Nastro d’asfalto che conduce verso il fondo della valle, grigio, ruvido e tortuoso. Il senso estremo della guida, disarticolata dal bisogno di raggiungere in orario la destinazione. Perché l’obiettivo è il viaggio stesso… Perché le ruote girano da sole, come l’inesauribile ripetersi del ciclo degli eventi. La paura. Il senso dell’aspettativa. L’entusiasmo! E infine, la trasformazione. Da crisalide a un qualcosa di molto più grande, stretto e lungo. Io sono. Io, sono. La strada. Quanto è distante il cielo, com’è veloce il tempo, dove può condurmi questa forza dell’estemporanea gravità? È l’energia del corpo principale! Agile e scattante, che ritrova controparte in quella statica e immanente, di ciò che gli ingegneri hanno dato in dono al passo degli autisti, dei ciclisti e dei motociclisti. Ma non c’è sellino né sedile, nessun luogo distaccato e logico e coerente, che possa permetterti di diventare questa doppia non-cosa. Poiché come avviene per il Wi-Fi ad alto tasso d’interscambio, c’è una portata massima di un tale sentimento. Che non può superare, ahimé, i 15 cm da terra. O almeno, così sembra. Il che giustifica del tutto, a conti fatti, l’invenzione del francese Rollerman, o come usano chiamarlo all’anagrafe, Jean Yves Blondeau, costruttore della nuova evoluzione della tuta alare. Senza ali, perché deve rotolare. E voi lo sapete, come? Con un gran totale di 33 ruote, collocate attentamente tutto attorno alla corazza, sulle ginocchia, i gomiti, le mani… Le caviglie, i piedi (chiaramente) e addirittura qualcheduna sulla schiena. Perché non sia mai che si presenti l’occasione, imprevista ma gradevole, di prendere la posizione del bobbista olimpico, coi piedi avanti e gli arti ben raccolti nell’imitazione di una freccia umana. Soltanto, senza la carlinga attorno. Perché a chi potrebbe mai servire, una simile interfaccia che ogni cosa complica ed appesantisce, rende grigia, priva di sostanza…
La storia di Rollerman, uno dei pochi supereroi viventi al di fuori dell’ordine dei medici, pompieri, poliziotti ed astronauti, ha inizio in via formale approssimativamente 23 anni fa, quando il giovane Blondeau, a coronamento dei suoi anni di studio presso l’ENSAAMA (Scuola Nazionale di Arti Applicate) di Parigi, sceglie di presentare come tesi l’armatura destinata a renderlo famoso di lì a qualche anno, facendosi carico di una mole di lavoro e sperimentazioni decisamente superiore a quella dei suoi colleghi. Per sei mesi, quindi, scopre tutto quello che c’è da sapere nei “Sistemi che enfatizzano le sensazioni causate dallo spostamento del centro di gravità umano in relazione a dei punti d’appoggio, con lo scopo di spostarsi nello spazio.” Il che significava, sostanzialmente, abbigliarsi come la versione stradale di Iron-Man e lanciarsi su ogni strada in discesa che potesse riuscirgli di trovare, con il naso a pochi centimetri da terra. E lo scopo dichiarato, nonché molto sentito, di trovare nuove posizioni sfruttabili nella pratica degli sport di scivolamento, come il pattinaggio e lo skateboard. L’attenzione e gli sguardi perplessi attirati da parte dei passanti, in questa fase, furono piuttosto significativi. A giugno del 1995 finalmente, previa consegna del progetto all’ufficio brevetti francese, l’uomo-ruota ottiene la sua laurea e spicca il primo balzo verso un futuro in perenne e inarrestabile discesa. Ma non prima di aver trovato una sua personale fonte d’ispirazione dal mondo dei fumetti. Il paragone della collettività ovviamente, sopratutto oggi, è quello già da me impiegato poco più sopra: quale altro eroe cinematografico, internazionale come soltanto Hollywood può esserlo, arriva ad assomigliargli maggiormente che il capitalista corazzato interpretato da Robert Downey Jr, in grado di combattere il nemico grazie alla tecnologia… Mentre Blondeau, che non ama particolarmente i fumetti della Marvel e almeno sembrerebbe, neanche lo stile ed i design americano, raccontava nel 2012 a Online Roller Skating Magazine di aver trovato la propria controparte ideale nell’eroina Alita del manga giapponese GUNM, cyborg praticante dell’arte marziale Panzer Kunst (lotta corazzata). Una nascente passione per l’Oriente che l’avrebbe guidato, negli anni immediatamente successivi, al primo dei suoi grandi successi…
