La sorpresa che arde nel becco dei falchi australiani

Se voi stesse guidando lungo una strada del Territorio del Nord, il terzo più vasto ed uno dei meno popolosi stati australiani, potrebbe presentarsi davanti ai vostri occhi uno strano spettacolo. Come un vortice fatto d’ali, disegnato nel cielo dal passaggio di decine d’uccelli scuri, apparentemente presi da una sorta d’inspiegabile frenesia. Iniziereste a volgere lo sguardo, quindi, da un lato e dall’altro, alla ricerca dell’unica causa possibile di questa specifica classe di anomalie. Finché tra gli alberi, non troppo distante, vedreste sbocciare il pennacchio di fumo, con sotto l’immancabile fiore rosso e arancione del fuoco vivo. Incendi e rapaci: da queste parti, non sono mai troppo lontani. Al punto che le popolazioni aborigene, fin da tempo immemore, hanno usato il termine firehawks, uccelli fiammeggianti, per riferirsi a tre distinte specie volatili: il falco bruno (Falco berigora) il nibbio fischiatore (Haliastur sphenurus) e il nibbio bruno (Milvus migrans). Questo per la credenza diffusa, fortemente radicata nel folklore, che siano sempre stati proprio loro, per una sorta di impulso malevolo ricevuto dagli Dei, a causare il più tipico disastro ricorrente sul continente-isola, parte inscindibile dei suoi processi ecologici di fondo. Fuoco, fuoco sulla foresta di eucalipti. Fuoco nella savana abitata dai canguri. Fuoco presso le propaggini del deserto, che incenerisce le piante d’acacia con l’annesso piccolo esercito di rettili e marsupiali. A meno che, ovviamente, i suddetti non prendano con se armi e bagagli, facendo affidamento sull’istinto a scappare, salvando se stessi e la propria prole. Da un destino…  Ardente. Ma non dal dente. O per meglio dire, dal becco, di questi piccoli sparvieri assetati di sangue, abbastanza furbi da riconoscere un profilo di crisi, approfittandone per trarne vantaggio Misurabile ed Immediato.
Niente di nuovo sotto il sole, dunque. Se non fosse che, nel numero di dicembre della Rivista di Etnobiologia, è stato pubblicato per conto dell’Università della Pennsylvania un insolito studio di Mark Bonta et al, mirato a spiegare ed analizzare il fenomeno da un punto di vista nuovo. Insolito perché, per una volta, piuttosto che basarsi sui fatti chiaramente dimostrabili, raccoglieva le testimonianze indirette di un vasto ventaglio di abitanti dell’Australia, alla ricerca di una sublime ed insospettabile verità: è realmente possibile, in ultima analisi, che le leggende aborigene nascondessero un significativo quantum di verità? La lettura integrale del testo, come spesso capita, è riservata ai colleghi dell’assistente-professore di scienze della terra o al pubblico pagante, ma alcuni estratti sono stati riportati dagli articoli online. Storie come quella di ‘‘MJ”, un custode di armenti di Kimberley nella Western Australia, che ebbe modo di assistere allo spettacolo preoccupante di un incendio espandendosi, aveva raggiunto l’area invalicabile del letto di un vecchio torrente. Quando d’un tratto, sopraggiunti i soliti falchi in caccia, proprio questi ultimi hanno iniziato a raccogliere uno dopo l’altro una vasta selezione di rametti ardenti. E sotto i suoi occhi allibiti, hanno spiccato di nuovo il volo, gettandoli sull’erba secca dall’altro lato della barriera. Piromani pazzi. Qualcosa di simile, nel frattempo, è stato testimoniato da Bob White, vigile del fuoco di Roper River (Territorio del Nord) che mentre combatteva contro un incendio nei pressi di una strada asfaltata, vide i rapaci che gettavano il loro carico nichilista all’interno di una valle piena di vegetazione secca, riuscendo a pieno nell’obiettivo di rendergli ancor più difficile la giornata. Ma di esempi, ne sono stati addotti numerosi altri…
L’effettiva possibilità che una animale, per di più della varietà volante, possa in qualche maniera aver imparato a padroneggiare il fuoco, può risultare sufficiente a capovolgere le nostre presunte cognizioni di “specie dominante” del pianeta Terra, risalenti fino al mito greco di Prometeo. Il figlio del gigante Eurimedonte e la titana Era, che aveva rubato con subdolo ingegno il segreto della sapienza da Zeus a vantaggio della sua più amata creazione, gli umani. Per poi essere punito dal sommo Padre, venendo trafitto da una colonna sulla cima di una montagna, mentre un’aquila avrebbe avuto il compito di divorare il suo fegato per tutta l’eternità. Possibile, dunque, che il Signore dei Fulmini avesse per la prima volta dal giorno della sua nascita, sbagliato di poco il bersaglio della furia?

