La sorprendente indole domestica di un gatto primitivo

Nella boscaglia rada ai margini della savana in Zambia, un’ombra lunga 40 cm scivola tra gli alberi. C’è un guizzo, il verso debole di un topo arboricolo, la zampa che si abbatta sulla preda e la ghermisce in un secondo. Passano i minuti, prima che si senta un soddisfatto miagolio; tra le fynbos della provincia del Capo, macchie arbustive simili a quella mediterranea, i piccoli nel nido dei verzellini tacciono per un momento, allarmati a causa di un rumore inaspettato. Ma è già troppo tardi: pochi attimi a seguire, un’ombra prende forma sopra il ramo. La belva dalla lunga coda a strisce bianche e nere chiude le sue fauci sull’aviaria cena; lungo uno dei principali fiumi della Rift Valley, nello stato africano del Congo, il serpeggiante mammifero carnivoro si affaccia lungo il margine dell’acqua. Potrebbe sembrare un furetto, soltanto che… Se non fosse che… A un segnale che soltanto lui è riuscito a sentire, tuffa il muso a punta sotto i flutti. Ne riemerge con un pesce, che comincia lietamente a sgranocchiare. Certe volte, se lo scorgi tra le ombre della sera, può sembrare un piccolo leopardo. Altre specie presentano livree sfumate, che tendono al marrone o al grigio chiaro. Genericamente vengono chiamati “la genetta” ma chi li conosce, sa fin troppo bene che si tratta di uno dei più antichi appartenenti al subordine dei Feliformia. Praticamente, un gatto. Prima che potesse esistere il concetto di “gatto”.
Legge dell’evoluzione: adattamento a vivere in particolari circostanze, porta a mutazioni morfologiche apparenti. È per questo che il tipico felino domestico presenta artigli retrattili, dimensioni relativamente ridotte e la capacità di fare a meno di bere per lunghi periodi: esso è il frutto del bisogno di sopravvivere mangiando, essenzialmente, topi ed altre creature infestanti ai margini della società umana. Ma se provate a immaginare che tipo di vita esso potrebbe condurre nelle profondità d’Africa, luogo d’origine della sua e d’innumerevoli altre discendenze, apparirà palese che diversi perfezionamenti potrebbero risultare opportuni. Si pensa alla capacità di autodifesa, si pensa all’autosufficienza, all’indole territoriale e solitaria. Ci si prefigura, nella propria mente, già qualcosa che ricorda da lontano la famiglia dei Viverridae. Che include, tra i suoi membri, zibetti, civette delle palme, linsanghi e binturong. Per non parlare di loro, le genette, il cui nome è al femminile forse per analogia superficiale con faine, martore o donnole, con le quali sono tuttavia imparentate piuttosto alla lontana. La stessa etimologia di un tale termine permane misteriosa, con derivazioni incerte dal termine arcaico Greco gen (orso) ed il neo-Latino etta, che vuol dire “piccolo”. Altri dicono che sia una storpiatura diretta del nome proprio arabo Djarnet. A qualunque teoria si scelga di fare riferimento, appare chiaro che siamo di fronte a un’animale estremamente diffuso e prolifico nell’intero continente africano e noto anche in Spagna e in Italia, dove venne introdotto secondo i resoconti all’epoca del tardo impero Romano, come compagno nelle case e valida contromisura all’invasione problematica dei roditori. Possibile che abbiamo capito bene? Una belva della foresta, totalmente priva di un’eredità domestica, che si adatta a vivere tra le mura degli umani e vive docilmente assieme a Silvestro e Fido… Eccome, gente. Voi non avete assolutamente IDEA!

