Non puoi toccare gli aquiloni della California

Stunt Kite

Mostro finale per l’acchiappa-Pokémon dal cappellino con visiera, come si confà alla sua categoria: un tipo Volante puro, pienamente immune agli attacchi caricati dei suoi consimili con l’elmento Terra, vedi Drilbur e Sandslash. Non puoi colpirlo con un Terremoto, non puoi stordirlo con la Turbosabbia. Le potenti mosse Giravita e Battiterra, culmine di quell’intero iter evolutivo, hanno l’effetto su di lui di una folata accidentale, neanche il solletico di un attimo di distrazione. Se costui fosse un personaggio del cartone animato rilevante, certamente a quel punto schiererebbe un altro tipo di assistente. Pikachu con i forti fulmini, le fiamme ardenti di Charmander la salamandra draghiforme; oppure parimenti, uno dei molti successori della indimenticata 1st generation, quando bastava la remota somiglianza a un vago tipo d’animale, poi connotato da un concetto, per popolare un videogioco di creature…Semplici. Ma così stranamente memorabili, soprattutto rispetto ai loro bizzarri ed incomprensibili digi-eredi. Basterebbe dunque una Scintilla, un Pirolancio, una Lacerazione, per preparare l’avversario alla cattura, grazie all’uso di risolutive sfere di contenimento (del resto, Ghostbuster insegna pure ai giapponesi, allora come adesso). Ma qui siamo, ahimé o per trasversale fortuna, nel regno reale di cose tangibili, quindi il modello è differente. Vedi: l’aria di mare che sostiene, definisce e dona un attimo di distrazione, a vantaggio di chi ha tempo, e voglia, da spendere sulle sabbie smosse di Huntington Beach, in quell’Orange County che ci ha fatto conoscere fin troppo a fondo la TV. “Le dame, i cavalier, l’armi, gli amori…” Dell’epica contemporanea, ove le splendide battaglie vengono soprassedute, a vantaggio dell’ultimo dramma della gelosia, fra le improbabili passioni di presunti teenagers, in realtà più prossimi all’età universitaria. Ma ancor prima di tutto questo, quando ancora non si vivono i patémi dell’età pre-adulta, c’è un modo più spontaneo di relazionarsi con l’altrui presenza: in California come altrove, grazie al diversivo di scenari fatti per colpire l’immaginazione. Un gioco, lo svago, lo splendido divertimento, la sperimentazione di uno scontro che non ha malizia, eppure trae l’origine dal più semplice dei desideri. “Catturami, se ci riesci!” Ed alla fine, sono qui. Tocca tante piume pixellate, se hai il coraggio di un bambino accidentale di passaggio. Non è davvero chiaro se la scena, alquanto memorabile, di Dave Shenkman che lo affascina col suo variopinto animale artificiale, un aquilone sportivo a quattro fili della serie Revolution, sia soltanto la risultanza di una contingenza casuale, oppure il ripetersi di una scenetta attentamente predisposta, con la precisa mira di attirare ancòra una volta il pargolo nel suo celebre negozio “The Kite Connection”, ove mostrargli, assieme a genitori conniventi, i molti validi impieghi per la paghetta, oltre alle cartucce del DS o il post-Gameboy. Il che andrebbe in ogni modo visto in controluce: non è questa tanto un’occasione di guadagno (che differenza vuoi che faccia, per una simile stella del suo settore merceologico) quando di diffondere un’antica e parimenti meritevole passione. Per il volo a filo e tutto quello che puoi comandare dal remoto suolo, alla ricerca di complessi o straordinari movimenti.
Un pontile gremito d’entusiasti spettatori, silenzio in sala tranne per le risate dell’artista e della stupefatta controparte. L’aquilone in questione, che rientra nella categoria più avanzata e complessa da pilotare, viene descritto da John Barresi, altra personalità di spicco del settore, come capace di “Appoggiare delicatamente un’ala all’interno di un foro largo un piede da una distanza di 100, oppure fare una picchiata a 50 miglia orarie, prima di fermarsi a pochi pollici dal suolo.” (Si, siamo nell’America imperiale.) Ma tutto questo non è nulla, rispetto alla naturalistica e curiosa vibrazione, che quell’altro suo collega induce nel momento della verità, quando al bambino, ormai stanco di tanti saltelli, viene concesso di toccare brevemente la creatura in fibra di carbonio e nylon giallo-nero. Per tornare all’epoca di Ariosto, sembra quasi di assistere all’incontro tra la dama e l’unicorno.