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Decolla dalla Cina il nuovo drago dei mari del Sud

Che la Cina stia aumentando, ormai ma parecchi anni, la sua spesa in campo militare è ormai un fatto noto, inserendosi su un percorso che la accomuna agli altri principali paesi in corso di trasformazione e crescita nel loro ruolo di superpotenze. La percezione di una tale esigenza, fortemente sentita dal partito al potere, è del resto la risultanza non soltanto di un chiaro bisogno di essere rispettati sulla scena internazionale, bensì dalla pura e semplice collocazione geografica in una delle aree più instabili dell’attuale scenario geopolitico globale. Con la Russia a settentrione, e l’imprevedibile Corea del Nord a meridione, per non parlare dei molti interessi territoriali nelle acque ricche di contenziosi del Mar Cinese Meridionale: gli stretti di Luzon, l’intera costa vietnamita, la Linea dei Nove Tratti, Sabah, l’area nord del Borneo… Tutte zone inserite rispettivamente nei territori di Indonesia, Malesia, Filippine… Per non parlare dell’eterno rivale Taiwan, di un paese nazionalista che rivendica dinnanzi alla Terra di Mezzo, ormai da molte decadi, il suo stesso diritto ad esistere sulle mappe. Una possibile ambientazione di futuri conflitti sostanzialmente non dissimili da quello, che fece la storia della strategia bellica oltre 30 anni fa, tra Regno Unito e Argentina per il possesso delle isole Falkland. Con la differenza che, nel 2017, schierare un gruppo d’attacco fornito di portaerei con l’obbiettivo di dirimere eventuali situazioni d’emergenza potrebbe avere conseguenze politiche ed economiche dalla portata estremamente difficile da prevedere. Ed è in funzione soprattutto di questo che la Corporazione di Stato per l’Industria dell’Aviazione (AVIC) entità pubblica creata nel 1951 nel clima immediatamente successivo alla guerra in Corea, ha ricevuto dal governo centrale l’incarico di progettare tre grandi aeroplani, tra cui un nuovo idrovolante da trasporto, attrezzabile all’evenienza come bombardiere navale. Questa tipologia di aerei in effetti, come ampiamente dimostrato all’epoca dell’ultimo conflitto mondiale ad opera dei giapponesi, può avere funzionalità tattiche e soprattutto logistiche di portata estremamente significativa. Intanto per la sua capacità di decollare ed atterrare presso qualunque tratto di mare, ma anche per la notevole autonomia, per uno sfruttamento intelligente del sistema a turboeliche, meno rumoroso e complesso da mantenere dei propulsori a jet usati normalmente dagli aerotrasporti militari con decollo ed atterraggio a terra, accoppiato a serbatoi capienti nella carlinga e nelle ali.
