Come in una sorta di meditazione ricorrente, quello strano suono è ricomparso nei capitoli più strani e salienti della mia vita. Mentre camminavo nella foresta, sapendo di essere sfuggito all’olfatto impeccabile del lupo cattivo. Fuori dalla stanza degli esami della scuola d’arte, nelle tenebre di un cielo senza Luna. Mentre camminavo nello spazio angusto di una trincea in guerra, in mezzo ai colpi rimbombanti dell’artiglieria nemica. In visita al pianeta natìo del malefico essere intergalattico Thanos, sottolineando l’apparente quiete che precede l’ultima battaglia. Simile al richiamo di un gufo, ma più profondo, non troppo dissimile dalla nota prolungata di uno strumento a fiato, caratterizzata da una simile inerente complessità auditiva. Prima un incipit, verso la metà di un ottava, quindi un brusco e tremulo aumento di frequenza per poi scendere di nuovo, in un solo movimento fluido degno di un cantante d’opera di lunga carriera. Ma ho partecipato veramente a simili momenti? O li ho soltanto visti da lontano, attraverso la lanterna magica di un proiettore, seduto comodamente sopra le poltrone cinematografiche di questo ben più noioso (e qualche volta, prevedibile) mondo… Realtà e fantasia si fondono, mentre la linea di demarcazione sfuma progressivamente oltre il baratro della non-esistenza. Il tutto accompagnato dal sussurro vibrante, e ripetuto, dell’uccello noto dalle nostre parti come strolaga (o gavia) e agli anglosassoni con l’onomatopea onomastica di loon.
E non chiamatelo, assolutamente, un’anatra. Né un’oca, sebbene nelle dimensioni si trovi esattamente tra l’una e l’altra, essendo inoltre dotato della stessa forma tondeggiante di un uccello fatto per riuscire a galleggiare facilmente, mantenendo il giusto grado d’isolamento dalle condizioni climatiche del freddo settentrione. Dove dovrebbe normalmente risiedere, se un’intera generazione di tecnici del suono, copiandosi a vicenda, non avesse scelto di eleggerne il caratteristico prodotto auditivo a simbolo perfetto del mondo selvaggio, naturale e in qualche modo sottilmente inquietante. Scelta non del tutto incomprensibile, quando si raffronta questo susseguirsi di possenti sibili ululanti alla risata di una iena, o l’enfatico confronto di un intero gruppo di scimmie. Nella maniera ampiamente dimostrata dal recente video della testata Vox, che ne ha realizzato una disquisizione ricca e approfondita, corredata dai commenti dell’esperto Terry Sohl (Dakota Birder) utente social particolarmente entusiasta di poter confermare uno degli aspetti più letteralmente stonati dell’attuale cinematografia d’intrattenimento: il ricorso frequentemente improprio al verso della gavia, persino in situazioni ed habitat del tutto impossibili, quando non si giunge addirittura a mostrare coerentemente un uccello del tutto diverso. Laddove l’effettivo aspetto ed eleganza di questo intero genere d’uccelli, perfettamente esemplificato dalla specie di maggior diffusione G. immer (“comune” o “settentrionale maggiore”) avrebbe pienamente giustificato la sua inclusione in ogni tipo di pellicola, considerata la notevole livrea del piumaggio, con un campo nero punteggiato di macchie bianche notevolmente regolari, mentre la testa ed il collo risultano tinta unita fatta eccezione per il distintivo ornamento di una gorgiera a strisce, degna del miglior ritratto di epoca Elisabettiana. E un becco dalla forma e il senso di minaccia tipici di un vero e proprio pugnale, per l’appunto usato dall’uccello con crudeltà niente affatto minore, durante i lunghi tuffi in immersione effettuati fino alla profondità incredibile di 60 metri, alla ricerca di un’ampia varietà di piccole creature marine. Mentre la conformazione stessa del suo corpo, ad un più attento esame, si rivela per ciò che è davvero: perfetta coniugazione di fattori idrodinamici in una guisa tanto affusolata, da riuscire a sfidare l’innata resistenza delle acque maggiormente torbide e gelate. Le gambe arretrate, tali da ridurre l’agilità sulla terra ferma. Finendo per ricordare in effetti, piuttosto che l’anatra precedentemente menzionata, una sorta di vero e proprio pinguino volante. E che sa staccarsi, in effetti, da terra con estrema abilità e perizia, se è vero che talune gavie viaggiano fin dalle soglie dell’Artico per molte migliaia di chilometri, fino agli accoglienti laghi meridionali di California, Messico, Francia, Spagna e Portogallo, per trascorrere l’inverno tra una stagione e riproduttiva e quella successiva…
cinema
Pedalando a perdifiato sulla strada che circonda la piscina svizzera del demonio
L’essere procede senza sosta verso un obiettivo di tipo largamente ignoto. Ripreso prima da un qualcosa di veloce in grado di seguirlo nelle sue roboanti curve ed evoluzioni, quindi dall’alto grazie all’uso di un conveniente elicottero (sempre più raro nell’epoca dei droni) il ciclista Alexandre Favre percorre il sottile nastro d’asfalto tra bassi guard-rail e una parete ruvida e scoscesa, assecondando l’andamento di una complicata progressione tra asperità mondane. D’un tratto, come un abbaglio, si spalanca innanzi l’ampia bocca di una caverna. È un breve tunnel, a cui ne segue un altro, e un altro ancora.
