Il vecchio sport statunitense del tuffo equestre dal trampolino sopraelevato

Una mano sulla tesa del cappello, l’altra sollevata per accarezzarsi i baffi a punta: “Non sbattete le ciglia, signori e signore, osservate attentamente quello che sta per succedere di fronte ai vostri increduli occhi. La coraggiosa ragazza che è appena salita in cima a quella rampa e relativa piattaforma, 15 metri sopra la piscina, si sta ora concentrando per riuscire a dimostrare la sua ineccepibile capacità d’atleta. E non soltanto questo: nel momento in cui l’amico cavallo, percorrendo a gran velocità gli stessi scalini, le passerà al di sotto verso il baratro antistante, ella balzerà sulla sfuggente sella, per seguirlo nell’abisso antistante. Quale sprezzo del pericolo! Quanta precisione e abilità nei movimenti! Un singolo attimo di distrazione ed entrambi potrebbero pagarne le conseguenze… Ma non preoccupatevi, IO vi assicuro che col vostro aiuto, potranno riuscirci. Fate un applauso al dinamico duo, signori e signore!” Gli occhi semi-chiusi come quando si apprestava a fare centro sui bersagli utilizzati nella prima parte dello show, l’uomo si voltò a quel punto via dal pubblico. Per osservare attentamente le operazioni.
Una delle figure più influenti nell’intrattenimento americano all’inizio del Novecento sarebbe stata quella dell’eroe di frontiera ritornato alla civiltà, esperto narratore di quel tipo di peripezie, avventure e tribolazioni che avevano permesso all’uomo caucasico, nell’idea tipicamente associata all’era precedente, di rendere il proprio destino “manifesto”. Riuscendo a scavalcare ostacoli, creature selvagge o intere popolazioni dei nativi tra le valli fluviali e le vaste pianure del Nuovo Mondo, fino alla costituzione in essere di ciò che sarebbe infine diventato il Far West. Ma per quanto fosse possibile continuare a salire, verso l’antonomasia di alcuni dei peggiori trionfi della civiltà europea, pare che talvolta fosse necessario fare un balzo di ritorno verso i luoghi meno elevati delle circostanze, così come fatto in un particolare aneddoto da William Frank “Doc” Carver, l’ex-esploratore, ex-cacciatore di bisonti, ex-pistolero, ex-dentista (o qualcosa di simile) che raccontava di esser nato attorno al 1840, poco prima che gli indiani d’America attaccassero la sua famiglia per poi tirarlo su autonomamente, insegnandogli tutto quello che sapevano in merito ai cavalli e una miriade di altri simili argomenti. Conoscenza destinata a ritornargli utile, così amava ripetere, quando nel 1881 l’alto ponte sopra il Platte River, in Nebraska, crollò sotto il peso congiunto della sua cavalcatura mentre stava fuggendo da alcuni banditi. Dimostrando la capacità di mettersi con gli zoccoli in avanti, la testa in posizione idrodinamica, la coda eretta per direzionare e fendere il vento. Fino all’impatto sorprendentemente dolce dentro l’acqua sottostante, per poi giungere fino alla riva e condurlo verso l’auspicata salvezza finale. Questa, almeno, è la storia ufficiale, di come avrebbe acquisito l’idea destinato a renderlo straordinariamente ricco e famoso. Che potrebbe anche essere vera, benché tenda a conformarsi nelle tipiche narrazioni di quella notevole categoria di showmen, incluso il celeberrimo Buffalo Bill con cui aveva anche lavorato, prima di decidere qualche anno dopo di mettersi in proprio. Occasione a seguito della quale, in alcune versioni della vicenda, i due sarebbero diventati acerrimi rivali per il resto delle rispettive carriere…

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La vera e assurda storia della sola balenottera impagliata nella storia dell’uomo