Asia
L’uomo che cammina sopra la barriera corallina
Quando si osservano le caratteristiche del corpo umano, è impossibile non notare una certa affinità con l’ambiente subacqueo. Certo, i nostri occhi vedono piuttosto male se inondati. E le alte pressioni producono un’effetto sul contenuto della nostra cavità toracica che definire “stressante” sarebbe alquanto riduttivo. Senza considerare, ovviamente, il piccolo dettaglio del respiro. Ma provate voi ad immaginare le capacità natanti di un qualsiasi altro mammifero di terra, ivi incluse tutti quei primati che sarebbero, almeno in teoria, così eccezionalmente simili a noi… Oppure considerate, di rimando, l’improbabile visione di un delfino che s’inoltra in spiaggia. Non esiste, letteralmente, altro essere vivente in grado di trascorrere la vita fuori dall’Oceano qualora lo desideri, nutrendosi al contempo dei suoi abitanti più nascosti dalla luce implacabile del Sole. Verrebbe un po’ da chiedersi, una volta giunti a questo punto: “Qual’è il limite massimo di una persona che trascorra la sua vita in mare?” Quanto può restare senza riemergere, qual’è la massima profondità concessa? Ci sono due serie di risposte possibili, derivanti dagli approcci contrapposti dello sport, e della pura e semplice necessità. Nel primo caso, le cifre in assenza di ausili tecnici sono immediatamente chiare: circa 10 minuti di tempo, qualche decina di metri in profondità. Prestazioni migliorabili con l’assunzione di ossigeno concentrato da una bombola poco prima dell’immersione, o l’impiego di pinne e cinture con pesi annessi. Ma non c’è limite a ciò che può riuscire a fare l’uomo disinvolto all’opera, nel corso della normale quotidianità…
Questo è un pescatore delle Filippine appartenente al popolo semi-nomade dei Sama-Bajau, chiamati a volte gli zingari del mare. Nato e cresciuto, presumibilmente, su una casa-barca di famiglia con scafo multiplo (proa) o singolo (lepa-lepa/sakayan) egli ha iniziato a immergersi praticamente dall’era in cui noi muovevamo i primi passi, come parte dell’educazione che avrebbe fatto di lui, un giorno, un membro produttivo della società. Osservarlo all’opera è assolutamente rivelatorio, in merito agli adattamenti e la capacità operativa dimostrabili nel caso in cui la via sottomarina sia stata trasformata, all’interno di un gruppo sociale, nell’autostrada che conduce alla consapevolezza dell’età adulta. Non c’è in effetti alcuna attrezzatura, per assisterlo nella sua pesca sopra la barriera corallina, fatta eccezione per il fucile con la fiocina ed un paio di occhialini fai-da-te di legno, prodotto dell’artigianato locale, che in effetti non dovrebbero neppure essere usati sotto i 10 metri di profondità, per il potenziale “effetto Garfield” (occhi fuori dalle orbite) indotto dal differenziale di pressione. Eppure lui riesce, senza difficoltà apparente, a raggiungere il fondale marino ad un doppio della distanza ed inizia a camminare, come nulla fosse, sulla superficie frastagliata del corallo. Cos’è il galleggiamento, dopo tutto, se non il prodotto di una particolare fisicità e il contenuto delle nostre cellule, di placidi abitanti della superficie… Mentre costui, senza un filo di grasso superfluo, può affondare come un masso, se soltanto lo desidera. E rallentare i battiti del cuore, mentre i polmoni si riducono ad un terzo della loro dimensione naturale. Tra i Bajau più tradizionalisti, la rottura dei timpani è considerato un rito di passaggio per lo più desiderabile o persino auto-indotto, sperimentando il quale si guadagna l’abilità di immergersi senza più particolari limitazioni. “Si sanguina dal naso e dalle orecchie, si resta sdraiati per una settimana circa a causa delle vertigini” Riporta un articolo del Guardian: “Quindi, il dolore passa per non tornare mai più.” È forse la dimostrazione ultima, e per certi versi sorprendente, di come biologia e cultura siano due lati inseparabili della stessa medaglia, che possono collaborare nel segnare il percorso dell’evoluzione umana. Molto più della comune selezione naturale…
