La lumaca più grande che abbiate mai visto

Black Sea Hare

A seguito delle feroci scorribande, i pirati si recavano presso una spiaggia nota solamente a loro, scavavano una buca e vi depositavano una parte del bottino. Ciò rappresentava, se vogliamo, il gruzzolo per la vecchiaia, la loro pensione. Ma la vita in mare è già davvero molto dura, e questo senza aggiungere i problemi di un brutale fuorilegge. Così questi individui, predoni e malviventi, spesso finivano per incontrare da vicino palle di cannone, lame di baionetta, punte di sciabola o i denti acuminati di uno squalo, dopo essere stati gettati fuoribordo dalla vittima che si trasforma in trionfatore. Lo scrigno del tesoro, dopo un tale evento, rimaneva incustodito per chiunque avesse voglia di cercarlo, ricordando, come da manuale, che la “X” marca il punto, ma non sempre puoi sapere ciò che troverai laggiù. E non è poi così diversa dalla vita del cacciatore di tesori, anche quella del naturalista cercatore, colui che cerca di trasmettere la sua passione, in Tv o sul web, mediante l’entusiasmo di scovare le creature più bizzarre, misteriose, all’apparenza aliene del pianeta Terra. Coyote Peterson, protagonista di tre differenti serie dagli alti valori di produzione ospitate sul suo canale Brave Wilderness, è molto bravo in questo. Perciò quando l’abbiamo visto dirigersi verso le pozze di marea (tidal pools) sulle coste del Pacifico, in prossimità della città di Los Angeles, ben sapevamo che lì c’era un qualche cosa di straordinariamente speciale, una creatura degna di essere spontaneamente approfondita. La lepre di mare, grossa e nera, più impressionante che sia mai stata inquadrata da telecamera umana.
Ci si arriva per gradi, ovviamente. Altrimenti come sarebbe mai possibile costruire un adeguato grado di suspense? In questa occasione speciale, il conduttore si è anche procurato l’assistenza di Aron Sanchez, presentato al pubblico come un esperto di questo particolare bioma naturalistico, caratterizzato da significativi e frequenti processi di mutamento ambientale. I due a quel punto, senza neppure l’aiuto di una vanga o un coltello fra i denti per autodifesa, iniziano a cercare in parallelo il ricco patrimonio vivente di cui sopra, la cui presenza, per quanto assai probabile, pare stranamente ardua da riconfermare nel momento attuale. Anche perché il gesto stesso di muoversi nel mezzo degli scogli tra cui l’acqua resta ferma da una fase all’altra della giornata, e proprio per questo rese frastagliate e scivolose come non mai, richiede un senso d’equilibrio e una cautela che probabilmente, eluderebbe i più. Non è certo un caso se questa particolare location, pur con tutte le sue notevoli attrattive naturalistiche, risulta vergine di strutture artificiali e ragionevolmente incontaminata dal turismo. Cammina e ri-cammina, proprio quando i due sembravano pronti a gettar via la spugna (ma questo forse era dovuto) si ode Sanchez che conferma, esultante: “L’ho trovata!” (per i più impazienti, succede al minuto 3:44). Sulla scena accorrono, dunque, Coyote con la telecamera. Per mostrarci qualcosa che non dimenticheremo tanto facilmente.
La lumaca era lì, in attesa. Un mostro da 60 cm abbondanti, peso stimato: 4 Kg e mezzo. Ma sia chiaro che siamo assolutamente nella normalità di questa particolare specie di gastropode opistobranchio, la Aplysia vaccaria, creatura che comunemente viene definita lepre di mare nera. Il libro Pacific Coast Nudibranchs di David Behrens, pubblicato per la prima volta nel 1980, citava addirittura un esemplare da record che fu registrato misurare 99 cm dalla testa alla punta della coda, per ben 14 Kg di peso. Praticamente, quello di un cane di taglia media. Chi avrebbe potuto esimersi, trovandosi dinnanzi a un tale essere, dal tendere le mani e raccoglierlo immediatamente, per portarselo a pochi centimetri dal volto? Certo non lui…

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L’uccello che raggira la tribù dei suricati