In quest’ottica l’AVIC AG600, nome in codice Kunlong, si pone come alternativa più moderna all’idrovolante nipponico ShinMaywa US-2, ultimo di una vecchia famiglia di velivoli dotati di scafo galleggiante, con equipaggio di 11 persone e un’apertura alare di 33 metri. Laddove l’evoluzione cinese, comprensibilmente creato in maniera specifica per sorpassarlo nelle sue potenzialità, vanta una capienza di ben 50 persone per un’estensione delle ali pari a 38 metri, mentre la sua capacità di carico, 55 tonnellate, supera di quasi un terzo quella del rivale straniero. Caratteristiche che fanno, del nuovo aeromobile, il singolo idrovolante più grande attualmente in volo, venendo superato unicamente dal jet anfibio, mai prodotto in serie, del Beriev A-40 sovietico (41 metri) e la leggendaria “Oca d’abete” (Hercules H-4, quasi 100 metri di larghezza) portata a termine in ritardo dal celebre progettista statunitense Howard Huges per consentire ai rifornimenti americani di sfuggire ai siluri degli U-boat, soltanto per essere accantonata dal governo in quanto troppo costosa e poco pratica per un paese ormai fuori da spropositati conflitti globali. Ciò detto, sia chiaro che stiamo parlando di aerei di vecchia concezione, concepiti per assolvere a ruoli precisi ed estremamente definiti. Laddove il Kunlong, il cui appellativo cinese significa “Leggendario Pesce-Drago”, fa della versatilità una delle sue doti più caratterizzanti. Come ampiamente trattato nelle numerose dirette televisive e sul Web trasmesse questo scorso 24 dicembre, al decollo del primo esemplare completo dall’aeroporto della città meridionale di Zuhai, presso i cui stabilimenti era stato assemblato e già messo alla prova, la primavera di quest’anno in chiusura 2017, in una serie di manovre ad alta velocità sull’asfalto. Già perché l’idrovolante in questione, come del resto la stragrande maggioranza dei suoi competitors moderni, è dotato di carrello retrattile da schierare nel caso in cui si renda necessaria la rassicurante vecchia manovra dell’atterraggio su terraferma. Motivo per cui si richiede, al pilota, una particolare attenzione nella scelta della configurazione idonea all’effettiva superficie a cui dovrà fare ritorno al termine della sortita. Più di un aereo simile si è cappottato in mare, per la resistenza offerta inopportunamente all’acqua dalle sue ruote distrattamente abbassate a sproposito durante le operazioni di rientro…

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Nell’arida California, rosso è il colore che ti salva dal fuoco

Sedevo in veranda leggendo nervosamente un buon libro, mentre all’improvviso mi resi conto del problema: “Se il vento cambia, sarà la fine.” Non perché abito in una di quelle case fatte di carta, sulla strada lungo cui transita un uragano. Ma perché tutto quel verde che sorge oltre la siepe, a dire il vero, è un bosco del peggior tipo: un bosco californiano. Straordinariamente rigoglioso, per l’effetto di una stagione delle piogge ogni anno lunga e intensa, eppure eccezionalmente secco, proprio per la totale assenza di precipitazioni a partire dall’inizio del vero e proprio periodo invernale. Quest’anno, poi, la situazione è semplicemente la peggiore a memoria d’uomo. Ciò causa l’inversione dei venti, che normalmente soffiano da ovest, portando l’aria umida dell’Oceano Pacifico. Mentre oggi, causa il palesarsi di una perturbazione nota col nome seriamente programmatico di (El) Diablo, provengono dritti dal nord-ovest dell’arido Mojave, dove i coyotes inseguono il Geococcyx californianus, comunemente col nome di “uccello Beep Beep”. Descrizione conduttiva di un noto paesaggio, ed un particolare grado di umidità, che potremmo semplicemente descrivere come uno zero spaccato, per di più ricoperto di crepe. Venti come questo non spengono gli incendi sul nascere. Simili flussi d’aria, quando incontrano il fiore che tutto arde e consuma, lo sollevano in un caldo abbraccio, e lo portano innanzi