Luci ed ombre che s’inseguono, sinuose, come scaglie di un serpente senza capo né coda. Come i casi alterni e le vicende della vita, i devastanti eventi storici che assieme riescono a costituire la storia di un luogo. Così appare Derborence, in Svizzera: un luogo. O punto di passaggio, e d’incontro, tra il mondo naturale e quello frutto delle ambizioni e i desideri di chi ci vive, attraverso l’impiego della più classica interfaccia dei siti montani. La strada, che s’insinua tra gli alti picchi delle Alpi grazie all’uso pregresso di potenti mezzi da costruzione, esplosivi e intraprendenza, avvicinando in modo significativo i punti collocati sull’estendersi della linea procedurale; tra partenza ed arrivo. Tra l’azione e la reazione. Tra il sopra ed il sotto, nell’imitazione pallida ma pregna dell’evento che potremmo individuare come origine di tipo mitologico di un sito tanto ricco di fascino e validi elementi di distinzione. Poiché Derborence risulta essere per chi lo visita nei giorni dell’odierna circostanza, soprattutto quel particolare specchio d’acqua montano, isolato, non vastissimo, trasparente e ricco di un fascino paesaggistico notevolmente distintivo, che compare molto spesso sulle cartoline e nei racconti dei viaggiatori di mezza Europa. Ma non quelli, ciò è assolutamente determinante, che siano passati da queste parti prima del 23 giugno 1749, quando la seconda di due grandi frane avrebbe trasportato giù dalle montagne antistanti di Rochers e Scex de Champ circa 50 metri cubi di rocce, terra e ghiaia. Investendo le tranquille pendici, spazzando via più di 40 malghe usate dai pastori nella stagione della transumanza, cambiando il percorso di almeno tre diversi fiumi. E scivolando giù fino alla valle sottostante, che avrebbe perciò perso la sua precedente permeabilità. Diventando pozza triangolare, di tipo endoreico, all’interno della quale un giorno sopravviveranno specie ittiche di varia natura. Benché data l’origine straordinariamente recente di una simile caratteristica topografica, il primo e più immediato effetto della circostanza si sarebbe configurato su un processo di tipo radicalmente diverso: la spontanea nascita, e conseguente crescita, della più giovane foresta vergine dell’intero territorio della Confederazione. Teatro d’innumerevoli escursioni rilassanti ed interessanti, in mezzo un patrimonio faunistico degno di nota, meraviglie botaniche di varia natura e i segni apprezzabili degli sconvolgimenti geologici pregressi, tra cui macigni erranti ed un monumentale ghiaione, pendio roccioso popolato da intere schiere di Pyrrhocorax graculus, l’uccello nero passeriforme più comunemente identificato con il nome di gracchio alpino. Non che tutto questo d’altra parte, sembri interessare in modo particolare il protagonista del nostro video né il regista del caso, lo specializzato Emanuel Schafer che, possiamo solamente immaginarlo, avrà apprezzato l’occasione di percorrere la stessa strada a bordo della propria bicicletta di un tipo non del tutto convenzionale. Attraverso le ripide discese ed irte svolte di un percorso il quale, d’altra parte e proprio come ci si aspetterebbe in uno dei più prosperosi paesi del Mondo Occidentale, appare in un perfetto stato di manutenzione riducendo i rischi collaterali dell’intera corsa folle. Il che costituisce, dopo tutto, il più evidente ed innegabile segno della sconfitta di colui che in prima persona si credette, all’epoca, aver causato il rovinoso evento trasformativo all’origine della questione. L’essere di tipo chiaramente sovrannaturale, che troviamo come nesso del ragionamento dietro il nuovo nome dei picchi antistanti il lago di Derborance: i temibili, nonché famigerati, Diablerets, ovvero letteralmente le montagne del Diavolo in persona. Sulla base di una credenza folkloristica la quale, per quanto poco probabile da un punto di vista meramente materialistico, merita senz’altro di essere citata…