Leggi tutto

Il coraggio di un delfino inizia sempre dove finisce il mare

Mia madre diceva sempre “fischio lungo-sibilo-vibrato-fischio breve-lungo-breve” il che, tradotto nella lingua degli umani vorrebbe dire qualcosa di simile a “Dove vedi vongole, non devi andare. Ma se c’è la sabbia, preparati a salpare.” Alcuni membri del gruppo di caccia insistettero per anni nel dire che si trattava di un antico proverbio, tramandato da generazioni successive di matriarche fin da quando la stirpe scelse di venire ad abitare presso le isole-dei-campi e il mare d’erba spartina… Ma io, personalmente, non l’ho mai sentito dire ad altra anima pinnuta. Ah, già! Dimenticavo: non parlate la nostra lingua. I luoghi a cui mi riferivo sono quelli che voi chiamereste Kiavah e Seabrook Island, nella Carolina del Sud, non troppo distanti dalle vaste coste paludose della Lowcountry, dove l’acqua dolce incontra quella salata, ed i fondali sono bassi, ruvidi e frastagliati. Ma non… Alcuni tratti della costa, e proprio questa qui è la chiave. Curioso come il ritmo e il suono di determinati termini tenda a contenere parte dei significati sottintesi di un’idioma: io e i ragazzi conoscemmo ad esempio, una primavera di almeno due decadi e mezzo fa, un’antica balena che affermava di aver attraversato l’Atlantico. La quale, sentendoci esprimere foneticamente la parola umana strand, ci raccontò di come il suo significato nella lontana terra di “O-landa” fosse semplicemente “spiaggia” invece che, come da queste parti, “rischiare di finire bloccati spingendosi al di là delle onde” il che tra l’altro sembra estremamente dettagliato, per una razza dotata di gambe che trascorre la propria vita camminando tra una costa e l’altra, inoltrandosi soltanto qualche volta in mezzo al nostro regno di persone-degli-abissi, pardon, “delfini”. Chissà che un tempo, tribù specifiche delle nostre due specie avessero scoperto un qualche modo di comunicare tra di loro. Possibile, magnifico…. Dimenticato. Perché dopo tutto tra noi e voi, abbiamo sempre dovuto combattere con l’inarrestabile progresso del provincialismo culturale. Quella tendenza naturale a dimenticare, per cui particolari usanze o metodologie elaborate attraverso innumerevoli generazioni di sacrifici, finiscono per  restare un esclusivo appannaggio di un particolare contesto geografico, mancando di migliorare la vita d’infiniti esseri, che potrebbero invece riceverne un immenso beneficio. Di certo, almeno questo posso ben dirlo; l’antica arte del “fischio lungo-sibilo[…]” richiede condizioni altamente specifiche per essere portata fino alle sue vette più elevate. E per quanto ne sappiamo noi del gruppo di caccia, esse potrebbero anche sussistere in questo particolare luogo. Di un mondo totalmente ricoperto di vongole affilate, fin dove l’occhio può raggiungere la terra dell’eterna secchezza esistenziale.
“Eccoli, guardate, eccoli, guardate lì!” Disse il capitano della piccola imbarcazione turistica Bright’s Bottle, mentre si affrettava a spegnere il motore, congratulandosi silenziosamente con se stesso per essere riuscito, ancora una volta, ad offrire lo spettacolo che solamente il suo prestigioso estabilishment riusciva a garantire “quattro volte su cinque” nell’intera contea di Chesterfield e dintorni. Certo, non era poi così difficile: bastava imparare a seguire GLI UCCELLI. Un silenzio quasi religioso calò sulla decina di persone abbondante, quasi tutte in calzoni corti e maglietta nonostante le temperature stessero già iniziando ad abbassarsi, cellulari e telecamere alla mano. In fondo, a ciascuno di loro era stata spiegata la multa prevista per chiunque disturbasse il naturale comportamento dei delfini, impedendogli di procacciarsi il cibo con la loro tecnica più unica che rara: fino a 11.000 dollari, il massimo previsto da un’infrazione del codice civile americano. Un piccolo rischio da correre, per poter assistere a uno spettacolo di questa caratura. Il capitano si fece scudo dal sole con la mano, per tentare la conferma di quanto, in cuor suo, già pensava di sapere; ed infatti, a capo del gruppo di caccia, c’era il vecchio Stephenson, un’esemplare riconoscibile dalla ragnatela di cicatrici sul suo dorso grigio, forse risalenti a quando la tecnica dell’auto-spiaggiamento non era stata ancora perfezionata dai più celebri cetacei delle coste statunitensi meridionali. Perché in effetti, contrariamente a quanto avviene con la maggior parte degli altri comportamenti animali, non stiamo affatto parlando di una tecnica iscritta nel loro codice genetico, bensì di un’usanza, una vera e propria tradizione, insegnata dai membri più anziani del branco ai loro futuri successori, che avranno il compito di far lo stesso coi figli dei loro figli e così via a seguire. D’un tratto, l’assoluto silenzio venne interrotto brevemente dal suono di una bambina che trasaliva “Sssh!” fece subito la madre. Beh, difficile biasimarla: lo strand feeding, come viene chiamato dagli etologi, rappresenta una scena drammatica e pericolosa. È facile pensare, soltanto per un attimo fugace, che i nostri lontani parenti dell’oceano stiano per restare bloccati a una distanza eccessiva dall’acqua, rischiando di soffrire lesioni interne ed esterne. Quando pesi una media di 500-600 Kg, fare a meno del principio di galleggiamento, restando in balìa della sola attrazione gravitazionale non è proprio un passo privo di pericoli. Non che a loro, all’ora della caccia, sembrasse importargli alcunché.

