Nel settembre del 1934, una serie di perturbazioni atmosferiche formatesi sopra l’oceano Pacifico iniziarono a convergere sopra gli stati della Micronesia. Spostandosi gradualmente a nord-ovest oltre le isole Carolina, il fronte ventoso continuò quindi a rafforzarsi, sfiorando per un pelo le isole Ryukyu (Okinawa). Virando in senso diagonale verso est, la massa di nubi e vento formò la ragionevole approssimazione quella curva geografica che da sempre corrisponde, nelle nostre mappe, all’inclinazione principale dell’arcipelago giapponese. E fu allora che, toccando terra in corrispondenza delle rocciose spiagge di Muroto (prefettura di Kōchi) proseguì diritto fino alla baia di Osaka. L’oceano stesso lo seguì da presso, fin dentro l’entroterra densamente abitato. Con una pressione atmosferica di 954.3 hPa, le conseguenze di questa tempesta furono assolutamente nefaste: la marea salì di 4,20 metri, allagando un’area 4921 ettari. Oltre 166.000 case furono allagate e purtroppo, 17.898 persone persero la vita. Proprio questa fu definita “La seconda catastrofe più grave del Giappone moderno” (dopo il grande terremoto del Kanto del 1923). Ma non fu certo l’ultima per questa grande metropoli: già nel 1950, il tifone Jane colpì di nuovo, con un livello dell’acqua leggermente inferiore ma, causa eventi avversi del destino, un conteggio delle vittime ancor più significativo e pari a 21.465. Soltanto la terza volta, con l’abbattersi nel 1961 del tifone Nancy (chiamato in Giappone Daini-muroto Taifū, o secondo tifone di Muroto) le cose presero una piega totalmente differente: nonostante l’altezza dell’allagamento pari a 4,12 metri, le persone che persero la vita ad Osaka furono “soltanto” 2.165; poco più del 10% rispetto agli eventi precedenti. Che cosa, esattamente, era cambiato?
Un nome alternativo della seconda più grande area metropolitana in Giappone è non a caso Mizu-no-Machi o città dell’acqua, per lo stesso rapporto di stretta correlazione dimostrato tra i suoi abitanti e i numerosi canali, fiumi e insenature della sua baia, da sempre uno dei centri d’interscambio commerciali maggiormente significativi del paese. Ma vivere a stretto contatto con l’oceano sul ciglio estremo del vasto Pacifico, come la storia si era dimostrata in grado di provare più volte, comportava non pochi problemi potenziali. E la necessità di attrezzarsi adeguatamente. Così durante il boom economico che avrebbe potato, a seguito degli anni ’30, alle mire imperialiste del Giappone degli anni ’30, il governo oligarchico nato dalla discendenza dei riformatori (alias “ristoratori”) Meiji aveva favorito un clima economico d’investimento infrastrutturale, che avrebbe portato nell’intera regione di Osaka alla costituzione di varie tipologie di dighe ed altre barriere idriche, capaci di ridurre significativamente la propagazione di grandi ondate e simili disastri. Almeno tre delle principali vie d’accesso marittime al cuore della città, tuttavia, restavano ancora esposti agli elementi, causa l’assiduità con cui venivano percorsi da grandi imbarcazioni, troppo alte per passare sotto le tipiche chiuse a sollevamento verticale. Si trattava delle foci dei fiumi Kizu, Anji e Shirimaishi. Proprio questi ultimi, quindi, si rivelarono una vulnerabilità particolarmente amara e finirono per costare ancora la vita di molti durante il tifone del 1961. Occorreva fare di più quanto prima, proprio grazie all’occasione destinata a palesarsi nella decade immediatamente successiva.