New York del 1911, ripresa l’altro ieri
Come se niente fosse, sbarco dal traghetto di Ellis Island, dopo l’obbligatoria visita alla Statua della Libertà. Con aria spensierata faccio quattro passi per il lungomare dell’Hudson, gettando sguardi verso il celebre ponte di Brooklyn, nel tentativo vano di soprassedere alla perplessità delle persone. Che continuano a guardarmi, mentre m’inoltro lungo il corso della 5th Avenue sotto l’imponente forma del Flatiron, tra automobili d’importazione con la guida a destra, carrozze ed il brusio indistinto di una folla che pur essendo numerosa, non raggiunge certo i limiti di quanto avremmo modo di vedere quest’oggi. Tutti vestiti in maniera stranamente elegante, con giacca, cravatta (o cravattino) gli uomini ed imprescindibile cappello, ciascuno intento alla risoluzione di questioni che nonostante tutto, mi riesce difficile riuscire a immaginare. Ed è mentre passo sotto alle rotaie sopraelevate della svettante High Line costruita dalla New York Central Railroad, segno straordinario dell’ineccepibile “modernità” di tutto questo, che il mio essere sfasato sembra allinearsi su un diverso grado dell’esistenza, quasi come se per ogni trascorrere di un singolo secondo, e ciascun atomo all’interno della scena, qualcosa d’inusitato ne avesse creato un secondo. E quindi un terzo, un quarto quantum, proveniente dal reame parallelo della purissima immaginazione! Quello spettro che ogni cosa sovrintende, in questo caso fatto materializzare, dentro e dietro i nostri schermi, grazie all’artificiale cognizione… Digitalizzata?
È pregno considerare come l’infinita ed irrisolvibile sequela di paradossi, da cui non possibile prescindere nel momento in cui si teorizzano o ipotizzano i viaggi nel tempo passato, scompaiono immediatamente soltanto in un caso: quello in cui la leggendaria “macchina” risulti essere, per l’appunto, di un tipo solamente adatto alla foto/video-grafia. Non permettendo quindi di mettere in atto nessun tipo di alterazione sugli eventi, ma soltanto l’acquisizione di un supremo grado di conoscenza, su questioni d’interesse, le epoche trascorse, i nostri stessi antenati. Come una telecamera fluttuante o per restare in tema, magica cinepresa, pilotata in remoto sulla base del potere inalienabile della tecnologia. Che poi costituisce senza dubbio la tipologia d’idea creativa ricreata dallo stesso Denis Shiryaev, informatico e probabile addetto al marketing dell’azienda russa KMTT (Комитет) operante nel campo della pubblicità e (almeno sembrerebbe) le criptovalute, diventato celebre appena un paio di settimane fa per la creazione di un lavoro simile basato sul primo grande successo dei fratelli Lumière, inventori del cinematografo e scopritori del tipo di reazione simile all’orrore che potevi aspettarti dalla folla, nel momento in cui produci sullo schermo l’illusione di un treno in corsa che si appresta ad investirli tutti, nessuno escluso. Opera basata come la sua più recente, per l’appunto, sull’impiego di un particolare strumento tecnologico che pur non piegando le regole dello spazio-tempo, sembrerebbe appartenere nondimeno al regno della pura ed assoluta fantascienza: sto parlando delle reti neurali convoluzionali, baby.
