Nella lunga e stratificata tradizione mitologica del Giappone, innumerevoli luoghi nascondono uno spirito ulteriore o l’aspetto intangibile del mondo segreto, da cui Dei e creature sovrannaturali possono influenzare l’esistenza degli umani. E il più caratteristico dei fenomeni atmosferici, capace di un alto strato candido le più svariate superfici, non fa certamente eccezione. Esistono almeno due macro-gruppi di yōkai (妖怪 – apparizioni) appartenenti in via specifica a quel tipo di paesaggio: la Yuki Onna, donna della neve, e il Yuki Jiji ovvero il vecchio, oppure nonno, dello stesso gelido elemento. Sulla base di questi due personaggi, o vere e proprie maschere del teatro popolare, si affollano varianti: lo spettro che cavalca le valanghe in occasione di speciali ricorrenze; la strega dalla testa enorme che saltella su una gamba sola, poco prima di rapire e divorare gli incauti bambini del posto; la diafana fanciulla che incontrato un samurai presso il sentiero, gli mette in braccio il suo bambino, il quale diventa progressivamente più pesante fino ad immobilizzare il malcapitato e portarlo ad una lenta morte per congelamento.
È perciò del tutto naturale, nonché stranamente rassicurante in maniera inversa, che ogni essere inumano che trova collocazione nel sostrato di acqua congelata debba necessariamente avere intenzioni malevole, come si confà a questa ricca categoria di prodotti della mente immaginifica di lunghe generazioni d’artisti e poeti. Tutti tranne uno specifico tipo di mostro, che è possibile incontrare in molti luoghi ma che resta strettamente interconnesso, nell’immaginario comune così come nei fatti, alle ripide pendici del monte Zao, vulcano ormai soltanto lievemente attivo nella prefettura di Yamagata al confine con Miyagi, in quella stessa regione del Tohoku che venne colpita, nel 2011, da uno dei terremoti più terribili a memoria d’uomo. Abbastanza forte da distruggere edifici, rendere deserti interi villaggi, spazzare le coste con la furia delle onde che ogni cosa annientano mentre liberava la furia di un potenziale disastro atomico a Fukushima, ma NON cambiare le antichissime e immutabili regole della natura. Parte di un sistema per il quale, ogni anno tra ottobre e marzo, il vento siberiano soffia verso meridione inerpicandosi su tali pendici dopo aver attraversato il Mar del Giappone, per causare, senza falla, lo spaventoso ritorno dei Juhyō (樹氷). Mostri di neve, come vengono chiamati a beneficio dei turisti, benché i due caratteri da cui è formato il loro nome abbiano il significato ben più descrittivo di “alberi ghiacciati” e i locali preferiscano impiegare la metafora della coda di un gambero, vagamente richiamata dalla sagoma che formano tali misteriose presenze. Dovete sapere a tal proposito che l’intera regione del monte di Zao è un’importante resort sciistico nonché una rinomata onsen (温泉 – stazione termale) ragion per cui, come succede spesso in queste terre, i visitatori negli anni hanno fatto il possibile per individuare un carattere specifico, ed in qualche modo capace di caratterizzare un viaggio fin quassù, dove le aspettative non potevano, semplicemente, restare deluse. E c’è da dire che sulla base di una simile interpretazione, il fitto manto boschivo che incapsula le piste del vulcano, tale da prevenire ogni accenno di creatività sciistica da parte dei visitatori, assume in tale modo un merito bizzarro ed ulteriore, che può essere inserito con orgoglio nelle guide e le brochure locali. Non che i Juhyō, del resto, possano essere descritti come altro che un prodotto di condizioni estremamente raro delle condizioni atmosferiche vigenti…
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L’altro animale simbolo della città di Singapore
Ogni metropoli possiede un punto di riferimento particolarmente famoso nel mondo e se la regola vuole che questo sia uno dei più antichi a disposizione, impressionanti o riconoscibili da lontano, esistono comunque delle eccezioni. Chiunque intendesse riassumere l’essenza di una delle più colossali città stato dell’Asia contemporanea in un singolo oggetto e luogo, dunque, potrebbe anche scegliere di farlo con una statua. Non una scultura particolarmente alta. Bensì un simbolo collocato per la prima volta in prossimità della foce del fiume nel 1972, che allude all’emblema originario del primo villaggio di pescatori dal nome di Temasek, da cui avrebbe preso gradualmente forma l’odierna Singapore. Evento a seguito del quale l’essere artificiale avrebbe trovato nuova collocazione, nel 1997, di fronte all’hotel cinque stelle Fullerton, per risultare meglio visibile dal celebre quartiere ultra-moderno di Marina Bay. Ciò che la statua raffigura, essenzialmente, è un distintivo animale mitologico di natura acquatica, con la testa di leone e il corpo di pesce, chiamato in lingua cinese Yúwěishī (鱼尾狮) ma che tutti conoscono, persino in Estremo Oriente, con l’espressione anglofona di Merlion (un composto con il prefisso di mer-maid, sirena + il termine comunemente riferito al più regale carnivoro della savana). Ciò che nessuno si sarebbe aspettato all’epoca, tuttavia, era che un diverso tipo di mammifero spiccatamente anfibio, nel proseguire degli anni, avrebbe finito per frequentare lo stesso ambiente, finendo per diventare un’attrazione turistica dalla portata pari o persino superiore.
