La vecchia Kyoto riemerge in un filmato sonoro del 1929

Capsule temporali mai sepolte, che riemergono dalle polveri di un’ignota videoteca per colpire gli occhi e l’immaginazione di chi si ritrova, inaspettatamente, a guardarle; nel più strano dei luoghi, su Internet, tra trailer del cinema e facete notizie d’attualità. Difficile capire chi sia effettivamente Guy Jones, l’utente di YouTube che pubblica a getto continuo sequenze video prelevate dall’archivio digitalizzato dell’Università della South Carolina (come facilmente desumibile dal logo sovraimpresso) eppure appare evidente come la qualità del suo materiale meriti più di uno sguardo distratto da parte degli “appena” 10.000 iscritti che gli è riuscito di accumulare in un periodo di 9 anni. Scene come questa recente pubblicazione, che mostra con vivacità eccezionale un periodo storico del Giappone tanto importante, quanto largamente sconosciuto ai molti estimatori internazionali della cultura di quel paese. Poco prima della Grande Depressione statunitense, quando la principale potenza dell’Estremo Oriente si era vista riconoscere, con il Trattato delle Quattro Potenze ratificato da Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, la potestà delle recenti conquiste ottenute nell’area del Pacifico. Qualcosa che non sarebbe mai stato perdonato all’Occidente dalle nazioni sottomesse e il cui stato dei fatti avrebbe condotto, negli anni immediatamente successivi, a molte proteste ed almeno 64 incidenti di violenza politica, incluso l’assassinio del primo ministro, nonché il tentativo di far colpire con una granata l’allora reggente imperiale Hiroito, un tentativo che avrebbe probabilmente anticipato di quasi una decade lo scoppio della seconda guerra mondiale.
Ma nel frattempo, tra la gente del popolo tutto questo aveva ben poca importanza, specialmente nelle grandi città, dove la vita scorreva ancora con la serenità e la spensieratezza dell’epoca dei samurai, ancora profondamente sentita nel cuore e nell’anima delle persone. Si è sempre affermato che il Giappone costituisca una singolare mescolanza di passato e presente, una questione in realtà parzialmente dovuta dalla fulminea svolta storica della Restaurazione Meiji, il preciso momento, nel 1868, in cui il potere residuo dello Shōgun fu istantaneamente dissolto dai clan che intendevano restituire l’antico ruolo all’imperatore, il nonno dello stesso Hiroito. Aprendo la strada ad un’ondata di modernizzazione la cui rapidità e, almeno sulla carta, capacità di coinvolgere ogni fascia di popolazione, non avrebbe semplicemente niente di paragonabile nell’intero corso della storia umana. Eppure fa una certa impressione vedere la gente di Kyoto, ben 61 anni dopo, che ancora cammina per le strade vestita per lo più con il kimono, l’haori (giacca) e altri indumenti tradizionali, magari completando la tenuta mediante l’inclusione di un cappello di fattura occidentale, come il fedora e almeno nel caso di un venditore di strada, quella che sembrerebbe proprio essere una coppola siciliana. Ciò è alla base della percezione stessa dei venti provenienti da Ovest da parte della mentalità giapponese: non una rivoluzione di valori stessi alla base delle propria cultura, come quegli anni furono vissuti in Cina, bensì un delicato e preciso affiancamento, mentre nulla di quello che era venuto prima poteva mai essere realmente abbandonato. L’intera prima sequenza