Drongo

In Australia e Nuova Zelanda, se vuoi dare blandamente dello sciocco a qualcuno, c’è un’usanza che prevede di chiamarlo drongo. Parola che proviene direttamente dal nome di un uccello simile ad un merlo, dal comportamento insistente ed ossessivo, che ripetutamente si tuffa giù dai rami degli alberi, plana fino a terra, fruga nell’erba in cerca di cibo e poi ritorna precipitosamente all’elevato punto di partenza. Quindi, nel silenzio e nello stato d’immobilità, saltuariamente lancia un grande grido, simile a un terribile starnuto. Nell’interesse dell’analisi situazionale, ipotizziamo di essere distanti dalla stagione degli accoppiamenti. L’obiettivo di un tal suono non si palesa quindi chiaro, e sembrerebbe solamente un qualche bizzarro sfogo personale. Ma le apparenze spesso ingannano, o come in questo particolare caso, vengono fraintese da chi ha poco senso d’osservazione. Perché il drongo (Dicrurus) in effetti, potrebbe essere tra i volatili più intelligenti di tutto il suo areale, che si estende dagli stati d’Oceania fino all’Indonesia, e da lì in Cina, in India e… Africa, per l’effetto di una colonizzazione che risale a circa 15 milioni d’anni fa. Qualcuno, in via preliminare, ha addirittura ipotizzato che esso sia dotato della capacità intellettiva definita teoria della mente, ovvero l’abilità di astrarre e comprendere le altrui intenzioni. Una dote riscontrata, per via sperimentale, unicamente negli scimpanzé, in alcune specie di pappagalli e nei corvi. E che lui sfrutta, con intento alquanto turlupinatorio, al fine di semplificarsi per quanto possibile la vita. Assieme all’altra dote innata di cui è dotato, che consiste nell’imitazione esatta del verso di moltissime altre specie d’animali.
È una combinazione veramente scoppiettante, questa qui… Volete un esempio? Vi basterà osservare all’opera questo esemplare di Dicrurus adsimilis, drongo dalla coda biforcuta o drongo comune africano, che si era trovato suo malgrado con il ruolo di protagonista principale di un documentario della BBC Earth, che come suo solito distribuisce lo spezzone rilevante tra il pubblico di Internet, specificando la sua provenienza dalla serie intitolata Africa, con l’irrinunciabile commento audio del naturalista Attenborough. E ci sarebbe veramente di che lamentarsi, da parte dell’uccello, se non fosse che per sua fortuna, i suricati caduti preda delle sue furbizie non dispongono di apparecchi radio-televisivi. Il suo segreto metodo, dunque, resta al sicuro qui con noi. E che approccio, quale piano diabolico! Tutto inizia con quella che potrebbe essere definita, in linea di principio, la classica interrelazione di mutua assistenza del regno animale. Un rapporto simbiotico, in cui il drongo, pur non facendo parte del famoso branco molto unito di queste agili manguste scavatrici sul confine del Kalahari, fornisce loro un valido supporto, agendo da vedetta contro il sopraggiungere dell’occasionale, pericolosissimo uccello predatore. Vedendo il falco di turno, quindi, il nostro passeriforme emetterà istintivamente il suo richiamo d’allarme, che i mammiferi hanno appreso a riconoscere, alla stregua del complesso sistema di vocalizzazioni che essi impiegano per comunicare tra loro. Soltanto a quel punto, fatto il suo dovere, il sagace pennuto si metterà in salvo dal formidabile rapace in arrivo. Quale splendido altruismo, nevvero? Non ci piove (del resto, siamo estremamente vicini al quarto maggior deserto del pianeta). Tranne che… Non tutte le allerte del Dicrurus sono esattamente, per così dire…Vere. Può qualche volta capitare, infatti, e capita in effetti almeno due-tre volte al giorno, che l’uccello chiami senza che sussista alcun tipo di pericolo. Il che è davvero molto vantaggioso per lui. La casistica vuole, infatti, che in un dato momento X ciascuno dei suricati all’opera immediatamente fuori dalla propria tana, stia svolgendo unicamente quell’attività che consiste nell’effettuare la raccolta di provviste, per se stesso, per la femmina rimasta a guardia dei cuccioli e per loro, la vociante progenie di un popolo fin troppo delizioso (per il falco, per la iena, per tutti gli altri assatanati predatori…) Ma soprattutto pare che, una volta spaventato e intento a trarre in salvo la sua pelle, il suricato medio tenda a far cadere il proprio insetto, verme o scorpione di turno, lasciandolo del tutto incustodito sul crepato suolo delle lande equatoriali. Ed è allora che l’uccello, mostrando infine i suoi veri colori, piomba giù dal ramo soprastante, ruba tutto il possibile e immediatamente se ne vola via. Dico, ve l’immaginate? Derubati da una svelta cornacchietta nota come “la non-troppo intelligente”. Non è proprio un aneddoto da raccontare alle feste…

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Gli uccelli che sconfissero l’esercito australiano