Verso la metà degli anni ’60, l’intera prefettura di Osaka è in fermento: viene ufficializzata, di li a poco, l’approvazione del centro abitato come sito per lo svolgimento della Fiera Mondiale a Suita, con il tema di “Progresso e armonia per l’intera umanità.” I copiosi investimenti, di un paese rinato dalle ceneri del dopoguerra, conducono a nuovi espletamenti progettuali finalizzati a migliorare la resistenza del popolo giapponese nei confronti dei disastri causati da una natura spesso avversa. Ed è grazie alla partecipazione al progetto della Obayashi Corporation, coadiuvata dalla ditta ingegneristica della Hitachi Zosen, che un nuovo approccio al problema inizia gradualmente a prendere forma. Qualcosa che mai, prima d’allora, era mai stato fatto sorgere in corrispondenza di alcun altra città della Terra…
oceano
L’aspetto delle fattorie dove il destino delle cozze è appeso a un filo
Un pescatore in tuta da sub si avventura tra i recessi di un’alta scogliera, andando in cerca del gustoso mitile dalla conchiglia nera. Una bracciata alla volta, un colpo di pinne dopo l’altro, la sua busta si riempie, in modo graduale, del tesoro dall’aspetto meno eccezionale degli abissi, che una volta cucinato non manca di provare le sue qualità gastronomiche di alto livello. Ma un conto, nell’analisi delle precise circostanze, può dirsi essere l’impresa di un singolo ed i suoi amici o parenti, finalizzate al consumo nell’occasione di una cena. Tutt’altra storia la raccolta intensiva, ad opera di quella vera e propria industria che, al giorno d’oggi, non può mancare di essere fondata sopra qualsiasi cosa. E intere regioni costiere, zone marittime dalla preziosa eredità biologica, sono state demolite alla ricerca del tributo beneamato, che lo stesso dio Nettuno viene costretto a pagare suo malgrado, in aggiunta ai danni già causati dall’inquinamento, la pesca a strascico, l’occasionale naufragio di una nave carica di… Così dove un tempo ce n’era uno, tendono a essere milioni. Il che non significa che le cose, se affrontate con la giusta chiave d’interpretazione, debbano per forza continuare a peggiorare. E lo strumento tecnologico, coadiuvato da una prassi frutto di complessi studi di fattibilità, non debba contribuire necessariamente al perpetrarsi di quel grande Male.
Il metodo per la coltivazione intensiva dei bivalvi dimostrato in questo video esplicativo del canale di approfondimento Eater non è in effetti particolarmente distintivo, ne del tutto esclusivo della Bangs Island Mussel Farm di Portland, Maine. Sebbene sia possibile affermare che la sua efficienza en masse, coadiuvata da condizioni ambientali proficue e grandi volumi di processazione, collaborino nel creare un risultato superiore alla somma delle singole parti costituenti. Mediante l’applicazione in ampia batteria di quel concetto che in Italia e in tutto il Mar Mediterraneo vanta la più vasta delle diffusioni, benché nessuno ricordi nei fatti chi sia stato il primo a metterlo in pratica con comprovato ritorno dell’investimento iniziale. Che non definirei, del resto, relativamente o necessariamente elevato: tutto inizia, d’altra parte, con la sospensione di un lungo filo. O per meglio dire corda, ma di un tipo particolarmente ruvido e dalla superficie ineguale, affinché i molluschi appartenenti a varie specie del genere Mytilis, ma negli Stati Uniti soprattutto i cosiddetti blue mussels of M. edulis, possano aggrapparvisi mediante l’utilizzo delle loro caratteristiche bisse o barbe, viticci facenti parte della dotazione evolutiva dell’animale. In natura utili a garantire il mantenimento di una posizione ragionevolmente protetta dai possibili predatori, ma che qui diventano lo strumento per restare sospesi in zone particolarmente nutrienti della colonna oceanica, permettendogli di crescere in maniera rapida e sicura. Ciò che colpisce fin da subito nella particolare interpretazione industriale qui proposta, tuttavia, è la copiosa quantità dei soggetti di una tale prassi. Ordinatamente messa in fila mediante l’utilizzo di quella che possiamo soltanto descrivere come una zattera sovradimensionata, composta dalle travi successive da cui pende il cupo raccolto dal rigido quanto frastagliato involucro protettivo. Previo mantenimento, s’intende, di uno stato ragionevolmente integro mediante l’impiego funzionale di una rete a tubo o “calza” esteriormente non dissimile da quella usata per il prosciutto o altri prodotti della terraferma, qui sentiero valido all’accesso di un diverso tipo di pietanza, (almeno) altrettanto beneamata.