del video, registrato con tanto di sonoro tramite l’impiego di una recente innovazione tecnica (il primo film con una traccia audio è Il cantante di jazz, del 1927) mostra evidentemente i dintorni all’estremo meridione della città, come esemplificato dal gruppo di bambini che danno da mangiare ai piccioni di fronte a una struttura riconoscibile come elemento architettonico del tempio di Tō-ji, nei pressi del quale ancora oggi si tiene ogni 21 del mese un mercato delle pulci dedicato al monaco Kūkai, anche noto come “Il grande maestro che propagò gli insegnamenti buddhisti”, prima di essere immortalato con il nome postumo di Kōbō-Daishi. Siamo nei pressi, per intenderci, dell’antico sito della porta Rajōmon (o in ambito letterario, Rashomon) dove secondo una diceria ed almeno un celebre dramma teatrale si ritrovavano i malviventi peggiori della città, incluso il bandito-demone Ibaraki Dōji. Per non parlare dell’assassino al centro della famosa vicenda dell’omonimo film di Akira Kurosawa del 1950. Ma senza soffermarsi troppo tra il vociare delle persone, ben presto la scena filmata dall’ignoto turista della macchina da presa si sposta oltre…

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I modellini di città grandi come una mattonella

Lo stato mentale necessario per creare qualcosa è un’effimera presenza, la scorrevole sensazione di un minuto appena. Se ci si ferma anche soltanto un attimo a pensare, per così dire, alla natura stessa del pensiero, diventa difficile a quel punto ritrovare un sufficiente grado di spontaneità procedurale. Così che l’unico approccio, prima di mettersi di fronte alla tastiera, al kit da pittura, al blocco di pietra che attende il colpo dell’ispirazione, diventa la meditazione. Svuotare la mente, traslando il proprio essere in quella regione sospesa tra l’oggi e il domani, senza alcuna traccia di distrazioni. È tendendo a questo, soprattutto, che gli artisti decorano la propria casa. Molto spesso può bastare un singolo oggetto, un quadro, una pianta o un soprammobile, per spostarsi assieme al proprio sguardo nell’altro regno, quello dell’assoluta prontezza della mente e delle idee. Si tratta propriamente, se vogliamo, di un meccanismo d’interazione tra i sensi e la coscienza di noi stessi. La ragione, più di ogni altra, per cui acquistiamo oggetti privi di una funzione nell’immediato. Pensate adesso all’efficienza che può avere, in tale schema, un qualcosa che possa coinvolgervi su due canali: sia visivo che tattile. Offrendo l’illusione di essere di fronte a un meccanismo dall’infinita complessità, benché si tratti, dopo tutto, di nient’altro che un modellino. Bianco, immobile, minuziosamente preciso. Il prodotto offerto dalla compagnia Microscape, fondata da due architetti di New York esattamente un anno fa risponde a una domanda che nessuno forse si era mai posto in precedenza: esiste un mercato per le mini-megalopoli, che puoi mettere  assieme sopra al tavolo di casa mediante l’uso di una serie di segmenti modulari? Con un roboante “SI” vista la quantità di fondi fin qui raccolti dal grande pubblico del web: 103.000 dollari al lancio della prima serie, dedicata all’iconica isola di Manhattan (senza considerare gli acquisti della versione prodotta in serie) e altri 54.000 per la seconda, che ha spostato la testina della stampante 3D nel regno concettuale della città ventosa sulle sponde del lago Michigan, Chicago.
