Li Ziqi e l’intenso racconto della vita di campagna cinese

La ragazza apre il baule in legno che si trova nel suo giardino, scrutando con espressione intenta nell’ampia e pressoché totale oscurità. I lunghi capelli, con le trecce che gli ricadono sulle spalle, non intralciano i suoi movimenti, mentre un semplice abito blu cobalto crea contrasto contro i colori desaturati del fondale. Dall’interno della scatola, quindi, fuoriescono alcune api, che ronzando insistentemente le girano attorno, mentre lei, noncurante di tutto, estrae parte del favo. Composto di cera, più che altro, in questa stagione dell’anno, una sostanza che prontamente viene immersa in un barattolo sul tavolo della veranda, bollita e rimescolata. Con gesti precisi e cadenzati, a quel punto, ella versa nel recipiente ciò che sembrerebbe essere dell’olio d’oliva, prima di recarsi con piè leggero presso le sue aiuole fiorite. Da dove coglie, scegliendole attentamente, una certa quantità di rose rosse. Fatti a pezzi quei petali, ed aggiunti all’intruglio, vi immerge dentro, uno alla volta, alcuni piccoli fogli rettangolari di carta, tirandoli fuori di un acceso color vermiglio. L’espressione compunta, sul finire del video, ne prende uno tra le affusolate dita. Lentamente, lo avvicina alle labbra, e stringe. Nella didascalia, ci spiega il segreto: “Usare i fiori per accrescere il proprio fascino.” Un’idea, a suo stesso dire, presa in prestito dal grande classico letterario delle storie d’amore d’Oriente, Il sogno della camera rossa di Cao Xueqin.
Volendo elencare le possibili qualità operative di un vlogger, l’autore o autrice nel periodo quotidiano (o al massimo, settimanale) di contenuti autoprodotti per il Web, una delle prime metriche prese in considerazione diventa quasi sempre il montaggio. In un mondo d’intrattenimento o divulgazione che tende all’ipervelocità, dove ogni singolo utente è sempre pronto a cliccare sull’elenco dei “video collegati” per spostarsi altrove, lo stile comunicativo dovrebbe essere secco, conciso, diretto al punto. Ma anche, in qualche maniera, originale ed accattivante. È proprio per questo che negli ultimi tempi, sta ottenendo ottimi risultati una nuova tipologia di autori, che piuttosto che parlare velocemente, non parlano affatto. I quali, invece che spiegare punto per punto quello che vogliono mostrarci, lasciano semplicemente che siano le immagini a parlare. Il che implica, generalmente, immagini di un livello qualitativo particolarmente elevato. Un esempio tipico è quello dei nuovi canali di cucina, in cui la ricetta viene mostrata con tutta la chiarezza visuale e lo stile estetico di una pubblicità per la televisione, ma anche dell’opera di determinati esponenti della cultura dei makers (il nuovo fai-da-te digitale) che realizzano un qualcosa passo dopo passo, nel più totale silenzio o quanto meno, sostituendo all’uso della voce un qualche tipo d’accattivante colonna sonora. Li Ziqi  è l’astro nascente del social network cinese Weibo che, secondo questo tipo di classificazione, potrebbe rappresentare l’artista videografica definitiva. Si fa un gran parlare del “Grande Firewall Cinese” con chiaro riferimento alla spiacevole censura operata dalle autorità di quel paese nei confronti di molti siti Internet “problematici” o in qualche modo considerati sediziosi, senza però far mente locale sul fatto che una barriera simile, per ragioni totalmente diverse, compromette anche la nostra acquisizione realmente globale delle informazioni correnti. E quella barriera, purtroppo, è la lingua. Internet nell’Estremo Oriente costituisce una terra sostanzialmente