Che le cozze siano un pasto per le occasioni particolari, da mangiare ogni tanto al ristorante o in cene con gli amici, costituisce d’altra parte una visione per lo più oggettiva. Laddove non c’è niente di maggiormente prolifico, rapido da processare e conseguentemente economico al momento dell’acquisto, di questi persistenti filtratori dell’acqua marina, auspicabilmente provenienti da una situazione ragionevolmente incontaminata e priva del gravoso peso dell’inquinamento. Il che risulta assai più facile da controllare, quando sono il frutto diretto di uno sforzo organizzativo creato per guadagnare…
La soluzione architettonica dell’isola dove non sgorga l’acqua da bere
Ogni giorno ad un orario estremamente prevedibile, il più grande e potente impianto di dissalazione noto all’umanità s’innalza deciso sopra i territori densamente abitati delle isole Bermuda. Iniziando l’opera continuativa che gli ha permesso, attraverso i secoli, di costruire i suoi nove campi da golf: fuoco e fiamme, energia possente, di un impianto cosmico finalizzato ad uno scopo. E attratta verso l’alto in poche ore, l’acqua non bevibile del grande oceano inizia a risalire verso i lievi strati dell’atmosfera terrestre. Anelando a quel solenne meccanismo, che nell’arbitraria cognizione prende il nome chiaramente rappresentativo di Astro Mattutino. Semplice, funzionale, risolutivo? Togliere il sale dall’acqua attraverso il sistema del multiplo effetto richiede, dopo tutto, giusto un’alimentazione di fluido termico (S), che cede il suo calore all’acqua di alimento (F) nella camera di alimentazione (EC) per poi condensarsi nuovamente nella successiva camera (EC) mediante l’utilizzo di uno scambiatore (VC). Ma chiedete le minuzie di questo processo all’abitante medio di quest’arcipelago, e lui non saprà dirvi assai probabilmente più dell’uomo o donna media, tra coloro che non operano nel campo tecnico di quel particolare processo della tecnologia civile. Mentre proprio lui o lei, sarà incline a rivelare d’altra parte l’esperienza posseduta nell’area multidisciplinare della costruzione in legno, il posizionamento di pesanti tegole di pietra calcarea e la gestione di massicci serbatoi sotterranei. Quelli utilizzati fin dall’epoca immediatamente successiva scoperta di queste fertili lande, ad opera del navigatore spagnolo Juan de Bermúdez nel 1511, affinché le precipitazioni conseguenti dall’evaporazione atmosferica non andassero tragicamente sprecate.
Molti nelle isole Bermuda senza laghi e senza fiumi, a dire il vero, indossano gli occhiali da sole prima di voltarsi verso il panorama di Hamilton o St. George, i due più vasti insediamenti della piccola nazione atlantica. E la ragione è da ricercarsi nella natura candida e abbagliante dei numerosi tetti di abitazioni, uffici ed industrie, costruiti da l’altro rispettando i crismi di una caratteristica conformazione a gradoni, simile a quelle di una piramide egizia o maya, al fine di incrementare il rimbalzo dei raggi ultravioletti con il loro effetto antibatterico e contestualmente, rallentare il più possibile la naturale caduta del trasparente fluido verso le ampie caditoie e grondaie dell’edificio. Ciò non tanto per una moda o canone estetico universalmente diffuso, quanto l’imprescindibile applicazione di un preciso codice urbanistico ed alcune delle più antiche leggi del paese. Perché molto semplicemente, senza l’applicazione omnicomprensiva di un simile sistema, le isole Bermuda tornerebbero ben presto disabitate. A tal punto, esse risultano naturalmente prive della risorsa più necessaria alla vita umana.
Acqua che non sia soltanto limpida, ma pure e soprattutto Dolce ovvero priva di quel contenuto minerale e chimico, che tende ad assumere immediatamente nei mari ed oceani della Terra. Verrebbe in effetti da chiedersi come sia venuto in mente agli inglesi del medio Rinascimento di colonizzare le Bermuda a partire dal 1612, quasi 100 anni dopo che i rochi richiami degli uccelli locali smettessero di essere scambiati per le grida maledette dei dannati condannati ad abitarle in eterno. Senza neanche prendere in ulteriore considerazione la problematica collocazione geografica di quel paese nella cosiddetta Hurricane Alley ovvero l’area, a ridosso del Mar dei Sargassi, dove i fronti di pressione contrastante convergono per dare vita ad alcuni dei venti più potenti e distruttivi a memoria d’uomo. Il che fu formalmente compreso, iniziando la complessa ricerca di una soluzione, a partire dal secondo secolo dell’insediamento, quando sulle isole iniziarono a moltiplicarsi le case costruite secondo le precise regole considerate conduttive al rinomato “tetto delle isole Bermuda”. Un approccio tecnologico estremamente ingegnoso…