per fargli conoscere il mondo intero. “Eh, si.” Sospiro. Per lo meno, c’è un lato positivo: rispetto al mare di lingue di fiamma che ricopre intere contee della dimensione di una piccola nazione europea, come l’incendio di Nuns, quello di Atlas e Partrick, la mia fortunata abitazione si trova sopravvento. Così che, l’intera località dei miei soggiorni non ha ancora ricevuto l’ordine di evacuare. È in quel momento che alzo lo sguardo, casualmente, verso il gallo segnavento sul tetto del mio salotto. E noto, con momentaneo orrore, che si è voltato di lato. Chissà da quanto! Eppure prima che io possa prendere atto di cosa significhi tutto questo, odo un rombo possente nell’aria: “Possibile che…Che…” Ehi, aspetta un attimo. Il fuoco non fa rumore. Voglio dire, non produce rombi paragonabili a quelli di un bimotore da trasporto che vola a bassa quota, con apertura completa della manetta per far fronte al peso del carico che si trova, ancora per poco, a bordo. Poiché nessun californiano tarderebbe nel riconoscere la caratteristica livrea rossa e bianca, né la forma stilizzata del logo a banana sul lato della carlinga sospesa in aria: Cal-Fire. Cal Fire. Calfire: la California tracciata in maniera sommaria. Che brucia. Di nuovo…. Con occhi spalancati per lo stupore, guardo la forma straordinariamente aerodinamica del DC-10 ancora per un secondo, giusto il tempo necessario a scorgere l’emersione della polvere che fa seguito, immancabilmente, alle sue sortite. L’ombrello che emerge dal retro si allarga come la corona di un fiore. Quindi inizia a discendere verso di… Me! Chiudo il libro, balzo dalla sedia, corro verso la porta che da sulla veranda. Ho esattamente 10 secondi, al calcolo intuitivo, prima di essere trasformato nell’equivalente di un demone insanguinato sulla scena cardine di un film dell’orrore.
Narrazioni in prima persona a parte, sarà chiaro di cosa stiamo parlando, ormai. Il video mostrato qui sopra è in realtà l’ultima pubblicazione della YouTuber Jenny Crane, registrata mentre si trovava presso la casa del padre nella contea di Murrieta, non troppo distante dal confine messicano. La quale ha avuto, lo scorso 8 dicembre, la fortuna (?) di trovarsi al di sotto del passaggio di uno di questi aeromobili, deputati dal servizio antincendio dello stato ad assistere le forze di terra durante lo strenuo sforzo per contenere l’annuale, inevitabile disastro dello stato che brucia ogni anno, in maniera che tende costantemente a peggiorare. Dispositivi questi, talvolta a noleggio, ma nella maggior parte dei casi acquistati ed in uso ormai da decadi intere grazie al programma denominato CDF Aviation  Management, che invece che colpire direttamente le fiamme con un rilascio diretto mirato a spegnerle, utile soltanto nei casi meno avanzati, gettano qualcosa di totalmente diverso sulle possibili strade della sua diffusione. E il nome commerciale di questo prodotto, venduto in polvere ma poi mescolato ad acqua e pigmenti colorati, è Phos Chek. Nient’altro che una miscela di sali di diammonio, monoammonio, nitrogeno e fosforo con gomma degli alberi di Attapulgo e di Guar. Questo affinché, una volta rilasciata sulla foresta o le abitazioni, non scivoli immediatamente a terra, ma aderisca saldamente a ogni tipo di superficie. Ed operi, efficacemente, la sua magia…

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Elicottero infuriato brucia il bosco californiano

