Il leopardo dei cieli è un animale dalla genesi particolare. Naohko Kojima, artista esperta nelle arti della carta giapponese, lo ha intagliato nel corso di cinque mesi di lavoro all’interno del suo laboratorio londinese, per poi sollevarlo in alto e mostrarlo al mondo intero. Appeso al soffitto di alcune prestigiose location in giro per l’Europa, tra cui palazzo Beffroi di Parigi e Villa d’Olmo a Como, la sua figura slanciata costituisce un privilegiato strumento divulgativo di questa tecnica per decorare, nata nell’antichità e reinterpretata dall’autrice con le modalità di una vera e propria forma di scultura moderna, dinamica e fantasiosa.
Il ritaglio della carta, detto Jianzhi (剪纸) ha origine in Cina, durante la dinastia degli Han Occidentali (206 a.C.–220 d.C.) ad opera dell’eunuco imperiale Cai Lun, colui che ebbe anche il merito d’introdurre a corte l’utilissimo materiale, destinato a diventare ben presto una fondamentale ricchezza di tutti i sapienti e gli studiosi. Non è effettivamente chiaro se, come affermato dalle sue biografie coéve, sia stato lui a inventarlo in prima persona, oppure se ne abbia mutuato l’idea dalla sapienza popolare, creando un qualcosa di nuovo soltanto agli occhi dell’isolata classe dirigente. Di sicuro, tuttavia, c’è il suo contributo allo splendore del palazzo della capitale Luoyang, alle origini di un tale mezzo espressivo d’eccezione. Oggi gli ornamenti di carta cinese trovano posto in prossimità di porte, finestre, colonne, archi e lanterne, donando colore e un vezzo artistico ad ogni tipo di ambiente. Secondo la leggenda, Cai Lun impastava la sua materia speciale a partire da una miscela di corteccia, vecchie reti da pesca e stracci di canapa. La ricetta è andata perduta; ciò che resta è il sentimento creativo. L’animale di Naohko, così favolosamente tridimensionale, rappresenta un ideale di creazione naturalistica basata sulla semplicità del suo principale elemento costituente, un semplice foglio di carta. Nonostante questo, sembra pronto a ghermire la sua preda.
scultura
Il delizioso fascino della banana scolpita
Mangio la banana e quella mi guarda, ostile. Cosa vuoi da me? Questo deve aver pensato Keisuke Yamada, originale creativo giapponese, durante una merenda di un pomeriggio particolarmente tranquillo, senza alcunché da fare fino a sera. Un casco di banane può anche incutere soggezione e non tutti hanno la rapidità di mano e digestione di un qualunque Donkey Kong, lo scimmione in grado di divorarsi un quintale di potassio vegetale nel giro di pochi minuti. Così, il ragazzo guardava il suo spuntino, pensando. Finché non ebbe l’idea geniale: mettere “a frutto” l’arte. L’unico modo per approcciarsi a una pietanza maldisposta è trasformarla in qualcosa di familiare, ovviamente. Come un volto! L’unica documentazione ufficiale disponibile in merito a questo scultore-gastronomo, in grado comunque di monopolizzare gli spazi più eclettici del web, è un breve segmento televisivo di un programma nipponico recante il watermark generico di “Showbiz”. In questo si apprende di come l’autore usi semplicemente un cucchiaio e alcuni stuzzicadenti, che però in mano sua riescono a dare forma ai più magnifici personaggi e animali di fantasia. Banana-rockabilly, il primo soggetto della serie, non è che la reinterpretazione di un tipico musicista o ragazzo alla moda degli anni ’50, caratterizzato dalla svettante capigliatura a pompadour, che ancora oggi appare talvolta in determinati ambienti del Giappone, come tra i gruppi giovanili delle sottoculture tokyoite e delle altre grandi città dell’arcipelago. E poi c’è tutto il resto… Alla fine, per via del breve tempo di maturazione di questo dolce dono della natura, l’unica destinazione possibile per ciascuna scultura è la pancia di colui che l’aveva tanto minuziosamente creata. Niente mostre e musei, soltanto la trasformazione in calorie e saporito dinamismo cibario. Sublimazione, piuttosto che immortalità.