La fortezza sul macigno nel cuore dello Sri Lanka
Possenti regni ed enormi imperi sono crollati per una vasta gamma di situazioni svantaggiose, come mutamenti sociali, invasioni barbariche, crisi del commercio e dell’economia. Nel corso di battaglie cruciali al culmine di un conflitto epocale, può essere bastato un imprevisto, come condizioni climatiche avverse o un errore dei generali, per modificare lunghi secoli o persino millenni di storia. Resta tuttavia profondamente impressionante, tornare col pensiero alla fulgida ascesa e l’altrettanto rapido crollo dell’era del re Kashyapa nel 495 d.C, per l’effetto disastroso del mero capriccio di un elefante. Ovvero il suo pachiderma da guerra, per essere più precisi. Del quale si narra, nel momento in cui egli scese in campo per sfidare il suo più acerrimo nemico, che deviò di lato all’improvviso, portandosi dietro il suo padrone e tentano almeno in apparenza di fuggire via. Il che bastò a gettare l’intero esercito nello sconforto. Ed a portare a molti dei suoi comandanti più fidati ad ordinare la ritirata, se non addirittura un repentino cambio di bandiera. Certo, è inutile specificarlo: se il nemico fosse stato uno straniero, o il portatore di uno spietato cambiamento dell’elite al potere, tutto questo non sarebbe mai successo. Ma il nemico di Kashyapa, in quel fatidico giorno, altri non era che il suo stesso fratellastro Moggallana, unico vero erede al trono dei Moriya, dal momento esatto in cui l’altro aveva assassinato crudelmente il loro padre, murandolo vivo in una stanza del palazzo reale ben 18 anni prima di quella data. Un gesto imperdonabile secondo qualsiasi cultura, che l’aveva probabilmente indotto, fin da allora, a trasferire la sua capitale dall’ancestrale seggio di Anuradhapura. In un luogo che veniva ritenuto, a torto a ragione, del tutto inespugnabile da chicchessia.
Il senso di colpa ed uno stato di paura costante possono indurre le persone a fare molte cose. E specialmente quando le risorse a disposizione sono virtualmente infinite, come nel caso del monarca di un predominio sul popolo concesso dagli Dei stessi, edificare delle vere e proprie meraviglie dei loro tempi. Come le piramidi in Egitto, ritenute l’unico strumento per mantenere l’importanza di un sovrano dopo la sua morte. O la ricerca, relativamente più immediata, di una vita lunga e serena, all’interno di un sontuoso palazzo completo di giardini (pensili) svariate concubine, opere d’arte, incalcolabili ricchezze ed una vista ininterrotta verso l’orizzonte, al fine di scrutare l’arrivo dell’ora temibile della vendetta. Fu così che Kashyapa, secondo alcune teorie portando a termine un progetto già stilato dal suo sfortunato padre e predecessore Dathusena, decise di far costruire il nuovo centro del suo regno in un luogo dotato di qualcosa che fosse letteralmente unico nell’intera terra di Tambapanni (antico nome dello Sri Lanka). Ciò che in termini moderni viene definito una monadnock, oppure un inselberg: l’enorme macigno, in questo caso alto più di 200 metri, che costituiva l’unico residuo tangibile di un precedente vulcano. Come la celebre Uluru (Ayer’s Rock) australiana, ma nel territorio di un popolo dotato delle risorse tecnologiche, e la propensione culturale, necessari a sfruttarne a pieno l’imponente presenza. E questa fu la nascita di Sigiriya, che sembrava dovesse garantire al suo proprietario una vita eterna. Finché l’elefante, che come sua natura non dimenticava mai nulla, non decise di porre fine ad un simile ingiustizia di fronte al popolo di questo mondo e il successivo.