Great Emu War

“Maggiore, credo che dovremmo appostarci qui. La strada è stretta e d’importanza strategica. Il nemico dovrà farsi avanti, prima o poi!” Appesantito dai 12,7 Kg della sua Lewis Automatic Machine Gun e circa un terzo delle munizioni, in aggiunta al resto dell’equipaggiamento da escursione, O’Halloran sudava copiosamente nell’estate australiana. 2 Novembre 1932: appena iniziata, questa guerra già sembrava futile ed eccessivamente onerosa. Per lo meno dal punto di vista del distaccamento di tre uomini sotto il comando di G.P.W. Meredith dell’Artiglieria Reale Australiana, eroe di guerra decorato, sagace stratega ed ora flagello dei volatili in terra selvaggia, secondo il mandato ricevuto direttamente dal Ministro della Difesa, Sir George Foster Pearce. “Aiden, ti ho già detto che il tuo modo di pensare mi piace?” L’ufficiale si fermo di scatto, piantò le mani sui fianchi ed indicò la direzione con un cenno della testa. Dì a Stephenson che ci fermiamo qui. Fagli piazzare il tripode a ridosso di quell’albero di eucalipto. Questa sarà la prima, ed ultima battaglia della nostra spedizione. Grossi polli senza ali..Puah! Non sanno cosa li attende…” E nemmeno tu, pensò O’Halloran. Chi mai, nella storia dell’umanità, avrebbe pensato di sfidare il secondo uccello più grande del mondo, impiegando l’attrezzo che più di ogni altro aveva modificato questi ultimi anni della storia umana: la mitragliatrice. Ma a mali estremi, come si dice… “Steph ci sei?” Il commilitone, con l’uniforme zuppa e l’espressione contorta dallo sforzo, si era già liberato dello zaino in mezzo alle radici dell’arbusto, e stava al momento armeggiando rumorosamente con l’attrezzatura di sostegno per tendere l’imminente imboscata al nemico pubblico numero 1-20.000.  “Dannazione!” Esclamo sottovoce il mitragliere: questa è la cifra di cui stiamo parlando. Di devastatori piumati dagli occhi iniettati di sangue, alti fino a 2 metri, calati sulla regione di Campion, nell’Australia Occidentale, con tutta la furia di un’orda di barbari o di cavallette. Una tale situazione non poteva in alcun modo continuare; non l’avrebbero accettata i veterani del primo conflitto mondiale, che recentemente avevano iniziato a rifarsi una vita, ricevendo concessioni e sussidi (a dire la verità, inferiori a quanto gli era stato promesso) per stabilirsi tra alcune delle terre più selvagge ma estremamente fertili del Quinto Continente; non sarebbe andata bene alla popolazione, che pretendeva di poter acquistare a buon mercato frutta, verdura, grano e derivati; e soprattutto non poteva essere neppure concepita dal governo, che proprio in quegli anni stava iniziando a comprendere le deleterie conseguenze della grande depressione americana, sopraggiunta pochi anni prima per scuotere le fondamenta stesse del mercato. Come si sarebbe mai potuto, in un tale momento delicato, regalare i propri spazi più preziosi a questi giganteschi gallinacci provenienti dall’entroterra desolato? E come gli spartani alle Termopili, i soldati non erano del tutto soli. Un gruppo di agricoltori locali, tutti volontari, si stavano industriando per spingere gli uccelli verso il punto designato per l’imboscata. Mancava sempre meno…
Completata l’opera di allestimento, O’Halloran guardò Stephenson, che a sua volta guardò verso la remota collinetta, dove il maggiore Meredith si trovava a gambe larghe, il binocolo ben stretto tra entrambe le mani e ritmicamente sollevato, su, giù, su, giù, in una sorta di ginnastica dettata dalle circostanze. Finché ad un tratto, il movimento ritmico non cessò di compiersi, e la mano destra dell’uomo non fu sollevata in una sorta di gesto teatrale, le cui implicazioni apparivano sin troppo chiare ai sottoposti. Eccoli, ci siamo, è giunta l’ora della verità. “Maggiore, non stia lì! Venga a mettersi qui dietro.” Non appena il comandante senza paura ebbe terminato di voltarsi, nei suoi occhi c’era il fuoco vivo. Sembrò stare per aprire la bocca, poi tacque e silenziosamente ubbidì. Ora veniva la parte interessante. La mitragliatrice in dotazione all’esercito australiano, notevole innovazione tecnica del colonnello statunitense Isaac Newton Lewis, aveva una cadenza di 550 colpi al minuto, 50 più della seconda miglior arma del suo periodo. Poteva montare caricatori a tamburo (le cosiddette “padelle”) con fino a 97 proiettili, che un soldato addestrato era in grado di sostituire in appena 5 o 6 secondi. La metà, con l’aiuto di un assistente. E i due addetti all’opera di necessario sterminio, qui presenti perché scelti personalmente dal loro stesso fiero comandante, erano i migliori dell’intero corpo d’artiglieria. Controllata la regolazione del mirino, scambiato uno sguardo d’intesa coi due compagni di avventura, O’Hallora socchiuse gli occhi e guardò verso l’orizzonte. Da qualche parte, nel mondo, era sicuramente mezzogiorno.