Il tranquillo villaggio inglese destinato a diventare Atlantide dei mari del Nord
Era la mattina di un giorno come tutti gli altri, quello in cui la pioggia cadde orizzontalmente, attraverso gli stipiti e gli infissi delle finestre. Poco prima che il nostro intero mondo, per l’intento di una volontà spietata, andasse incontro alla più repentina e umida delle trasformazioni. Un altro luogo, un’altra terra, un altro tempo; Platone, conosceva molto bene questo fato, avendone sottoposto a disanima l’eventualità pregressa nella parabole di un’isola all’interno del Mediterraneo… Ma sposta questa lente geografica verso il remoto settentrione, cosa resta? L’umanità è nei fatti, sempre la stessa, indipendentemente dall’idioma ereditato. Ed altrettanto si può dire, per quanto concerne il flusso inarrestabile della risacca. Almeno finché cessi, per imprescindibili ragioni contingenti, di fare ritorno là, da dove si era palesata fino a quel momento! Continuando a crescere e salire, come lo stomaco eversibile di un grande verme che si avventuri fuori dalla sua tana. Covehithe (non CoveThithe) è un luogo non così distante dal più tipico stereotipo di queste terre: un piccolo agglomerato di case tra la nebbia, disseminate lungo il corso di una strada provinciale geograficamente collocata in Suffolk, che corre parallela a una scogliera. Sotto la scogliera, per la maggior parte del tempo, c’è il mare. In un giorno ancora non fissato sui calendari, l’ordine delle due cose potrebbe anche invertirsi. Portando alla scomparsa di tutto quello che c’è sopra, attorno e dietro ad una simile precisa configurazione. Incluse le abitazioni dei circa 30 abitanti, indiretti depositari di oltre 1.000 anni di tradizione fin dal Mondo Antico. Se è vero che un insediamento continuativo qui ebbe trovato il modo di persistere fin dall’epoca degli Iceni, popolo britannico avverso ai Romani. Ma i Romani non producevano polveri sottili, non riscaldavano con le loro ciminiere l’atmosfera terrestre (ancora) ed in funzione di ciò, non favorivano l’aumento progressivo del livello dei mari. Ecco la ragione per cui nessuno si era mai aspettato, prima dell’epoca mediatica della corrente digitalizzazione, che potessimo arrivare ad un simile punto di rottura.
Per trovare un valido approccio all’argomento, nel nostro secondo paragrafo, non dovremo perciò far altro che accennare al video realizzato ad hoc dal gran divulgatore delle questioni britanniche, lo YouTuber Tom Scott rimastro privo ultimamente della rappresentativa maglietta e/o felpa rossa (e chi poteva RICONOSCERLO, a quel modo?) Che recandosi in prima persona presso il luogo del lentissimo disastro, ne ha elencato le profonde e alquanto tragiche implicazioni. In quanto comunque si decida di guardare alla questione, e indipendentemente dalla terminologia che si scelga d’utilizzare, una cosa è assolutamente certa: Covehithe non ha futuro. Con un’erosione della costa antistante stimata attorno ai 500 metri tra il 1830 ed il 2001, che si ritiene aver accelerato ancora verso l’ultimo ventennio, tale da garantire un’incipiente precipitazione tra le onde dell’intero circondario postale, inclusa la caratteristica chiesa in rovina vecchia di 600 anni. Che prima di quel momento finale, dovrà essere smontata e trasportata altrove, mentre edifici di minore rilevanza storica verranno preventivamente demoliti, al fine d’evitare l’inquinamento marino. Ma la vera condanna di questo insolito insediamento, nei fatti, non è stata sancita tanto dalla progressione naturale degli eventi quanto messa letteralmente nero su bianco, nel corso di una sessione operativa dell’Agenzia Ambientale britannica nel 2011, durante cui è stato formalmente proibito ai proprietari di edifici e terreni direttamente coinvolti di trovare investitori per la costruzione di nuove difese costiere. Perché la spiaggia antistante, formalmente, è proprietà inalienabile dello Stato. E perché in questo, come innumerevoli altri casi pregressi, vale la regola del bene della maggioranza. Costituita nel presente caso dalle circa 1.000 persone del vicino ma più grande villaggio di Southwold situato a 5 miglia più a sud, che le simulazioni hanno dimostrato destinato a vivere immediatamente la stessa situazione di pericolo, non appena il corso naturale della marea e dei sedimenti ad essa collegata dovesse subire un qualsivoglia tipo di alterazione. Così è da allora che viviamo, nell’attesa incombente di un’Apocalisse che in molti potrebbero, ma nessuno sembra veramente avere voglia di evitare…