Leggi tutto

Tozzo, ma elegante: le mille risorse del coniglio-elefante

Attorno al XVII secolo, mentre i coloni olandesi continuavano a ingrandire e rifornire il Castello di Nuova Speranza, punto di riferimento primario per i convogli mercantili marittimi in andata o ritorno dalle terre d’Oriente, esploratori, prospettori e naturalisti ebbero modo di fare la conoscenza con un nuovo tipo di popolazione nativa. Una tribù solitaria, ma rumorosa, che scrutava ogni loro movimento dalla cima della Tafelberg, il rilievo perennemente avvolto dalle nubi che oggi conosciamo col nome di Table Mountain. Il primo contatto, come spesso avviene, fu piuttosto difficile, vista la spontanea diffidenza degli abitatori di queste alture. Ma non c’era sostanzialmente nulla che potesse impedire loro, prima o poi di fare affidamento sulla sostanziale benevolenza degli umani. Già, perché gli iraci del Capo, anche detti tassi delle rocce o dassie (Procavia capensis) non hanno particolari esigenze territoriali, una natura invadente o indole che possa definirsi feroce. Stiamo parlando di un personaggio la cui esistenza consiste, per il 95% del tempo, nel riposarsi sotto la luce diretta del sole, allo scopo di compensare la propria termoregolazione imperfetta. Eppure sarebbe certamente riduttivo definire simili bestioline come del tutto prive d’interesse, quando si prende atto della compattezza delle loro colonie, composte di fino a 80-90 esemplari e con una discendenza che, molto spesso, potrebbe rivaleggiare in antichità con quella degli stessi strati geologici all’interno dei quali è solito scegliere la propria tana.
Creatura dal peso di 3,5-4 Kg, così diffusa da essere citata anche nella Bibbia (ne esistono colonie millenarie in Siria) l’irace è straordinariamente significativo dal punto di vista tassonomico, per una parentela tutt’altro che evidente con i proboscidati e i sireni, che può essere unicamente desunta da alcune caratteristiche morfologiche e comportamentali. Come gli elefanti, infatti, l’animale presenta due denti prominenti, configurati in questo caso come altrettante piccole “zanne” da vampiro, ha i piedi posteriori plantigradi e un naso sensibile usato per tastare le cose, benché non abbia ancora avuto modo attraverso le generazioni di assumere la forma di una lunga e flessibile proboscide. Per quanto concerne invece la sua eredità da dugonghi e lamantini, essa può essere ricondotta principalmente alle complesse vocalizzazioni emesse a seconda della situazione vigente, con una sintassi e valenza comunicativa paragonabile a  quella dei cani della prateria, altra comunità del mondo animale che per poter sopravvivere, deve fare affidamento sulla prontezza nel reagire alle emergenze o l’arrivo di un eventuale predatore dal cielo. Eventualità nel caso in cui il dassie mette in campo un altro specifico adattamento, particolarmente utile presso gli altopiani assolati del territorio sudafricano, il cosiddetto umbraculum, una sorta di membrana che protegge gli occhi dalla luce diretta, svolgendo la funzione sostanziale di un paio d’occhiali da sole integrati. Affidandosi ai quali nessun falco, aquila o altro rapace potrà piombare sulla colonia non visto, a patto che la sentinella di turno durante le fatidiche ore del foraggiamento non venga distratta o si addormenti durante l’attesa. Ma questo non succede praticamente mai.
Al diffondersi dell’allarme, dunque, la reazione del mucchio peloso d’individui è praticamente immediata: con una prontezza che sembra prescindere la loro forma tozza e le zampe dalla lunghezza paragonabile a quelle di un gatto di razza munchkin, i mammiferi dai pronti riflessi iniziano a sparpagliarsi tra le rocce, arrampicandosi agilmente e in taluni casi, salendo persino sugli alberi circostanti, in cerca di riparo tra le fronde. Un gioco che non sempre gli riesce nel loro paese d’origine (altrimenti non potrebbero esistere predatori specializzati come l’aquila di Verreaux, Ictinaetus malayensis) benché al di fuori dell’area africana, non si abbiano semplicemente notizie di simili pasti ragionevolmente sostanziosi ritrovati nello stomaco di un lupo o altra creatura di terra. Il che dimostra, senz’ombra di dubbio, i meriti e le capacità di questi abitanti di una nicchia abitativa tra le più elevate dell’intero emisfero meridionale, in grado di estendersi fino ai monti Sarawat sulla costa occidentale della penisola arabica, verso oriente. Con molte differenziazioni e gruppi genetici chiaramente distinti…