inesplorata, nei confronti della quale persino il possente Google non può aiutarci granché. Lo stesso sistema d’indicizzazione del World Wide Web, basato unicamente sui caratteri alfanumerici latini ed arabi, nasconde quest’ampia gamma di contenuti dietro una serie di numeri apparentemente privi di significato, mentre la ricerca per ideogrammi resta largamente impossibile ai più. Finché qualcuno, come un recipiente della missione buddhista, non sacrifica il proprio tempo per tradurre, o quanto meno traslitterare i titoli rilevanti, spalancando metaforicamente un portone che cambia del tutto il regolamento dei giochi. Come è successo l’altro giorno per il tramite delle discussioni del portale Reddit, grazie all’esplorazione divulgativa di alcuni utenti (principalmente easternpromises e bbpeach) i quali hanno scoperto come i video di questa particolare autrice fossero stati ricaricati, negli ultimi tempi, su alcuni canali di YouTube dai suoi molti fan. Con il risultato che per la prima volta, potevano essere facilmente trovati, e visti da tutti noi. Con un effetto che, persino a tanti chilometri di distanza, resta semplicemente straordinario…

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L’inestimabile fucile ingioiellato del sultano Mahmud I

Quando il Consiglio Imperiale Ottomano si riuniva, ogni ingresso del palazzo di Topkapi veniva guardato a vista da uno stuolo di giannizzeri armati fino ai denti: lance, sciabole, fucili. Nessuna arma veniva considerato inadatta a salvaguardare l’elite governante dai più sconvenienti elementi di Kostantîniyye, la Città d’Oro, luogo instabile proprio in funzione della sua storia, della sua vastità, della posizione strategica che la poneva a collegamento delle terre turche con l’area dei paesi di lingua bulgara e la Grecia. Nella maestosa sala nota come il Kubbealtı, sotto cui si trovava il prototipico Divano, al tempo stesso un gruppo di persone, nonché il seggio sopra cui si sedeva, convenzionalmente, il sommo Sultano del più vasto impero dell’Oriente rinascimentale. Il 24 novembre del 1731 la moltitudine dai maestosi turbanti taceva mentre, per l’ennesima volta, Mahmud il gobbo subiva passivamente le decisioni dei suoi funzionari. Era stato posto nominalmente al comando, d’altra parte, proprio per il suo poco interesse nei confronti del potere assoluto, all’esercizio del quale preferiva la poesia, l’arte o lo studio della natura. A seguito dell’insurrezione armata dell’anno prima istigata dall’ex soldato Patrona Halil, culminante con la deposizione di Ahmet III, zio dell’attuale governante, e lo strangolamento del suo gran visir. L’unico erede possibile era quindi stato trasportato in tutta fretta presso il complesso delle tombe di Eyüp sulle coste del Mar Nero, dove in una tradizionale cerimonia aveva ricevuto la leggendaria spada di Osman, facendone l’ultimo ricevente dell’egemonia imperiale. Una qualifica certamente scomoda, per un uomo di 35 anni che non aveva mai governato e che da ragazzo aveva dovuto sopportare l’umiliazione di vedere suo padre usurpato, per poi trascorrere lunghi anni nella prigione dorata della propria residenza privata. Dalla cui condizione, tuttavia, aveva saputo trarre vantaggio, circondandosi dei più rinomati sapienti attivi nella capitale, inclusi pittori, scultori e fabbricanti di gioielli. Vivendo in un’opulenza che persino oggi, avremmo difficoltà a concepire ed acquisendo, un giorno dopo l’altro, la dote fondamentale della pazienza. Mentre l’argomento in discussione delle ultime ambascerie giunte dal regno di Francia si andava gradualmente esaurendo, quindi, Mahmud si alzò in piedi.