Il terzo luogo più densamente popolato degli Stati Uniti, dopo New York e Los Angeles. Un centro abitato con la stessa quantità di abitanti nella sua area metropolitana della città di Roma, ma tutti concentrati in un’area decisamente più ristretta, grazie all’impiego di quella struttura tanto cara all’architettura statunitense: il grattacielo. E ne ha di grandi, e celebri, questa vera e propria capitale mancata: la Willis Tower, che tanto spesso abbiamo osservato svettare sopra l’aeroporto sull’isola artificiale di Meigs Field, scenario prototipico dell’eterno software Flight Simulator per PC; la Trump Tower, ormai celebre per l’associazione, non sempre lusinghiera, con l’attuale presidente degli Stati Uniti; gli Aon, John Hancock, Franklin Center…. Ogni nome una storia, ogni forma, una quantità di spunti d’analisi offerti alla mente che implora di essere distratta, anche soltanto per i pochi cruciali secondi prima di mettersi al lavoro. L’aspetto più intrigante di questa serie di modellini, definiti con lo stesso nome della compagnia produttrice (scelta tipica, di questi tempi) è la loro estrema precisione. Microscape, nelle persone di William Ngo e Alan Silverman, ha infatti concepito il suo progetto fin dal primo momento sulla base di una procedura molto importante nel campo delle rilevazioni urbanistiche e topografiche, la fotogrammetria aerea. Ovvero quella serie di procedure risalenti all’epoca analogica, ma che hanno trovato un’ampia diffusione soprattutto con l’introduzione dei programmi di grafica computerizzata, mirate ad effettuare misurazioni sulla base dell’immagine a due dimensioni. Il principio è semplice, in linea di principio: si prende l’ampiezza di un segmento già noto, in questo caso, ad esempio, la larghezza di una strada. E lo si riporta in qualsiasi altro punto dell’immagine, ottenendo in questo modo le precise proporzioni di ogni oggetto o spazio raffigurato. La procedura in se richiede ovviamente tutta una serie di accorgimenti specifici, dovendo tenere conto delle variazioni prospettiche, dei movimenti dell’aeromobile da cui si effettua il rilevamento e possibilmente, il confronto con i dati raccolti dal dispositivo GPS di bordo. Ma va da se che l’applicazione della stessa, possibilmente assieme ai dati relativi alla distanza registrati con l’uso di un apparato di scansione LIDAR, può ricreare un modello tridimensionale dello spazio sorvolato mostruosamente preciso…

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La strana assenza dei comignoli sui grattacieli di New York

Non è del tutto insolita la linea di pensiero che ci porta a definire l’innata “personalità” di un luogo. Come per l’inclinazione a individuare volti nelle nubi, nelle pietre, nelle forme del paesaggio, ogni agglomerato abitativo superiore agli otto milioni milioni di persone, ovvero una metropoli o persino megalopoli, può essere accostata ai suoi abitanti, come se costituisse la somma ultima delle loro aspirazioni, desideri, piccoli difetti quotidiani. Ma se questo è vero dal punto figurativo, qual’è allora l’effettiva “voce” di una simile entità? Dipende dai punti di vista. Secondo alcuni, il chiasso della gente per le strade, che si sovrappone in un unico suono disarticolato. Secondo altri, il suono che continua nella notte dai vecchi termosifoni. È questa un’esperienza che è stata sperimentata da più di un affittuario, trasferitosi per studio o per lavoro nella Grande Mela, soltanto per esserne svegliato nella notte, di un inverno cupo e sotto zero. Trovarsi così ad ascoltare il ritmo irregolare di una serie di colpi, come dispettose martellate, portate sul bersaglio da uno gnomo dispettoso che abita nei tubi del riscaldamento. Inframezzato dai suoi sibili fischianti, di una rabbia animalesca e primordiale, mentre tenta di attirare la nostra attenzione. Il che, in un certo senso, è esattamente quello che sta succedendo. Se interpretiamo l’umanoide dal cappello a punta come una metafora del primo segno del progresso, e il suo martello una protesta verso chi l’ha ormai dimenticato. Anche il fumo che esce dei tombini, un’altra nota prerogativa locale, è un frutto del suo costante lavorìo.
