La battaglia bovina di Londra finalmente in HD

Moo Cyriak

Eravamo giovani ed ingenui. Eravamo entusiasti, eravamo compiacenti. L’industria zootecnica, per quanto già permeasse ogni pertugio del rapporto tra gli umani ed animali, non era ciò che è adesso, né rispondeva alle stesse stringenti norme etico-sanitarie. Nel 2007…Quando gli alieni rapirono la loro ultima mucca, prima di trasformarla in un mostruoso distruttore di pianeti. Cose che succedono, portando alle sue estreme conseguenze la scienza tecnica della sperimentazione su creature ruminanti! Raccontarlo è doveroso. Mostrare tali circostanze, con una fedeltà visuale degna del peso degli eventi, non sempre facilissimo. Perché in quei tempi ormai lontani, tanto per cominciare, YouTube prevedeva per i video una risoluzione massima di 240p: più che sufficiente a far conoscere la propria faccia al mondo, intavolare qualche linea di un dialogo parlato, per vedersi allegramente bistrattati nei commenti. Ma purtroppo estremamente inadeguata, al fine di mostrare i minimi dettagli di una serie di eventi che si estende dal minuscolo (globuli muggenti) all’incomprensibilmente vasto (quadrupedi grandi come pianeti?) Passando attraverso visioni dell’inferno formatosi per l’intenzione di comprendere la biologia terrestre.
Gli alieni dell’originale [MOO!] di Cyriak, l’animatore di Brighton famoso per le sue trovate psichedeliche e insensate, non sono del tipo che si mette in discussione per toglierci spazio, risorse o divorarci tutti interi. Appaiono piuttosto su schermo, ben racchiusi dentro delle occhialute astronavi, con la finalità apparente di studiare gli elementi di contesto, ma soprattutto comprendere cosa fa muovere il principale animale da prato con i quattro stomaci, qui trattato alla stregua di un mero giocattolo biologico. E chi siamo noi, per criticare. Regna la pace tra i colli gradevolmente verdeggianti. Quando cala, all’improvviso, il disco metallico con la forchetta pneumatica, perché i raggi traenti sono un’inutile complicazione, che trangugia lietamente la creatura. Per poi procedere al sezionamento, ovvero la suddivisione delle parti: la mucca alquanto sorpresa, in una serie di bizzarre sequenze, viene tagliata a metà, poi fatta in tanti pezzettini. Il suo cervello attentamente scoperchiato. Con i singoli componenti, tutt’altro che inutilizzabili, le molte braccia del sistema tecnologico mettono assieme un’intera collezione di strumenti musicali, che forniscono ulteriore verve a un crescendo sincopato di armonie. Quando dalla parte inferiore dell’inquadratura, senza soluzione di continuità, si rendono palesi alcune bocche trasparenti, come fossero tromboni d’accompagnamento, il cui vero scopo appare invece presto chiaro: sono provette, queste, in cui deporre il frutto principale del complesso studio extraterrestre. Alcuni embrioni, chissà poi perché. Illuminati con un misterioso raggio verde, che pare accelerare quella crescita del tutto innaturale, finché…Incidente, disastro! Un malfunzionamento della macchina ha portato alla disintegrazione di uno degli involucri di contenimento, rovesciando l’astruso materiale geneticamente modificato nell’intercapedine tra gli altri. La massa vivente della mucca ricombinata, a quel punto, viene naturalmente attratta verso il resto dei suoi simili, rompendo il resto delle fiasche, poi crescendo a dismisura e in modo incontrollato. Terminata la semplice introduzione, le cose iniziano a farsi alquanto strane.