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La collezione dei serpenti mortalmente velenosi

Viperkeeper King Cobra

Preso crudelmente tra ganasce ben cromate, ormai defunto da diverse ore, bianco pasto di scagliosi esseri dalla mascella spalancata. Immedesimarsi nel comune topo, a conti fatti, potrebbe essere un errore. La preferenza umana è riservata ai predatori, agli avventurieri ed agli eroi. Il funambolo che percorre il sentiero posto in alto sopra il circo, mentre il pubblico trattiene il fiato. Egli non conosce più il terrore di cadere. Anni di pratica e vibranti passeggiate, frutto del senso innato che ha dell’equilibrio, lo hanno reso impervio a un tale sentimento, oltre che sicuro nel suo passo, almeno quanto noi che andiamo a far la spesa sopra vasti e chiari pavimenti del supermercato; nel frattempo l’addomesticatore di leoni, suo vecchio amico sotto l’ombra del tendone, è come un androide meccatronico pre-programmato. Quando serve, sa ripetere precisi gesti con la frusta, la sedia e gli altri orpelli, attentamente impressi nella sua memoria muscolare, che gli consentono d’interagire con le controparti dalla folta chioma, quasi da pari a pari. Due figure, queste, differenti all’apparenza, eppure accomunate nei metodi con cui affascinare il pubblico pagante: far dell’incredibile, cosa di tutti i giorni. Ed è proprio in tale pratica che nasce e cresce quel segreto, ciò che porta i popoli a gioire fin da tempo immemore per la venuta di quel carrozzone; perché l’abitudine, si sa, è l’antefatto dalla svista e quindi l’imprevisto giace lì, in agguato. Pronto a fare nuove connessioni tra neuroni strabuzzati, occhi lucidi dati dal gusto di aver visto qualche cosa di… Terrificante. Come questo Al Coritz, alias Viperkeeper, erpetologo (amante dei rettili) con il pallino per le specie più pericolose della Terra. E un modo di fare affabile, informativo, accattivante che può far conoscere, e addirittura rendere simpatici, alcuni degli animali più intrattabili fra qui ed Alpha Centauri, come ad esempio Elvis il cobra reale (Ophiophagus hannah) che quel giorno doveva essersi svegliato con la luna di traverso, o per meglio dire annodata, visto il modo in cui subito balza fuori dal terrario trasparente, avventandosi contro le gambe in blue jeans del suo padrone. Aspetta un attimo…Non è normale, giusto? Perché questo signore libera sul pavimento quattro metri di belva feroce, direttamente fuoriuscita dai mangroveti del Sudest Asiatico? Beh…
Basta una rapida scorsa degli altri suoi video più famosi, per rendersi conto dei metodi assai particolari impiegati da questo grande rappresentante di categoria, talvolta fatto oggetto nei commenti di critiche piuttosto veementi da personalità maggiormente allineate al senso comune (ma questa resta, in fondo, un po’ una legge di YouTube). Il che guarda caso costituisce, occasionalmente, l’aggancio utile a promulgare una sua diversa visione di quello che è un hobby alquanto raro, e per questo tanto maggiormente cristallizzato all’interno di metodi ed approcci certamente sicuri per chi si prende l’incarico di accudire tali e tante creature potenzialmente pericolose, ma forse non proprio eccezionali per queste ultime, che a vivere sempre rinchiuse, perdono un po’ il senso di quel sibilo e il saettare della lingua tastatrice. Mai mostrare la paura, come per la fune ed il leone. Guardate qui: la circostanza è interessante e singolare, soprattutto vista l’impossibilità suggerita dal montaggio. Sembra addirittura che ad un certo punto il protagonista, mentre si occupa di offrire il pegno del suo amore alimentare ad Elvis, apra pure un’altro scompartimento, con dentro la velenosissima vipera del Gabon (Bitis gabonica) – due metri di lunghezza per 11 Kg di peso, nelle sue zanne un veleno citotossico dall’azione anticoagulante, forse non letale quanto quello del cobra, ma certamente in grado di rovinarti la giornata. Soprattutto quando si considera l’etichetta adesiva attaccata sotto il vetro scorrevole, sapientemente inclusa nell’inquadratura: “Attenzione a chi apre, il serpente attaccherà.” Ed è esattamente quello che succede poco dopo, però sia chiaro: soltanto ai danni di un topo già morto. Di nuovo in mezzo ai due fuochi, persino dopo il decesso, povero lui.