Era una grossolana violazione del protocollo, che fece calare immediatamente il silenzio in sala. Le maioliche delle pareti riccamente decorate, intervallate da un portico ornamentale, parvero riflettere per un istante il suo sguardo carico di determinazione. Il sultano, quindi, fece un gesto all’indirizzo della porta, pronunciando le più inaspettate parole: “Fate entrare il condannato.” Due armigeri della guardia di palazzo, scelti tra i fedeli sostenitori della sua famiglia, entrarono quindi dalla porta principale, accompagnando a forza una figura in abiti pregiati. Un sussurro agitato percorse la sala, quando i presenti si accorsero di chi si trattava: era Patrona Halil in persona, il patriota “liberatore” dell’anno prima. Come per l’esecuzione di un copione attentamente provato, quindi, uno dei paggi del sultano fece un passo avanti dalla schiera dei servi, tutti rigorosamente musulmani, presenti all’incontro per aumentare il prestigio dei rispettivi padroni. Costui spiccava tra gli altri tuttavia perché, d’un tratto, ci si rese conto che era armato. Muovendosi come un automa, fece i pochi passi necessari a portarsi accanto al sultano, prima di porgergli il più incredibile oggetto che chiunque, fra i presenti, avesse mai visto prima di quel momento. Si trattava, piuttosto chiaramente, di un moschetto, costruito secondo le ultime innovazioni tecnologiche europee. Esso era, tuttavia, completamente fatto d’oro, e ricoperto di pietre preziose. Mentre lo impugnava con fare solenne, e tutti sembravano pronti a credere che avrebbe sparato lì ed in quel momento, Mahmud I lo abbassò di scatto verso il pavimento, sollevando in un solo fluido movimento lo sportello che si trovava sul calcio. All’interno del quale si trovava l’unica e più terribile di tutte le armi: un calamaio adibito a scrivere, assieme all’inchiostro necessario per farlo. “Patrona Halil, tu neghi di aver cospirato contro lo zio imperiale, fomentando scontenti tra la popolazione della nostra splendida città, per spodestarlo e mandarlo in esilio? Neghi di aver chiesto, da una posizione di forza, che il suo più stimato consigliere fosse messo a morte?” Ad ogni domanda,l’uomo tentava di rispondere con enfasi, ma un colpo dei suoi carcerieri lo riportavano a più miti consigli. Il fucile era tornato adesso nelle mani del servo, mentre un collega teneva sotto gli occhi del basso e tarchiato sultano una lista, da cui lui leggeva con voce stentorea le accuse. “Neghi di aver cercato l’aiuto degli infedeli, nel tentativo di promuovere la religione cristiana nella terra che fu resa sacra dagli eredi del nostro Profeta?” Qui l’espressione del veterano si fece rassegnata. Il suo destino, a quel punto, era chiaro.
Mentre i diversi visir presenti si guardavano bene dal sollevare questioni, osservando e prendendo nota del cambiamento in atto, Mahmud estrasse la penna dal calamaio, sfolgorante per le ulteriori pietre preziose. Chi si fosse trovato nella posizione idonea ad osservare da dietro le spalle del sovrano, avrebbe letto chiaramente il contenuto della condanna. “Strangolamento fino al sopraggiungere della morte.” Quale crudele, eppure stranamente appropriata, ironia…

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Il ponte che ridisegna la megalopoli del meridione cinese

Megalopolis: da un punto di vista prettamente europeo, potremmo identificarle come una serie di banane transnazionali dai molteplici colori. La blu, che parte da Liverpool in Inghilterra, per proseguire verso Bruxelles, Amsterdam, Lussemburgo e, dopo aver attraversato Francia e Germania, trovare il suo punto più a sud nella nostra Italia, all’incirca nei dintorni di Torino. E quella dorata, che partendo da qui, si dirige piuttosto ad Occidente, coinvolgendo Lione, Manresa e Cartagena. Mentre la verde, che ha l’origine in Polonia, coinvolge l’Austria e la nostra città di Trieste. Nient’altro che un gioco, da un punto di vista prettamente grafico, per chi evidenzia contorni e profili degni di nota sulle cartine. Ma anche molto più di questo. Poiché c’è un limite o una distanza massima, oltre cui l’energia intrinseca di un centro abitato può fare il “salto” trovando riconferma ed accrescimento nel prodotto economico dei suoi vicini. Quanto possa estendersi tale spazio, a seconda di chi effettua l’analisi, può  variare. Secondo gli studiosi della Commissione di Riforma e Sviluppo Nazionale di Hong Kong, molto evidentemente, si tratta di quello che può essere percorso da un’automobile media in un tempo che si trova, grossomodo, tra le quattro ore ed i trenta minuti. Uno spazio per colmare il quale (assieme ad oltre 50 km di mare) dopo oltre trent’anni di ipotesi ed esattamente 9 di lavori, sta per essere portato a termine il più lungo, e per certi versi significativo progetto relativo ad un ponte che transita sopra l’acqua. Obiettivo: balzare oltre il vasto delta del leggendario Fiume delle Perle, per unire l’ex-colonia inglese nota come Porto Fragrante (questo il significato cantonese del suo nome) al centro abitato antistante di Macao, e per suo tramite la città di Zhuhai. Per un totale di 7,3 + 0,6 + 1,5 milioni di abitanti, al fine di creare un singolo hub di 56 Km quadrati, formato da tre delle principali, e più popolose città dell’intera area cinese meridionale. Ma anche, in effetti, molto più di questo: poiché il semplice conteggio delle teste non può raccontare l’intera storia, quando stiamo parlando di aree portuali in grado di ricevere o spedire incalcolabili tonnellate di merci ogni giorno, senza neanche approcciarsi alla questione dell’aeroporto internazionale di Hong Kong. Per raggiungere il quale dall’altra parte del confine geografico fluviale, fino ad ora, è sempre stato inevitabile un ritardo di mezza giornata di lavoro. Mentre oggi, finalmente, il flusso della storia dei trasporti sta per cambiare.