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Il ritorno del ciclista che restò paralizzato

Martyn Ashton Run

Intatto, immutato, illeso nell’anima e nell’entusiasmo che gli avevano permesso di raggiungere i massimi vertici di uno sport prettamente individuale, il bike trial, fino al giorno ed al minuto del terribile imprevisto. Settembre del 2013: Il quattro volte campione inglese ed una del mondo Martyn Ashton, uomo simbolo da oltre 10 anni di un’intera branca dell’acrobatismo estremo coi pedali, subisce un grave incidente durante una dimostrazione al gran premio della Moto Gp di Silverstone. Perdendo il suo precario punto d’appoggio da una stretta barra da un’altezza di tre metri, cade a terra slogandosi due vertebre, tra l’incredulità del pubblico e la stampa di settore. Il mondo del ciclismo trattiene il fiato, fino al giorno in cui ci viene rivelata l’infelice verità: il fuoriclasse ha perso la sensibilità nell’intera parte inferiore del suo corpo, ed anche a seguito di una lunga riabilitazione, allo stato attuale della medicina, non è stato possibile restituirgli l’uso delle gambe. Non è davvero facile immaginarsi, dall’esterno, il treno dei sentimenti e dei pensieri che devono aver attraversato la mente di un simile straordinario specialista, nel momento in cui rischiava di veder deragliata la sua intera vita su un binario differente. Si possono fare tutti i piani del mondo, ma come si dice, è impossibile prevedere l’influenza libera del fato. Il nostro punto forte è la capacità di adattamento. Martyn poteva, come altri eroi trovatisi nella sua crudele situazione, diventare molte cose: un’allenatore, un consulente tecnico, un giornalista. Dedicarsi a tempo pieno all’arte, alla musica o allo studio della storia. Mentre invece, come già era successo nel 2003 a seguito di un precedente infortunio alla schiena, decise di seguire il suo percorso di recupero fino alle estreme conseguenze, persino in questo caso ben più grave. “D’accordo, la situazione è cambiata. Non potrò tornare il ciclista che ero.” È affascinante immaginare i suoi pensieri: “Vorrà dire che diventerò MEGLIO di prima.” Il risultato di questa linea, finalmente rivelato in questo video di metà della scorsa settimana, appare lampante sotto gli occhi di noi tutti.
Il campione un tempo infortunato appare in cima ad una delle innumerevoli montagne verdeggianti della regione di Snowdonia, nel Galles settentrionale, che gli antichi chiamavano Eryri, dalla parola locale usata per riferirsi alle aquile che qui facevano il nido. Un luogo solitario, dunque, splendido e incontaminato. Eppure, persino qui, egli non è solo: all’allargarsi dell’inquadratura, compaiono i colleghi Blake Samson, Chris Akrigg e Danny MacAskill, pronti ad assisterlo nel rapido trasferimento veicolare. Perché nel giro di pochi secondi, appare chiaro il metodo e il messaggio della scena, con Ashton che viene posizionato su quella che costituisce, indubbiamente ed incredibilmente, una bici da cross ad alte prestazioni. La speciale mountain bike, costruita su misura dall’azienda specializzata Mojo e fornita dello stesso sedile usato dagli sciatori alle Paralimpiadi invernali, che ritorna presto a costituire l’interfaccia tra l’individuo e la strada, non importa quanto accidentata, quasi come non fosse mai successo nulla di gravoso in precedenza. Quasi perché, nei fatti, la discesa in velocità sulle tortuose vie della regione più umida dell’intero Regno Unito, comporta una serie di abilità fisiche e attenzioni tecniche del tutto differenti. Ed è proprio nel modo in cui gli riesce di affrontare ciascuna curva, facendo affidamento unicamente sulla forza delle braccia, piegandosi soltanto il necessario, eppure dimostrando una grazia che sarebbe invidiabile a molti atleti ben più convenzionali, a dimostrare il lungo percorso di recupero e la capacità di adattamento di questo sportivo d’eccezione.
Mentre ciò che colpisce maggiormente dal punto di vista emotivo, è il modo in cui l’intera sequenza viene offerta al pubblico, completa di un montaggio che da largo spazio all’espressione allegra di Ashton, nonché ai gridi e alle risate di lui e dei tre amici, tutti egualmente entusiasti per il ritorno in attività del campione, ma anche per la gioia spontanea che dà il praticare un simile sport, in mezzo alla natura e senza una preoccupazione al mondo.