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L’uomo che comprime le tempeste

Ryan McGinnis

Guardare verso l’alto: un gesto che facciamo tutti i giorni, per una miriade di ragioni, quasi sempre di natura auditiva. Forse si è sentito il distante rombo di un tuono, magari il volo starnazzante di un uccello. È anche possibile che un rombo artificiale, ovvero la combustione di un ettolitro di carburante, stesse facendo da pacere tra il vuoto celeste e la pesante essenza di un velivolo artificiale, l’ennesima gabbia di metallo in grado di sfidare il rischio della gravità. Possibile? La tecnologia degli uomini può fare molte cose. Ma non è invero, nulla… Al confronto dell’energia fenomenologica della natura. Possiamo anche ricevere con vaga preoccupazione, ascoltando la radio e/o la televisione, la notizia di un incipiente fronte di bassa pressione, l’araldo climatico del concetto di paura. Non è difficile, da possibili sassetti sopra il suo percorso, fingere-di-comprendere la pericolosa contingenza di fattori, punto d’origine per due minuti, forse venti di pioggia incontrollabile o venti che sferzano il terreno a una velocità di oltre 25 metri al secondo (circa 100 Km/h, il limite oltre il quale una tempesta viene considerata “seria” dagli enti meteorologici statunitensi). Che vuoi che sia, giuso il ritmo di un’automobile sulle lunghe strisce asfaltate interstatali. Peccato che la massa d’acqua e di vapore che noi definiamo nube, l’alto miraggio di un castello sopra il vuoto, abbia un peso medio stimato di centinaia e centinaia di elefanti, tante tonnellate quante sono le propaggini della sua forma frastagliata. E c’è chi vorrebbe metterla su schermo, sperando che sia resa almeno in parte la maestà di quella cosa! Si può fare (tutto si può fare) però ecco, occorre coltivare approcci tecnici e soluzioniassai particolari.
Questo video è fatto con le riprese in alta definizione ed accelerate di due scenografiche bufere nord-americane, la prima nata attorno a Kearney nello stato medio-occidentale del Nebraska e poi andata a dissolversi presso Grand Island, la seconda concentrata sulla cittadina di Burwell, nella Garfield County dello stesso stato; entrambe verificatosi il 16 giugno del 2014, a una distanza approssimativa di 144 Km l’una dall’altra. Eppure riprese dalle telecamere di una persona sola: Ryan McGinnis, fotografo e cacciatore di tempeste. La sequenza è di fatto un crescendo montato ad arte, in cui l’assembramento di nubi sopra i campi delle Grandi Pianure si sposta alla maniera di un gregge spropositato, poi pare assembrarsi, sul segnale di un cane da pastore invisibile ed immortale, in un’unica massa indistinta, grigia e carica d’umida aspettativa.
Se la storia finisse a questo punto, come tanto di frequente avviene qui da noi in Europa (e per fortuna, aggiungerei) verrebbe da chiedersi perché guidare tanto a lungo, consumare benzina e spazio sui propri hard disk che un tempo sarebbero state pellicole, per uno sguardo grandangolare verso un fenomeno tanto incolore. Ma il Pianeta, seppur uno, non è certo bidimensionale quanto quelli che compaiono sui libri e film di fantascienza. Mondo desertico, mondo ghiacciato? Magma lavico ed oceani sconfinati! Tutto in uno, per chi vive da una parte oppure l’altra dell’azzurro spazio globulare. Quindi è allora, soprattutto, che prende a scatenarsi la furia leggendaria della sconvolgente supercella, l’unione tra un temporale e un mesociclone qui tanto ben rappresentato.