Il culmine si è raggiunto, guarda caso, la notte stessa del capodanno solare, che qui è vista come una festa secondaria rispetto a quella del calendario cinese, che si celebra in base al novilunio tra gennaio e febbraio. Occasione in cui svariati milioni di cinesi si allontanano per un periodo di fino a quattro giorni dal lavoro, e percorrono miglia e miglia per raggiungere i propri parenti o destinazioni turistiche (o “banane”) di grido. Mentre la celebrazione nostrana, stavolta, ha avuto la fortuna di cadere in corrispondenza del momento in cui, grossomodo, andava accesa per la prima volta l’illuminazione elettrica del grande ponte di Hong Kong-Zhuhai-Macao. Un passaggio dal grande significato simbolico, tuttavia subordinato alla vera e propria inaugurazione, che dovrebbe giungere entro i primi mesi del 2018. Presente per l’occasione, assieme a diverse altre Tv nazionali, era il canale China Global Television Network (CGTN) uno dei pochi occhi scrutatori realmente aggiornati con il permesso di pubblicare online gli eventi relativi al Paese di Mezzo (中國 oppure 中国) del gran Dragone cinese. Per dare luogo all’intervista in lingua inglese di cui potete osservare un breve spezzone nel video di apertura, ma il cui svolgimento completo è stato caricato a questo indirizzo, nel corso della quale Yu Lie, vice-direttore del monumentale progetto ingegneristico, ha elencato e spiegato ampiamente le impressionanti cifre fin qui coinvolte. A partire da quelle relative al materiale principale, l’acciaio, di cui sono state impiegate 420.000 tonnellate, ovvero l’equivalente di 60 Torri Eiffel, per passare poi al cemento. 23 sezioni di 80 metri ciascuna, accuratamente depositate presso il fondale del Fiume delle Perle attraverso un periodo di circa 4 anni. Già, perché questa è forse la faccenda in ultima analisi più affascinante: trovandosi ad attraversare uno dei più importanti punti d’ingresso per le navi porta-container in Cina, se il ponte in questione avesse avuto una sezione sollevabile, si sarebbero formate letteralmente delle code come al casello dell’autostrada. Ragione per cui è stato scelto di perseguire una soluzione inimmaginabile fino ad un paio di generazioni a questa parte: far passare una parte del “ponte” sott’acqua, con un tunnel sotto la baia lungo 6,7 Km.