Ma non prima che egli facesse, della sua preziosa gemma sopraelevata, uno dei luoghi più magnifici che il mondo avesse mai conosciuto fino ad allora. La fortezza di Sigiriya, il cui nome significa “Roccia del Leone” prendeva il nome da una colossale porta scolpita posta in fondo a 1200 ripidi scalini, raffigurante l’animale più feroce noto alle genti dello Sri Lanka. Da lì, quindi, si accedeva ad un camminamento sopraelevato lungo 140 metri, completamente ricoperto di affreschi raffiguranti più di 500 Apsaras, le leggendarie consorti degli dei del cielo. In un tratto successivo, dove un tempo continuavano i dipinti, l’alto parapetto lascia il posto ad una parete ricoperta di un marmo lucido, affinché il sovrano e i suoi sottoposti potessero osservare la loro immagine assieme a quella delle divinità. Ma soltanto ai più fidati tra gli uomini, o alle più desiderabili tra le donne, sarebbe stato permesso di penetrare ulteriormente nel sancta sanctorum del despota patricida…
La craniotomia spontanea del cinghiale indonesiano
Mamma scrofa lo diceva sempre ai piccoli suini: “Se non potete essere graziosi, siate famelici. Grugnite, agitatevi, battete gli zoccoli per terra. Arrabbiatevi! Ed avrete da mangiare.” Funziona in molte situazioni differenti: nella foresta, dove un gruppo sfortunato d’escursionisti potrebbe incontrare la tipica versione selvatica dell’animale, il peloso, zannuto e temutissimo cinghiale. Come del resto, allo zoo, luogo privo della grazia ineffabile della totale libertà, ma d’altro canto di qualsiasi preoccupazione legata al cibo. Tranne che… Se avere 2 può essere abbastanza, se avere 3 un’occasionale colpo di fortuna, riuscire a conseguire per se stessi 7, 8 oppure 9 (patatine? Noccioline? Piadine?) può davvero colorare il senso e la struttura di una lunga e appiccicosa giornata. Il che riesce molto meglio se si resta impressi al primo sguardo, in senso non soltanto necessariamente positivo. Lo sa bene babirusa, il più misterioso e strano artiodattilo al mondo, il cui nome significa letteralmente nella lingua di Sulawesi e Buru “cervo-maiale”. Ora, se osservate attentamente questo esemplare in ottima salute, la cui aria posseduta ebbe certamente modo di far sogghignare quel giorno i visitatori di un qualche resort animale del Sud Est Asiatico, noterete che la coppia delle sue due zanne più grandi, arricciate sopra il muso come protezioni di un casco da football, è stata attentamente limata e spuntata dagli sfortunati guardiani preposti a tale mansione. Volete saperne la ragione? Perché altrimenti la natura grama, che di certo questa bestia non doveva averla in palmo di mano, avrebbe condotto tali denti senza falla a ritorcersi contro il suo stesso cranio. Arrivando, si ritiene, a trasformarne il possessore in carne pronta per fare il bacon.
Càspita, che convenienza! Per noi abitanti delle regioni circostanti al Mediterraneo, presso cui animali appartenenti alla stessa famiglia s’interfacciano con noi alla maniera, grosso modo, di giganteschi topi invasori, un tale feature non potrebbe che essere assai gradita. Un sistema di autodistruzione per i grandi capi del branco, in grado di farli fuori senza falla al raggiungimento del supremo stato di perdominio? Dove dobbiamo firmare per avere i vostri maiali? Ma la realtà è che tutti gli appartenenti alla sottofamiglia Babyrousinae, nonché all’unico suo genus Babyrousa, non invadono proprio nulla, appartenendo collettivamente all’ambito degli animali a rischio lieve d’estinzione, per la progressiva riduzione dell’habitat di appartenenza. Come gli animali preistorici a cui tanto rassomigliano, questi esseri a metà tra il cinghiale e l’ippopotamo potrebbero presto sparire, lasciando come testimonianza della loro esistenza solamente un riecheggiante grugnito. Assieme ad un gran mucchio di teste perforate. Potrebbe in effetti, sembrare l’esatto opposto del senso stesso dell’evoluzione. Un animale i cui denti possono ucciderlo: qual’è la ragione? Come in molti altri aspetti della vita ed il senso di questa creatura, la questione non sembrerebbe avere alcun senso. Le due zanne superiori, che tecnicamente sono i canini del maschio, crescono verso l’alto, fuoriuscendo dal muso attraverso la pelle, ma risultano in realtà piuttosto delicati, e per questo largamente inutili nei combattimenti. Fatta eccezione l’opportunità occasionale di deviare un colpo dei rivali in amore, evitando che gli occhi vengano colpiti dalla vera arma dell’animale, i due canini inferiori che crescono diagonalmente verso l’alto e l’esterno, arrivando a costituire delle vere e proprie sciabole, utili anche per scavare nel sostrato boschivo. Il che risulta molto importante per il babirusa, che essendo privo del disco osseo prenasale dei suini nostrani, non può scavare penetrare col muso direttamente nel terreno per cercare il cibo, a meno che si trovi in una zona paludosa dal suolo molle. Un aspetto molto significativo della sua biologia è la presenza di tre stomaci distinti, come i bovini, fattore che ha fatto sospettare per lungo tempo che potesse trattarsi di un ruminante, benché la realtà dei fatti abbia in effetti smentito l’improbabile teoria. Il cinghiale indonesiano si nutre di frutta varia, mango, funghi, foglie, insetti e noci dal guscio duro, che rompe facilmente grazie alla forza della sua mascella. Più raramente, dei cuccioli di altri mammiferi o persino, della sua stessa specie. Il suo aspetto e stile di vita bestiale, attraverso i secoli, ha influenzato gli usi e leggende delle popolazioni indonesiane…