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Il polpo 1200 volte più letale del cianuro

Blue Ringed Octopus

Buongiorno turista d’Australia! Come vuoi morire, oggi? Delicatamente assaggiato da uno squalo toro di passaggio, animale che notoriamente non apprezza la carne umana (ma lo scopre, il più delle volte, a smembramento già avvenuto…) Oppure masticato dal coccodrillo marino, il più grande rettile del pianeta, che non ha bisogno di scuse per far rispettare i limiti del proprio territorio? O ancora, morsicato dal ragno dei cunicoli, artropode aggressivo il cui veleno stranamente non ferisce topi, gatti, conigli e altri animali. Ma uccide un uomo adulto in 15 minuti! Ne abbiamo per tutti i gusti: morti violente, silenziose, dipartite materiali o immaginarie. Se lo preferisci, potresti addirittura fare l’esperienza di essere schiacciato dal drop bear, leggendaria versione carnivora del dolce koala, che si dice piombi sopra i viaggiatori per poi morderli alla gola e divorarli dai piedi in su. Quale miglior maniera di apprezzare il patrimonio faunistico di un paese unico al mondo, che nutrirlo in prima persona, con le proprie stesse disattente, ineducati carni. Aspetta, aspetta, ne ho una ancor migliore di così: visualizza la seguente scena. Ti trovi in spiaggia, circondato da un intero gruppo di amici. Estasiato dal Sole, dal mare, dalle molte viste affascinanti conosciute nel tuo viaggio di allontanamento dai problemi della vita. Cinque minuti prima, durante una tua passeggiata di metà pomeriggio, hai messo il piede in una pozza d’acqua rimasta nel bagnasciuga, lasciata indietro dopo l’ultimo ritrarsi della marea. Finendo per dare, accidentalmente, un piccolo calcio a una bottiglia di plastica, proprio lì gettata da un qualche altro visitatore privo di coscienza ambientale. Sul momento non ci hai fatto troppo caso. Ti sei fermato per un breve attimo, pensando forse di rimuovere l’oggetto e trasportarlo fino a un punto di raccolta. Poi hai lasciato perdere, perché? Ma circa cinque minuti dopo, d’un tratto, ti senti molto stanco. Deambulando pesantemente, raggiungi il tuo materassino e lì ti sdrai, a meno di due metri dalla gente che è venuta fin lì con te. Grosso errore. Perché allora, con un’improvvisa ed orrida realizzazione, inizi a comprendere che c’è qualcosa che DAVVERO non va. Gambe e braccia sembrano pesare come tronchi. La vista inizia ad offuscarsi. Mentre il tuo tentativo di chiamare aiuto, nonostante l’impegno, si risolve in un gemito appena udibile da neanche pochi centimetri di distanza. Quindi, nel giro di un altri due minuti, il respiro inizia a diventare laborioso e tu perdi i sensi. Non ti sveglierai mai più.
Il delitto perfetto. Ad opera di un assassino di proporzioni minutissime, che può spostarsi nell’acqua e sulla terra, per brevi tratti sufficienti a rendersi un pericolo pressoché costante. Che risulta essere tuttavia, per nostra massima fortuna, relativamente raro in tutto il suo areale d’appartenenza, benché il sussistere di condizioni particolarmente favorevoli, in determinati periodi dell’anno, possa portare a vere e proprie piccole invasioni, di interi tratti di spiaggia fra l’Australia ed il Giappone. La singola femmina di una di queste quattro specie, molto simili tra loro, può del resto fare fino a 50 uova, circa 2 anni dopo la propria nascita, prima di smettere di mangiare e lasciarsi morire. Questo vuole, del resto, la natura. E forse dopotutto è anche meglio così. Li chiamano, con piglio pienamente descrittivo, polpi dagli anelli blu (scientificamente: Hapalochlaena) e ogni bambino nato in Australia viene educato, fin dalla giovane età o al suo primo contatto con le coste sabbiose del continente, a non toccare assolutamente ciò che brilla tra la sabbia; alla maniera di una gemma preziosa di 6-8 centimetri dagli improbabili otto tentacoli sottodimensionati… Ma gli incidenti, o le casistiche davvero sfortunate, possono pur sempre capitare. Come quelle di persone, ahimè, disinformate. Mentre nel caso di un animale come questo, saper come comportarsi può salvare FACILMENTE una vita o due…

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