Leggi tutto

Storia del crostaceo che appallottola sabbia da mattina a sera

Dopo aver familiarizzato con il terzo pianeta della stella Sol-1, ci rendemmo ben presto conto di qualcosa d’inaspettato. Contrariamente a quanto ci aspettavamo sulla base del nostro luogo di provenienza, in questo luogo la vita riusciva a prosperare praticamente ovunque. Esiste un luogo estremamente rappresentativo di tutto questo, che i nostri scienziati scelsero di chiamare piano mesolitorale, in cui la più impressionante massa d’acqua che voi possiate riuscire a immaginare (“oceano o “mare” che dir si voglia) incontra un territorio granulare generato dall’erosione dei minerali a base di silicati (“spiaggia”). Questo habitat surreale viene alternativamente colpito direttamente dalle radiazioni stellari, oppure inondato per l’effetto gravitazionale del grande satellite in cielo (“Luna”) creando l’equivalente di un tormento invivibile dove nessuno di noi potrebbe resistere per più di pochi minuti. Eppure, proprio qui riesce non soltanto a esistere, bensì prosperare la più impressionante collezione di mostruose creature. Vermi oblunghi dalla forma appiattita, dotati di una pletora di minuscoli peli locomotori (“turbellaria“); letterali sacche tentacolari composte da uno stomaco sovradimensionato, capaci di estrarre il nutrimento dal fluido che le circonda (“cnidaria“); esseri a otto zampe in grado di saltare e afferrare le proprie vittime con gli appuntiti cheliceri (“acari”); quadrupedi corazzati dall’espressione perennemente accigliata, capaci di resistere a qualsiasi tipo di radiazione spaziale o impatto accidentale (“tardigradi”). E che cosa direste a questo punto, miei cari amici Centauriani, se vi dicessi che c’è una creatura talmente grande e potente da riuscire a dominare su tutto questo, facendone il proprio cibo prediletto?
Di certo, è tutta una questione di dimensioni. Se la “Terra” fosse ancora abitata, nella maniera in cui abbiamo avuto modo di desumere, da esseri intelligenti alti all’incirca 160-210 cm, talmente grandi da poter ospitare una delle nostre astronavi sul palmo di una singola mano, tutto questo sarebbe sembrato loro poco più di un interesse passeggero, approfondito unicamente dagli studiosi che crearono l’arcana terminologia fin qui utilizzata. Ma questo “granchio” ai nostri occhi, non può che apparire come l’espressione più terribile di una belva completamente spietata. Il nostro primo contatto con la creatura avvenne all’incirca attorno alla seconda settimana dall’arrivo, dopo aver stabilito una base operativa e inviato gli esploratori a creare un perimetro difensivo. La capsula gravitazionale, in quel momento fatidico, scorse qualcosa d’inaspettato: nella cosiddetta “spiaggia” compariva un pertugio tenebroso dalla forma perfettamente circolare, evidente creazione artificiale di qualcuno… O qualcosa. Eccitati per la scoperta, i militari decisero quindi di sostare per qualche tempo a mezz’aria, puntando i loro cannocchiali verso la strana caratteristica del terreno. E fu allora che sotto i loro occhi spalancati, una pinza colossale, seguita dal carapace indistruttibile del terrore di queste terre, cominciò ad emergere con un movimento lievemente rotatorio. Estratte i rimanenti nove arti, tra cui l’altro simmetricamente conformato come un’arma d’offesa invincibile, la bestia ricadde pesantemente sulla sua schiena. A quel punto venne percorsa da una sorta di tremore, prima di voltarsi con un rapido volteggio e iniziare una lunga camminata. Ciò che apparve chiaro, a quel punto, agli osservatori, era che lo scopo di tale essere consisteva nel fagocitare cambiarla “sabbia”, cambiarla e sputarla fuori. Cambiarla profondamente nel suo modo di presentarsi al mondo…

Leggi tutto