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La giostra adrenalinica nel turbine dell’orologio

Tourbillon Ride

Punto fermo di ogni rispettabile narrazione che contenga il concetto di viaggi istantanei, siano questi di natura tecnologica o rientrino tra i fenomeni improbabili di una qualche arte stregonesca, è il trauma, più o meno breve, cui vengono immancabilmente sottoposti tutti gli individui coinvolti. L’astronave che nell’iperspazio, locus teoricamente privo del concetto stesso di attrito, vibra rumorosamente alla maniera di un vascello prossimo al naufragio, come il traumatico teletrasporto umano, generalmente seguito dalla brusca materializzazione in luoghi scomodi o elevati, da cui rovinare rotolando in qualche nuovo angolo della Terra. Oppure…Altrove. Ma tutto questo non è nulla, rispetto agli artifici che permetterebbero, almeno nella fantasia di molti autori, di spostarsi liberamente lungo l’asse inconcepibile del tempo. Prima che un protagonista possa conoscere i propri trisavoli ulteriori, o i nipoti dei nipoti, dovrà prendere il coraggio a piene mani per entrare in ciò che si profila, grosso modo, come l’equivalente accidentale di un qualche astruso arnese di tortura. C’è sempre una cabina, oppure un veicolo, che accelera ad un ritmo innaturale. Oppure una capsula senza aperture, che ruotando vorticosamente su se stessa fa dei secoli come secondi, e soprattutto, quando necessario, riesce a farli scorrere al contrario. Quest’ultimo, probabilmente, il maggior miracolo ipotetico del mondo. E ci coinvolge immancabilmente, un simile aspetto esteriore di una prassi immaginifica in cui le leggi della fisica fanno la parte di un fedele cagnolino, al punto che la gente sarebbe anche disposta a pagare, per poter vivere quell’esperienza, persino nell’impossibilità di raccoglierne i frutti più straordinari. Succede, essenzialmente, di continuo: diventar la parte di un qualche movimento o meccanismo straordinario (fuori dal probabile o la ragionevolezza) come una montagna russa, la ruota panoramica, il percorso splisplash con i tronchi giù per la cascata. Tutte cose molto belle, queste, ma con una problematica di spicco. L’ingombro ponderoso delle svettanti strutture in questione, da cui deriva il costo sproporzionato della loro operatività e manutenzione, da sempre condizionamento significativo al numero, e la nazionalità, di chi possa sperimentare sulla propria pelle simili emozioni.
Enters ABC Rides, l’azienda svizzera che ha costruito questa favolosa…Cosa. Stiamo nei fatti parlando, come avrete già notato grazie al video di apertura, dell’incredibile dispositivo per Luna Park un tempo noto come Starlight, ma che al suo debutto presso il Foire du Trone 2015, la più grande fiera della Francia, ha ritrovato il termine che meglio gli si addice, ovvero Tourbillon, dal nome di un particolare meccanismo con fino a tre assi, che tutt’ora svolge il compito di un cuore nei più splendidi e costosi orologi da portare al polso. La ragione della sua esistenza pluri-centenaria è presto detta: sconfiggere la gravità. Scoprirono infatti i pionieri dell’orologistica moderna, verso la fine del XVIII secolo, che costruire una macchina in grado di avanzare sempre allo stesso ritmo era difficile, soprattutto per l’effetto di quella forza planetaria che perennemente tende a definire le due direzioni del “basso” ed “alto”. Qualsiasi ingranaggio complesso, infatti, se inclinato pure leggermente nella direzione del suo moto tende ad accelerare, e viceversa. Un problema sentito a tal punto, in quell’epoca di grandi navigazioni, da portare il parlamento inglese a promulgare già nel 1714 il cosiddetto Longitude Act, consistente della costituzione di una commissione, che avrebbe attribuito un corposo premio in denaro (20.000 sterline di allora) a chiunque fosse stato in grado di creare il primo cronometro nautico in grado di aumentare la carente precisione delle carte nautiche in corso d’impiego. E ciò che vediamo qui applicato, con la partecipazione di alcuni coraggiosi beta testers svizzeri di un giro di prova, altro non sarebbe che l’applicazione in scala enormemente superiore dello stesso meccanismo inventato dall’orologiaio Abraham-Louis Breguet (1747-1823) colui a cui venne riconosciuto il merito di aver trovato quella soluzione. Soltanto con al posto dei rubini, stavolta, le persone.