Sto parlando della Lutrogale perspicillata o “lontra liscia”, specie animale considerata vulnerabile all’estinzione che nell’ultima decade, probabilmente grazie alla spiccata coscienza ecologica di una delle città con più verde in proporzione alle sue dimensioni, ha scelto di eleggere i parchi e i canali di Singapore suo nuovo territorio di caccia, dove prosperare, mettere su famiglia e mettersi in posa per una quantità incalcolabile di fotografie. Esistono in effetti una quantità di 16 famiglie di lontre all’interno del perimetro metropolitano, senza contare gli esemplari solitari, suddivise principalmente tra la zona di Bishan e Marina Bay, che si muovono come branchi prendendo d’assalto a seconda dei casi prati, aree di ristoro, scalinate e vari tipi di monumenti… Senza che tuttavia la cosa sembri, per una ragione o per l’altra, dare alcun tipo di fastidio alle persone. Una caratteristica di tutti i mustelidi d’altra parte, inclusa la loro principale sotto-famiglia coi piedi palmati, è l’atteggiamento marcatamente empatico del tutto simile a quello di un cane, che li rende curiosi, entusiasti e inclini al gioco. Come artisti di strada gli animaletti si esibiscono, non facendo in realtà altro che la natura gli ha insegnato attraverso innumerevoli generazioni. Eppure praticamente nessuno, di fronte alla loro carica, potrebbe restare del tutto indifferente.
Il primo ed unico ascensore scavato nel grattacielo di pietra
C’è un suono collettivamente prodotto di un intero gruppo di persone che all’improvviso trattiene il fiato, rilasciandolo in contemporanea in un trasalimento udibile perfettamente tra i confini della cabina eccessivamente affollata. La quale, al volgere di un cruciale attimo, fuoriesce dalla letterale rampa di lancio all’interno del suo zoccolo di grigio cemento, per emergere nel puro regno della nebbia e del cielo. Perché se anche manca una vaga traccia dei 100 draghi promessi nel nome Bailong (百龙) le molte paia di occhi non possono fare a meno di spaziare tra un comparabile numero di svettanti pilastri, eredità in quarzite e arenaria lasciata da un’oceano prosciugato in distanti eoni. Siamo nel territorio di Wulingyuan, non troppo lontano dalla capitale provinciale dello Hunan, Changsha, punto d’accesso elettivo ad alcuni dei luoghi topografici più memorabili di tutta la Cina; ma nel preciso momento in cui la gente si trova a metabolizzare quel panorama, non si direbbe. A tale punto estrema e straordinaria ci sembra l’immagine mediata dallo spesso vetro protettivo di questa capsula, lanciata verticalmente attraverso la più fedele equivalenza di un paesaggio alieno. Quello, nello specifico, del pianeta Pandora mostrato nel film Avatar, per le cui isole fluttuanti James Cameron scelse dichiaratamente d’ispirarsi all’effetto restituito da questo luogo, nei frequenti momenti di accumulo della nebbia a bassa quota. Tanto eccezionale la vista, quindi, quanto può esserlo definito l’apporto tecnologico a sostegno di tutto questo, il singolo ascensore posizionato in ambienti esterni più alto, più veloce e dalla capienza mai costruito da mano umana.