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Pensionato cinese costruisce in 20 anni il castello della Creazione

È stato affermato, da generazione di filosofi, studiosi e scienziati, che i Tre Esseri Pellucidi (ovvero semi-trasparenti) della somma Trinità taoista siano del tutto privi di forma, e quindi impossibili da identificare. Ma nessun tabù, attraverso la storia della Cina, è mai stato emanato in merito alla creazione di un loro ritratto. Yuanshi, l’Immortale di Giada; Lingbao, l’Universalmente Onorato tra tutte le divinità e i tesori; Daode, Somma Purezza, personificazione trascendente del più saggio tra gli umani (Laozi): secondo la reiterata opinione degli antichi popoli, tre distinti uomini di mezza età, di cui soltanto il terzo sufficientemente anziano da possedere quel segno di suprema sapienza, una lunga barba bianca appuntita nello stile di Gandalf o mago Merlino. Ma nel corso delle generazioni, a seconda delle necessità delle alterne dinastie, essi hanno acquisito molti altri aspetti: quelli di guerrieri, imperatori celesti, condottieri dei popoli e sommi amministratori. O per Song Peilun, il visionario possessore di un ampio appezzamento di terra nella verdeggiante valle di Yelang, nella regione meridionale cinese di Guizhou, gigantesche teste di pietra, con lo sguardo fisso verso l’orizzonte. Che cosa staranno scrutando, i loro occhi granitici, sostenuti da vertiginose cataste di blocchi tenuti assieme dal solido cemento? E che dire degli altri infiniti Dei e Spiriti eretti per fargli compagnia…. Sarebbe in effetti scusato, il visitatore esterno di questi luoghi, se dovesse credere momentaneamente di essere stato trasportato in un altro regno o paese, tra i ponderosi resti di un’antica civiltà costruttrice di monumenti di tipo religioso, vedi i Maya, gli Incas o il popolo degli Khmer. Ma non c’è niente di realmente antico, negli straordinari bastioni ornati da statue di questo castello, costruito dalle maestranze locali sotto la guida, non sempre così stringente, di questo personaggio decisamente fuori dal comune. Eppure nessuno potrebbe affermare che manchi di quella preziosa scintilla, un remoto grado di autenticità.
Si racconta che l’origine dell’idea sia venuta, a costui, durante un viaggio negli Stati Uniti effettuato in giovinezza, durante il quale ebbe l’occasione di vedere coi propri occhi la statua incompleta di Cavallo Pazzo nel Sud Dakota, il progetto iniziato negli anni ’40 dallo scultore Korczak Ziolkowski per emulare i quattro volti presidenziali del celebre e non troppo distante Monte Rushmore. Un monumento tanto affascinante, ai suoi occhi, da portarlo a chiedersi se non fosse possibile onorare in maniera simile le antiche etnie del suo distante paese. E in particolare il popolo spesso bistrattato dei Tujia, dal quale aveva sempre ritenuto discendere se stesso e il resto della sua famiglia, originaria della Cina centro-meridionale. Fu così che, esattamente al culmine di una lunga carriera di docente universitario e designer, decise di andare in pensione, abbandonando per sempre quella vita urbana che aveva sempre trovato scomoda e inadatta a lui, per andare a vivere tra le montagne come fatto dai suoi antenati e mitici ispiratori: quegli eremiti taoisti totalmente slegati dal concetto di razionalità, che danzando sulla cima dei picchi montani, elaboravano a giorni alterni le più supreme ed eterne verità. E tutto questo, attraverso il tramite di una dottrina, o per meglio dire una religione, ormai relegata in molti luoghi ai libri di storia e le antologie folkloristiche compilate dagli studiosi: il culto del Nuoismo, spesso associato all’esorcismo degli spiriti malvagi che infestano questo mondo. Secondo cui, all’origine di ogni umano su questo pianeta, esistevano due capostipiti, Nuogong e Nuopo (Lord e lady Nuoh) prima che incolpati ingiustamente dall’Imperatore del Cosmo di una immaginaria trasgressione, venissero decapitati, sacrificandosi per permettere alla loro discendenza di sopravvivere e prosperare. Discendenza tra cui figuravano i già citati Tre Esseri, ma anche gli dei patroni del Cielo (Fuxi, il primo cacciatore ed addomesticatore di animali) della Terra (Nuwa, la donna serpente della creazione) e dell’umanità (Shennong, inventore della medicina) per non parlare delle cinque Direzioni Cardinali, associate ad altrettanti colori, e il Dio che Risiede sul Trono, ovvero di volta in volta, la somma figura politica del territorio cinese. E costoro figurano tutti, in una forma o nell’altra, tra gli altri bastioni di questo tentacolare edificio, il misterioso castello nella valle di Song Peilun…

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