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Un altro turista travolto dalle Guardie della Regina

s Guard

Udite, udite, hear ye: è successo di nuovo. Giusto fuori la grande residenza di Buckingham Palace, dove i turisti si affollano per far fotografie, uno di loro si è fermato, si è girato, quindi con la testa tra le nuvole, si è messo a conversare in mezzo al viale con la sua consorte. Senza più notare, inspiegabilmente, la cadenza ritmica di 20 paia di stivali, tanto sincronizzati da fare tremar l’asfalto, in ansiogena rotta di collisione con lo spazio così inappropriatamente oggetto del suo ingombro personale. Ora, normalmente, l’avanzata di una squadra militare armata di fucili assai probabilmente carichi, per di più ciascuno accessoriato con l’affilato baionetta sulla cima della canna, incute un certo grado di timore, se non proprio reverenziale, quanto meno sufficiente a farsi un po’ da parte. Ma non qui da loro, le numerose guardie che assicurano gli interessi, le proprietà e l’incolumità della famiglia reale inglese. È uno strano fenomeno, questo, che anno dopo anno miete inevitabilmente le sue “vittime” (nessuno ha mai subito conseguenze gravi…Fino ad oggi) quasi come se costoro, gli armigeri con giubba rossa, fossero una parte inscindibile dei luoghi che proteggono, l’equivalente statale di una sorta di attori stipendiati.
Quando in effetti, la loro origine dovrebbe incutere sincera soggezione. Fin da quando Carlo I  fu allegramente decapitato in nome dei nascenti ideali puritani nel 1649, apparve infatti chiaro che del popolo di Londra c’era poco da fidarsi, soprattutto quando vigeva la necessità di esercitare un ruolo tanto delicato. E che sarebbe stata cosa buona e giusta, ancor prima che caratteristica, stazionare in modo fisso un contingente significativo presso i luoghi normalmente frequentati dai membri chiave della monarchia: il palazzo di St. James, naturalmente, residenza principale del re o della regina prima della realizzazione dell’oggi più celebre e già citata reggia neoclassica, un ruolo che, almeno sulla carta, ancora oggi gli appartiene. Nonché le due fortezze principali d’Inghilterra, entrambe edificate da Guglielmo il Conquistatore in piena epoca medievale a seguito delle campagne in Normandia (tardo XI secolo) la Torre di Londra e Windsor Castle, il più antico complesso architettonico ad oggi ancora abitato per 12 mesi dell’anno. Non è insomma possibile, specie con una guida turistica dentro la propria borsa, avventurarsi nell’intero London District o persino le regioni circostanti, senza incontrare, prima o poi, una di queste figure tanto stranamente familiari, dalla notevole presenza scenica, dovuta al ruolo, la tenuta, il flusso chiaro di un’antica tradizione. Eppure! Sarà l’ingiustificata sensazione di conoscerli, per le tante parodie comparse in anni di televisione, Mr Bean e tutti gli l’altri, sarà l’anacronistico cappello nero da granatiere che tutt’ora ciascun soldato porta con orgoglio, risalente all’epoca della battaglia di Waterloo (1815, per inciso siamo nel bicentenario) frutto della pelle di un intero orso canadese, oppure forse, la colpa è di questa leggenda metropolitana, quasi del tutto ingiustificata, secondo cui il ruolo di sentinelle silenziose che ricoprono non gli permetterebbe di reagire a nessun tipo di provocazione, né spostarsi dalla posizione che gli è stata assegnata per le due del proprio turno in situ…O ancor più probabilmente, a fronte dell’unione tra questi fattori: sono comunque molti quelli che, con un grammo di malizia o come in questo caso, per un attimo di disattenzione, finiscono per complicare la giornata dei membri scelti della celebre Queen’s Guard. I quali, con un comportamento necessariamente silenzioso e stolido, finiscono per riconfermare proprio quello stereotipo di assoluta britishness, la capacità di relazionarsi con il mondo sulla base di una sorta di ironia passiva. Quando in effetti, non è difficile immaginarseli avvolti da un senso di sincera e appassionata superiorità, come l’armatura filosofica dei fantasiosi Space Marines di Warhammer, il cui credo beffardo recitava tra le altre cose: “My armor is…Contempt.”

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