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La piccola reggia in mezzo ai monti della California

Mike Basich

C’è un attimo, nel segmento televisivo che la BBC dedica all’ormai famosa casetta auto-costruita di Mike Basich, celebre ed ancora giovane snowboarder in pensione (fotografo per tutta la vita) in cui compare una particolare immagine, destinata a restare bene impressa nella mente. Un rettangolo azzurro nel preciso formato della rivista Snowboard UK dell’Ottobre del 2009, in cui s’affollano tre elementi distinti: titolo, persona e mezzo di trasporto. Sarebbe lui che salta con la tavola, come niente fosse, dall’altezza di quaranta metri verso i monti dell’Alaska da un elicottero, sapientemente incastrato proprio fra la corsiva “N” e relativa “O”, nonostante l’ampio spazio vuoto disponibile sul resto della pagina. È un montaggio strano e attentamente ricercato, dove manca il più importante personaggio ovvero il suolo, e tutto quello spazio sfumato verso il vasto azzurro finisce per simboleggiare la ricerca di un singolo individuo che ha saputo osare, giungendo a realizzarsi in molti modi tanto fuori dal comune. Non migliore per partito preso, non più coraggioso né (soltanto) fisicamente straordinario. Ma lontano, diverso e in grado di sorprendere comunque chi volesse mai seguirlo sulla strada della sua creatività ed estremo dinamismo. Per qualcuno, una simile sconvolgente circostanza avrebbe potuto costituire il non-plus ultra del suo Dopo, quando già terminata la carriera dell’atleta professionista e poi quella dello scavezzacollo esagitato, l’uomo raggiungeva l’attimo che l’avrebbe iscritto chiaramente nella storia del suo sport, poco prima di andarsi a ritirare dalle scene della fama e rumorosa visibilità. Ma il paradiso addirittura, se adeguatamente supportato da ragioni di contesto, può costituire una ragione d’influenza culturale. E così l’architettura stessa frutto di un suo sogno personale, messa al servizio della sua voglia di distinguersi e lasciare il segno, gli ha fornito un metodo diverso di esulare dagli schemi.
La bicocca è stata denominata Area 241, assieme al terreno in cui si trova e, per improbabile estensione, pure la compagnia di abbigliamento messa in piedi parimenti dal campione. Già vista da lontano con la sua forma spigolosa, il finestrone e il patio di pietre non lavorate dotato di Jacuzzi ante-litteram, si capisce che è qualcosa di speciale. “Nel periodo del mio maggiore successo” Racconta l’atleta, dando voce a un’opinione assai diffusa nel suo ramo: “Ho vissuto l’American Dream. Una grande dimora nella colossale città, una macchina potente, viaggi da un lato all’altro del mondo, guadagni di fino a 170.000 dollari in un anno. Poi mi sono reso conto che con quello stile di vita mi mancava il tempo per pensare. Stavo perdendo il mio contatto con la natura.” La soluzione? Presto detto: spostarsi in-toto Off the Grid, come si dice in gergo, ovvero vivere per una buona parte dell’anno in un luogo scollegato dalle reti idrica ed elettrica e nello specifico sui monti della regione di Truckee, al confine tra il Nevada e l’assolata California, giusto in prossimità del celebre resort sciistico di Soda Springs. Ma non in mezzo agli altri, chiaramente. Isolato sulla cima della pagina del mondo, come in quell’exploit che seppe renderlo tanto famoso. Un investimento probabilmente assai considerevole, frutto dei suoi molti anni di carriera, gli aveva permesso di aggiudicarsi quel terreno scosceso dall’estensione considerevole di 40 acri, che avrebbe costituito il punto di partenza della sua più duratura creazione.
Quindi, con qualche amico a dargli una mano, ma soprattutto in solitario fatta l’eccezione del suo simpatico Siberian Husky, ha iniziato a mettere una pietra sopra l’altra e poi di nuovo. Ciò che ne è venuto fuori, è…

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