Ovvero l’ennesima dimostrazione che non soltanto i computer possono essere più svelti e avere una migliore memoria degli umani, ma che in determinate circostanze, risultano persino in grado di superarli nella capacità cognitiva che maggiormente siamo certi ci caratterizzi: la speculazione immaginifica delle Ore…
Il mistero dell’idrovolante più famoso nella storia dell’animazione giapponese
Da qualunque lato la si osservi si tratta di una storia semplice, quasi una fiaba per bambini. C’è un eroe creato dalle circostanze, con un difficile passato. C’è l’amore di una donna, lasciato in bilico fino all’ultima scena. C’è il rivale ma nessun “cattivo”, fatta eccezione in senso lato per l’ideologia dei tempi, destinata ad essere resa obsoleta dalla storia. Ciò che rende, invece, memorabile il lungometraggio Porco Rosso, tra le opere di uno Studio Ghibli/Hayao Miyazaki all’apice del loro fulgore internazionale (1992) è l’attenzione infusa nei dettagli maggiormente minuziosi di un’ambientazione tanto inusuale, specie nel suo ambiente mediatico d’appartenenza: il Mar Adriatico e le sue isole verso la fine degli anni ’20, quando la grande depressione stava per incombere sopra testa di un’economia portata fino al limite più estremo di sopportazione. Eppure per quanto i numerosi riferimenti alla storia dell’aviazione di quei tempi, in aggiunta alla resa sempre ineccepibile di ambienti e costumi appaiano garantiti dal consueto impianto di ricerca straordinariamente approfondito, appare certamente lecito interrogarsi in merito a cosa, esattamente, stesse pilotando nel film l’aviatore protagonista Marco Pagot, i cui lineamenti appaiono, in maniera programmatica, del tutto indistinguibili da quelli di un suino antropomorfizzato (in un esempio antologico dello stile d’illustrazione giapponese che prende il nome di kemono – ケモノ, bestialità). Velivolo che sembrerebbe possedere, nei fatti, il nome ed il cognome di un idrovolante realmente esistito, il Savoia S.21, benché ciò costituisca già nei fatti, una (probabilmente) voluta inesattezza: l’azienda recante il nome della casa reale d’Italia, che avrebbe continuato a utilizzare tale stile di nomenclatura ancora per parecchi anni, aveva infatti all’epoca di quel modello (1921) ancora il nome di SIAI (Società Idrovolanti Alta Italia). E tutto questo non è ancora nulla, quando ci si approccia effettivamente a una ricerca tecnologica sull’apparecchio: l’S-21 era infatti, contrariamente all’aereo pilotato dal maiale titolare, un biplano. E benché fosse a quanto pare dipinto di rosso esattamente come nell’opera d’ingegno giapponese, una caratteristica difficilmente apprezzabile nelle fotografie in bianco e nero coéve, le ulteriori somiglianze sembrerebbero fermarsi al posizionamento insolito del motore, tipico in quegli anni, nella configurazione cosiddetta “a castello” ovvero in alto sopra la carlinga, con una serie di supporti verticali paragonabili all’impianto di un’esposizione museale. Per trovare quindi l’effettivo ispiratore del maestro dei disegni animati occorre ripercorrere una la storia di una celebre serie di competizioni, e i leggendari piloti che furono in grado di parteciparvi, che erano iniziate nel 1913 presso il Principato di Monaco, grazie al finanziamento e l’entusiasmo del magnate della finanza francese Jacques Schneider. Il cui trofeo, simboleggiato da una coppa recante la scultura in stile Liberty di una serie di spiriti del vento e delle acque incluso il dio Nettuno, si sarebbe accompagnato per i successivi 18 anni al premio cospicuo di 1.000 sterline, per l’azienda che si fosse dimostrata la migliore nel superare un’ardua serie di prove tecnologiche. Inerentemente capaci di dimostrare un qualcosa di cui quest’uomo era convinto: che il futuro dell’aviazione avrebbe tratto giovamento, senz’alcun dubbio, dai vasti mari e gli altri specchi d’acqua di questa Terra. Perché la natura ci aveva donato la miglior pista di atterraggio e decollo immaginabile, e sarebbe stato semplicemente una sciocchezza, mancare di utilizzarla…