Un castello samurai fatto di cartone
Quanti giorni di assedio potrà mai sopportare un castello alto 40 cm? Probabilmente moltissimi, purché si tratti della precisa riproduzione di una delle più famose fortezze dell’epoca Sengoku (1478-1605), quel turbolento periodo al termine del quale la moderna nazione giapponese emerse dalle polveri di oltre un secolo di scontri tra i diversi clan samurai, attraverso guerre civili e difficili alleanze. Il castello di Matsumoto, anche detto bastione del corvo, venne costruito nel 1504 ed è ormai da tempo considerato un tesoro nazionale per i suoi notevoli meriti estetici e funzionali. Oggi eccolo lì, come se niente fosse, sul tavolo da pranzo di Upunushu, ragazza straordinariamente abile nel campo dei pepakura (modellini di carta incollata). Svettante, con tutte le sue feritoie yazama e teppozama al posto giusto, pronte ad ospitare rispettivamente gli arcieri e i fucilieri del clan Ogasawara, coloro che all’epoca regnavano nella regione dello Shinano. Un territorio decisamente difficile da difendere, tanto che la loro splendida residenza fortificata, piuttosto che sorgere in cima ad un colle impervio o in altri luoghi inaccessibili al nemico, era stata collocata nel mezzo di una palude, rientrando nel genere di castelli detti hirajiro, ovvero di pianura. Ma per compensare a tale inerente limitazione, poteva contare su alcuni significativi punti a suo vantaggio: tre vasti fossati pieni d’acqua, ovviamente assenti nella versione ridotta di Upunushu (gli si sarebbe squagliato il bastione). Una ricca dotazione dei cannoni lunghi Hazama, recentemente importati dai mercanti europei. Mura spesse e resistenti, percorse da vasti corridoi periferici, adatti al passaggio veloce dell’intera guarnigione in armatura, ulteriormente appesantita dalle armi e dalle insegne del clan che l’aveva edificato. Uno dei molti, purtroppo, destinati a perdersi tra le accidentate vie della storia.
Cameriere, c’è un gatto nel mio cappuccino
“Non si preoccupi, può berlo.” Risposta inevitabile: “Ma è troppo KA-WA-IIIIiiii!” In tale classica espressione deliziata, generalmente gridata in falsetto dagli amanti del Giappone di ogni età e parte del mondo, c’è un amore spontaneo che nasce dal comprensibile entusiasmo per qualcosa di speciale. Kawaii (かわいい) vuol dire carino. Dolce. Adorabile. Grazioso. Tenero…Qualcuno tempo fa decise che, per meglio trasmettere l’unicità di questo termine così esclusivo anche in lingua italiana, si dovesse usare il terribile neologismo PUC-CIO-SO, accompagnato da un’espressione estatica e dal gesto assai nipponico delle dita a V, possibilmente accennato appena, in una sorta di scatto nevrotico che però impegni entrambe le mani allo stesso tempo. E io mi vedrei un pò così, tipico turista beota occidentale, seduto al bancone di questo incredibile bar della città di Osaka. Il posto in cui lavora Kazuki Yamamoto, sovrano incontrastato nel sublime campo della latte art, ovvero quel procedimento che consiste nel creare immagini sulla schiuma del cappuccino. Come si può restare impassibili di fronte a tutto ciò? Costui non crea semplici figure, usando stuzzicadenti o cucchiaini per disegnare forme vagamente simili al soggetto da rappresentare, ma scolpisce letteralmente piccoli gatti, panda, giraffe e altri animali sulla sommità spumeggiante di quella semplice tazzina, mediante un procedimento che sembrerebbe assomigliare alla più mistica stregoneria. Miao! Apprezzato il gustoso aroma, bevuto il caldo e gradevole estratto del chicco di caffè, verrebbe quasi da aspettarsi l’imprevisto. Che dentro il bicchiere rimanga, magicamente, il candido gattino che tanto ci aveva intenerito col suo sguardo kawaii. Tutto bagnato e miagolante, destinato presto a squagliarsi e tornare in quei luoghi eterei da cui era provenuto. Concreto e al tempo stesso impermanente, come del resto ogni cosa bella della vita.