Di certo non è per tutti, questo Bailong con le sue tre cabine quasi del tutto trasparenti, ciascuna sviluppata su uno spazio di due piani sovrapposti al fine di massimizzare il trasporto turistico verso le vette vertiginose e per un tragitto di 326 metri, esattamente 14 in più della torre Eiffel a Parigi. E in molti si lamentano su Internet del prezzo del suo biglietto, di “ben” 78 yuan (circa 10 euro) all’andata e altrettanto al ritorno per appena un minuto e mezzo di osservazione possibile del panorama, a patto di essere riusciti a posizionarsi abbastanza vicino al vetro. Ma la realtà apprezzabile anche a distanza è che qui siamo di fronte all’alternativa di oltre due ore di camminata sugli oltre 1.000 scalini necessari a raggiungere la vetta, contro il predominio assoluto della tecnologia sul paesaggio, capace di concedere una via d’accesso rapida verso uno dei luoghi più memorabili dell’intero continente d’Asia. Per poter dire, come amano fare da queste parti, “Anche io ci sono stato” senza alcun tipo di sacrificio o sforzo personale degno di nota.
Per chi apprezza d’altra parte i meriti tecnologici di un paese incline a percorrere le vie più eclettiche dell’architettura ormai da svariate generazioni, d’altra parte, la stessa semplice esistenza di una struttura simile, in quello che dovrebbe idealmente essere un territorio incontaminato e tutelato dall’UNESCO, non può che sorgere qualche interrogativo sull’effettivo contesto di una così ponderosa infrastruttura.
Doug l’abete solitario, ultimo gigante nella radura
Nella nostra percezione delle terre al di la dell’Atlantico, esiste spesso un netto meridiano che distingue gli Stati Uniti dal più grande paese nordamericano, famoso per gli alci, puma ed orsi delle alterne circostanze. Laddove la terra di Buffalo Bill, ispirata dal suo concetto fondativo del cosiddetto destino manifesto (“Uomo bianco, ciò che vedi ti appartiene di diritto”) ha percorso fino all’epoca contemporanea il più severo percorso di sfruttamento delle sue risorse, ricoprendo valli di cemento e laghi di oleodotti, perforando il deserto e tagliandolo mediante l’uso di rotaie, scardinando le montagne alla ricerca di bauxite o altri minerali di valore; mentre l’uomo nato sotto il segno della foglia d’acero, più tranquillo nel suo approccio alla natura e in qualche modo più “francese”, addirittura, rappresenterebbe un buon esempio di coesistenza con quest’ultima, a cui lascia un ampio spazio vergine e incontaminato. Il che non è del tutto privo di una base reale, capace di trarre l’origine da una coppia di particolari contingenze: in primo luogo, quanti POCHI siano effettivamente i canadesi, con una densità di popolazione concentrata unicamente al di sotto di una certa latitudine e che riesce a raggiungere, in media, appena i 4 abitanti per chilometro quadrato. Secondariamente, va considerato il movimento popolare acceso verso l’inizio degli anni ’90 con le cosiddette proteste di Clayoquot o Guerre della Foresta, culminanti con l’arresto di oltre 900 attivisti per i diritti degli arbusti e nel contempo, la nascita di una tardiva coscienza collettiva in merito all’aghifoglie questione. Iniziativa mai davvero terminata i cui attuali sostenitori, diretti discendenti di quel gruppo di coraggiosi contestatori, soltanto nel 2011 hanno trovato il proprio simbolo e monumento.
Soprannominato “Il grande Doug solitario” dall’appellativo comune della sua specie di appartenenza, l’abete di Douglas, questo è un albero che assai difficilmente può passare inosservato: situato non troppo distante dalla cittadina di Port Renfrew sull’isola di Vancouver, sulle coste del canale che conduce all’indirizzo dello Stretto di Puget, coi suoi 66 metri di altezza e 3,8 di diametro raggiunti attraverso almeno 1.000 d’esistenza riuscirebbe a spiccare anche tra i suoi simili, se pure lo circondassero da presso come per la prassi paesaggistica locale. Ma un destino più crudele dev’essersi abbattuto sulla punta del titano legnoso, come reso palese dal suo trovarsi in uno spazio di svariate centinaia di metri rimasto per lo più vuoto, fatta eccezione per i monconi dei suoi molti simili, abbattuti in un momento imprecisato di questi ultimi 10 anni. E quel disastro, come vuole la convenzione, è ancora una volta l’uomo.
Come dire “non m’interessa” del resto, a innumerevoli tonnellate del famoso legno di questi esseri, tanto resistente e pregevole da permettere di guadagnare oltre 10.000 dollari ad albero abbattuto, purché si tratti di un rappresentante del club superiore ai 50 metri… E poi cos’hanno mai fatto gli alberi per noi? Voglio dire, a parte permetterci di respirare…