Un fastidio non indifferente, che tuttavia parla di un preciso attimo nel corso della storia. Sussurando, tramite quest’arcana versione del codice Morse, di un singolo momento noto come Grande Tempesta di Neve del 1888, che nel giro della singola notte tra l’11 e il 12 marzo, paralizzò e devastò l’intera città di New York, il Massachusetts, Rhode Island e il Connecticut come pochi altri fenomeni sarebbero riusciti a fare nel corso della loro storia. Qualificata come uno dei fenomeni atmosferici più grave mai verificatosi negli interi Stati Uniti, con oltre 150 cm di coltre candida e venti fino 72 Km/h, sufficienti a spazzare via, letteralmente, ogni cavo elettrico che fosse stato collocato al di sopra del livello stradale. 200 navi andarono distrutte e l’intero sistema dei telegrafi restò isolato, mentre gli stessi pompieri non riuscivano a montare una campagna di soccorsi dalle loro caserme, ormai irraggiungibili con mezzi a motore. Quando oltre una settimana dopo, quindi, il servizio ferroviario ricominciò a funzionare, e le persone poterono uscire dalle loro case per azzardare una stima dei danni (l’equivalente odierno di 670 milioni di dollari) si diede inizio al laborioso processo di ricostruzione. Una strada dopo l’altra, i tecnici civili scavarono le tracce necessarie per passare ad un metodo di distribuzione dell’energia elettrica che non fosse più soggetto ai capricci occasionali del vento. Ma mentre si trovavano lì, con lo schema della nuova rete chiaramente evidenziato dal passaggio dei loro strumenti di scavo, ricevettero una nuova direttiva dall’amministrazione centrale: disporre, già che c’erano, dei tubi del vapore. Il tutto per una presa di coscienza ormai largamente assodata: già sull’isola di Manhattan, stavano venendo gettate le fondamenta di un nuovo tipo di edifici. Luoghi come il World Building dell’omonimo giornale, dotati non di 5 o 6 piani, bensì 20, per un’altezza di 94 metri antenna esclusa. O la sede della Manhattan Life Insurance Company, che avrebbe potuto vantare un tetto all’altezza di ben 106. La gente iniziava a cogliere, in quei giorni, la direzione urbanistica che stava venendo intrapresa dalla classe al potere dei capitalisti, ed iniziava preoccupata ad interrogarsi sull’indomani: “Che cosa succederà sopra le nostre teste…” si chiedevano Joe & Stacy, uomo e donna della strada: “…Quando di edifici simili ce ne saranno dozzine, magari abitati da molte migliaia di famiglie, ciascuna dotato della sua cucina e caldaia per il riscaldamento?” L’esempio della Londra industrializzata, in quegli anni, era fin troppo noto a livello internazionale, un luogo perennemente avvolto dalla foschia, i cui cittadini non vedevano il cielo limpido ormai da almeno un paio di generazioni.
Ma questo particolare dramma della troppo rapida modernizzazione, qui, non avrebbe mai avuto modo di raggiungere il suo culmine più drammatico e soffocante. Grazie a una risorsa particolarmente trasformativa: la più grande infrastruttura al mondo di riscaldamento cittadino centralizzato, a partire da grandi impianti di cogenerazione dell’energia. Con un piccolo problema: i termosifoni a vapore, in assenza di manutenzione, tendono a intrappolare piccole quantità d’acqua che inizierà a rimbalzare tra i tubi, producendo un bel po’ di rumore…

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Londra: l’enclave brutalista e il sogno della città futura

Un’intera tavolata di funzionari, politici locali ingegneri ed architetti, oltre ai capi dei pompieri e della polizia, gli aldermanni, i direttori dei comitati costituiti dai diversi quartieri della città. E a capotavola, con atteggiamento compunto, niente meno che il Principe del Galles, Carlo d’Inghilterra. L’anno è il 1987, l’occasione: una cena della Corporation of London presso il palazzo reale di Hampton, organizzata per presentare la medaglia d’oro all’architetto indiano Charles Correa. Inaspettatamente, la conversazione devia verso un argomento piuttosto delicato. In un’espressione accalorata dal tenore non propriamente British, l’eterno erede al trono pronuncia una frase destinata a restare negli annali: “Bisogna ammettere una cosa in merito alla Luftwaffe. Quando ha bombardato i nostri palazzi, almeno non li ha rimpiazzati con niente