43 residenze, 53 edifici, 8 strutture annientate dalle fiamme. 69.438 acri andati in fumo, nonostante il coinvolgimento di 227 vigili del fuoco. Nelle regioni più secche degli Stati Uniti, gli incendi sono talmente grandi, e devastanti, da riuscire a guadagnarsi addirittura un soprannome. Come il “Rocky Fire” che nell’estate del 2015 porto disastro e distruzione per un territorio notevolmente più esteso della media. “E ti credo!” Avrebbero esclamato i più ingenui tra gli spettatori. Tutta colpa di quel temibile pilota col suo diabolico arnese volante. Iniziò a girare voce tra i locali. Ne parlò persino il TG, con scene che parevano prelevate da un film di fantascienza speculativa sulla falsariga di Farheneit 451. L’elicottero, apparentemente non dissimile da tutti gli altri, si sollevava in volo ai margini del centro abitato. Trascinandosi dietro quello che guardando da lontano, non poteva assomigliare ad altro che un secchio per il trasporto dell’acqua. Se non che appariva, stranamente, sigillato. Quasi come se gli addetti a terra l’avessero precedentemente riempito con un liquido speciale. Così una volta raggiunta la scena delle fiamme, avreste visto questo arnese che deviava verso i margini del caos. E invece di puntare dritto al centro come da prassi, scaricava il contenuto del barile ai lungo quel tragitto che si riteneva più probabile per il propagarsi dello show. Soltanto che, apriti cielo: letteralmente. Mentre l’aria si faceva tremolante, per l’effetto del calore e la rarefazione, quello che scendeva era soltanto fuoco, altro fuoco, tanto per contribuire alla devastazione sistematica dell’universo vegetale. Stop. Cosa stiamo vedendo? C’è una tecnica, che in molti conosciamo, per limitare il verificarsi di una simile evenienza. Sto parlando della bruciatura controllata, durante cui gli addetti alla foresteria, senza alcuna esitazione, appiccano le fiamme ad aree attentamente definite del territorio oggetto delle loro responsabilità. Avendo cura che le piante più alte sopravvivano e ottenendo, in questo modo, che erba secca, foglie morte ed altro combustibile si trasformino in cenere e concime. Quello che abbiamo modo di scrutare in modo assai meno frequente, tuttavia, soprattutto qui da noi in Europa, è la versione più disperata di una tale prassi, che prevede l’intervento con l’incendio in corso ormai da svariate ore. Quando i metodi convenzionali non bastano più a risolvere la situazione, e l’unica risorsa che rimane all’uomo, è disegnare le cosiddette “linee nere”; aree lunghe e sottili dove non resti assolutamente nulla che il fuoco possa lambire. Lasciandogli la sola scelta di fermarsi, e poi dissolversi nell’aria.
Un tipo d’intervento tradizionalmente riservato solamente ai più convinti e coraggiosi tra i volontari, per il semplice fatto che potrebbe corrispondere, in linea di principio, ad un chiaro intento di passare a miglior vita. Gli improvvisi mutamenti della direzione del vento, dopo tutto, sono un caso proverbiale, così come il rischio che pervade questo gesto di aggiungere altro fuoco dove già il terreno brucia, ritrovandosi potenzialmente chiusi tra pareti che si stringono, un poco alla volta. Finché per fortuna, attorno all’epoca degli anni ’60, i pompieri forestali della Divisione Incendi Californiana (CALFIRE) non iniziarono a sperimentare un nuovo tipo di approccio al problema. Legare un lungo cavo sotto un elicottero, ed attaccarvi… Varie cose. Un processo noto come helitack, il cui inventore resta largamente ignoto, ma che avrebbe rivoluzionato su scala globale il metodo per approcciarsi agli incendi boschivi. Ben presto ci si rese conto agire da terra nelle circostanze più infernali era un rischio che non occorreva più correre, a meno che si fossero già tentate tutte le alternative a disposizione. Tra cui quella, decisamente Heavy Metal, di gettare l’equivalente civile del napalm sul sentiero più probabile dell’espansione dell’incendio. Sia chiaro che stiamo parlando, in questo caso, dell’elitorcia, uno strumento che non costituisce, contrariamente al suo apparente aspetto, la più compatta e versatile delle armi di distruzione di massa. Bensì un utile alleato nella lotta contro entità spietate come il Rocky Fire del 2015, e così tutti gli altri incendi a venire. Un lanciafiamme buono, in altri termini. Il più improbabile degli ossimori, tra tutti quelli che potremmo concepire in un’epoca successiva alle grandi guerre del ‘900.

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