilirsi di un’ipotetica base operativa delle forze d’invasione avrebbe potuto, nel giro di pochi mesi, paralizzare l’intera economia delle colonie unite. Così fu chiaro, in quel fatidico momento storico, che lì occorreva costruire un forte. E che questo sarebbe stato, all’epoca della sua costruzione, tra i più temuti e formidabili del mondo. Ma la via, nonostante tutto, fu piuttosto travagliata. Il primo studio di fattibilità per il progetto fu condotto nel 1824 dal commodoro David Porter, incaricato dall’ammiragliato di contrastare l’ancora dilagante pirateria di questi luoghi, trovando un luogo d’approdo valido per le navi della flotta, che potesse essere utilizzato per rifornirsi e riarmarsi tra un pattugliamento e l’altro. Egli allora individuò, all’estrema propaggine dell’arcipelago delle Florida Keys, la sottile striscia d’isole che si protende ad ovest delle Bahamas, una terra totalmente priva di insediamenti, e naturalmente  protetta dalla furia dell’oceano e degli uragani. Si trattava delle Dry Tortugas, famosamente scoperte nel 1513 dall’esploratore portoghese Juan Ponce de León, che gli aveva dato il nome in funzione di due cose: i circa 200 rettili col guscio che aveva catturato, per l’esportazione e la vendita presso le istituzioni scientifiche di mezzo mondo, e la totale assenza di acqua dolce in questi luoghi, un dato semplicemente fondamentale per qualsiasi navigante che transitasse da quelle parti, al punto da dover essere incluso in ogni carta nautica futura. Il suo collega di un’altra epoca e nazionalità quindi, quasi tre secoli dopo, non poté far altro che riscontrare le stesse problematiche, arrivando alla conclusione che giammai, in quel luogo derelitto e inospitale, gli Stati Uniti si sarebbero trovati a costruire un forte! Davvero egli non sapeva, quanto era distante dalla verità…

Leggi tutto