di più offensivo che un cumulo di macerie.” Risate nervose, un lungo silenzio. Lo sguardo di lui diretto con sicurezza a nord-ovest, attraverso la finestra, dove attraverso il complicato skyline cittadino, si scorgono appena tre torri. I loro nomi? Cromwell, Shakespeare e Lauderdale. Per molti, parte di un incubo di cemento che getta la propria ombra sui londoners senza colpa. Per alcuni, tra cui la stessa regina Elisabetta: “Uno dei miracoli più significativi dell’epoca moderna.” Che differenza. Del resto, la chiave interpretativa non può che essere differente, per l’unico capo di stato ancora in vita che quella guerra l’ha vissuta in prima persona, arrivando a servire come autista e meccanico nel Corpo Ausiliario delle Donne Volontarie, ottenendo ovviamente il rango di comandante onoraria nel giro di poche settimane. Lei, tuttavia, c’era. E quando quei palazzi sono risorti dalle ceneri di una delle epoche più cupe nell’intera storia del Regno Unito, deve certamente averli interpretati come un segno di cosa potesse riuscire a fare il popolo inglese, quando gli riesce di mettere da parte le sue differenze. Furono il frutto di un grande concorso pubblico, questi palazzi e il loro intero quartiere, che vide l’assegnazione, a partire dagli anni ’60, della riqualificazione della zona allo studio di giovani architetti Chamberlin, Powell and Bon, già famosi per aver costruito il complesso di case popolari di Golden Lane. I quali, in quegli anni di boom economico, erano fermamente intenzionati a rivoluzionare il concetto di vita urbana, attraverso una serie di soluzioni che non avevano mai trovato precedente applicazione sull’isola di Robin Hood.
Così sorse The Barbican, l’utopia. E al tempo stesso una distopia, apparentemente fuoriuscita dai romanzi di fantascienza sul più oscuro destino dell’umanità. 140.000 mq, occupanti la zona dove ai tempi antichi sorgeva un forte romano presso il fiume Tamigi, nel pieno centro della città. Costruito sui resti dei bombardamenti tedeschi secondo i crismi estetici del modernismo dell’architetto svizzero Le Corbusier, da cui i tre londinesi dissero di aver tratto la loro principale ispirazione. Ma attraverso una lente che guardava ancora più avanti, quella della corrente cosiddetta (non senza una certa carica denigratoria) del brutalismo architettonico, che non venne mai formalizzata con un suo fondatore, manifesto o precise misurazioni operative. Certo: nessuno voleva averci a che fare, ufficialmente. Ma che vide spuntare i suoi formali e rigidi prodotti qui e là in Europa, negli Stati Uniti e soprattutto all’interno dell’Unione Sovietica, dove diede i natali alla più grande parte dei monumenti e delle strutture sanzionate dal partito. Finendo per diventare, irrimediabilmente, uno dei simboli di quest’epoca e quelle immediatamente a venire. Certo a guardarli oggi, i tre grattacieli inclusi nel progetto fanno una certa impressione. Parallelepipedi di 42 piani, completamente grigi e privi di tratti distintivi, circondati da un intero complesso di 13 palazzine residenziali rese lievemente più slanciate unicamente dal modulo dei semicerchi bianchi, che si ripete lungo l’intero confine superiore delle facciate-muro. Perché in effetti, è di questo che si tratta: una vero e proprio castello, come suggerisce anche il suo nome (il barbacane fu, tra le alte cose, una fortificazione medievale) nettamente separato da ciò che lo circonda. Nessun segno del traffico o il vociare costante della città di Londra. È un luogo stranamente silenzioso dove le automobili non possono accedere, abitato principalmente da tecnici e artisti benestanti, che occupano in solitario l’infinità quantità di appartamenti, piuttosto piccoli e costosi per il tenore di vita dell’epoca contemporanea. Le finestre interne si affacciano su piazze verdi, i cui sentieri di accesso sono volutamente poco visibili dalle strade esterne. E strutture comuni come una grande serra, un museo e una libreria permettono, per lo meno in linea di principio ai suoi residenti di godersi la vita senza mai dover uscire da questa zona privilegiata e distinta. Senza dover entrare troppo nei particolari, tuttavia, sarà il caso di sottolineare che non fu sempre così…

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