Mostri marini, terribili giganti, famelici leviatani. La cognizione posseduta in epoche pregresse, della più grande creatura mai vissuta sul pianeta Terra, corrispondeva paradossalmente a un essere venuto dallo stesso ingegno divino di ogni altra creatura, ma in qualche maniera maledetto e per questo, in necessaria contrapposizione ostile nei confronti della civiltà parlante. Non c’è perciò molto da meravigliarsi, per l’istintiva e comprensibile reazione del pescatore svedese Olof Larsson, quando nell’ottobre del 1865 scorse oltre la linea della costa una strana forma lungo la costa di Askimsviken, nel distretto di Naset a sud-ovest della città di Goteborg. Qualcosa d’inizialmente scambiato per un relitto navale, finché avvicinandosi timidamente, non fu possibile scorgere il riflesso di un bulbo oculare, chiaramente appartenente ad un’esemplare morente del “grande pesce” citato dalla Bibbia, dal quale si salvò il profeta Giona per la sola grazia divina, meritata grazie all’uso di un sincero pentimento e imprescindibile fiducia nei confronti della Provvidenza. Ma poiché come affermava il detto, “Aiutati che Dio t’aiuta” l’esperto lupo di mare non tardò nel prendere una decisione che molti dei suoi contemporanei avrebbero condiviso, precipitandosi a casa di suo cognato Carl Hansson, per poi tornare sulla scena dell’incombente delitto armato di coltelli, asce ed altri simili implementi d’uccisione. Qualsiasi epilogo si fosse palesato in quel drammatico giorno, una cosa era chiara: l’inconcepibile bestia bloccata sulle secche del bagnasciuga doveva pagare per i propri peccati. Ma prima, essi presero le dovute precauzioni: salendo a bordo della barca più imponente che possedevano (“per non essere divorati dal bestione”) optarono per attaccarne gli occhi, che procedettero a infilzare con le proprie lame, mentre fiumi di sangue iniziavano a riversarsi nell’acqua salmastra svedese. Quindi lo spietato Hansson, dimentico di qualsivoglia prudenza, balzò sulla groppa dell’animale ed inizio a percuoterne il dorso con una pesante lama da boscaiolo, soltanto per scoprire la malcapitata resilienza della vittima di una tale enfatica e reiterata crudeltà. Così la balena sofferente, sussultando e lamentandosi, non poté far altro che attendere impaziente la sua intempestiva dipartita. Avendo ormai compreso la difficoltà dell’operazione che si erano prefissati, verso il primo pomeriggio i due pescatori convennero di aver fatto tutto il possibile, aggiornando l’operazione alla mattina successiva. Quando di buon ora, fecero il proprio ritorno armati di uno strumento assai più risolutivo: una lunga falce, che l’intraprendente cognato impiegò nuovamente al fine di squarciare il ventre dell’animale. Il quale nel giro di poche ore, a questo punto, morì dissanguato. Nel frattempo, tuttavia, la storia degli eventi aveva raggiunto i confini cittadini, ed al di là di essi la figura del quarantaquattrenne August Wilhelm Malm, professore di biologia e da 17 anni curatore del Museo di Storia Naturale di Goteborg, da tempo in cerca di un ausilio in grado di permettere l’iscrizione del suo nome negli elenchi dei grandi studiosi della natura. Che comprese immediatamente di averlo trovato, quando precipitandosi presso il luogo dove si era spento il gigante marino, scoprì la sua appartenenza non alla famiglia dei capodogli, come aveva inizialmente immaginato, bensì membro inconfutabile della genìa delle balenottere azzurre, un tipo di animale largamente sconosciuto al mondo accademico per l’assenza di esemplari da sottoporre a studi o documentazioni approfondite. In breve tempo dunque, avendo già deciso di acquisirne ad ogni costo la carcassa per cambiare il paradigma vigente, Malm ottenne dal magnate locale James Dickson il finanziamento dei 1.500 riksdaler chiesti dai due intrepidi pescatori, ottenendo l’opportunità di fare del gigante qualsiasi cosa avesse mai desiderato a beneficio della propria carriera. Il che determinò in lui l’innovativo progetto di preservare, nel miglior modo possibile, non parti o singoli elementi ed organi, bensì “l’intera balena” anche a costo di mettere in campo strumenti e soluzioni logistiche del tutto innovative. Ebbe inizio, in questa maniera, uno dei corollari maggiormente surreali e inaspettati nella storia delle scienze oceanografiche europee…

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Per chi ha versato le sue lacrime la fontana più drammatica della Grande Mela

Nell’occasione del suo primo anniversario, nonché data della rimozione dal contesto pubblico in cui era stata posizionata, una delle poche opere monumentali dell’artista danese Nina Beier ci offre nuovamente l’occasione di riflettere sul significato effimero dell’interpretazione delle immagini, il loro contenuto più profondo e l’inalienabile logica della figura umana. “Donne” afferma il titolo di tale gesto “…e bambini” facendolo nella maniera tipica, in lingua inglese, della chiamata da parte dell’equipaggio durante un naufragio, al fine d’evacuare anticipatamente le persone considerate maggiormente vulnerabili dal ponte condannato della nave. Laddove nel caso specifico, nessun cassero, castello o ciminiera circondavano le nove figure bronzee piangenti e in vari stati di conservazione scelte dall’artista, esperta collezionista d’oggetti dimenticati, bensì le ordinate aiuole ed i sentieri sopraelevati dello High Line, il parco newyorchese designato sopra la struttura del vecchio binario ferroviario urbano, abbandonato a partire dagli anni ’80. Un luogo utile a distrarsi o fare una piacevole passeggiata, in aggiunta a prendere visione di talune collaborazioni artistiche, tra la città più popolosa degli Stati Uniti ed alcuni degli artisti più stimati a livello internazionale. Creando giustapposizioni singolari, come quella del momento di profonda introspezione interpretativa potenzialmente derivante dalla presa di coscienza di una tale composizione: convincenti raffigurazioni di possibili persone, in piedi, sedute e sdraiate, reciprocamente poste in modo da non guardarsi negli occhi o in alcun modo in grado di offrirsi conforto. Mentre l’acqua scrosciante, in diciotto zampilli senza posa, scorre impetuosa dalle piccole aperture poste in corrispondenza dei loro occhi, a suggerire uno stato d’animo d’assoluta e inalienabile sofferenza interiore. Una profonda e sintetica disquisizione, se vogliamo, in merito al ruolo dei sentimenti che si fanno monadi senza un chiaro termine né cessazione evidente, per sempre cristallizzati all’interno del nostro carattere o sistema di valori interpretativi dell’evidenza. Nonché un discorso, per chi è incline a prestargli orecchio, in merito al ruolo di queste figure collaterali della storia dell’arte scultorea, le Women & Children (per l’appunto) eternamente ritratte privi di abiti o alcun ruolo professionale, a tentar d’essere soltanto un mero e improduttivo studio della figura umana. Così come molte altre opere di quest’artista di fama internazionale, dimostratasi capace di partire dalla forma fisica di una singola categoria d’oggetti per stravolgerne il significato, trasformarlo tramite connotazioni sintattiche derivanti dal trascorrere delle ore infinite. Mentre l’acqua, imperturbabile, continuerà a dirigersi verso l’unica direzione possibile continuando a lambire i piedi senza scarpe della sapienza…

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Il primo pittore computerizzato nella storia e il suo alter ego umano

Immaginate uno scenario in cui un androide pensante dall’elevato grado di perizia si trovasse ad effettuare un compito materialmente rilevante, come assemblare i componenti di un macchinario complesso all’interno di una fabbrica del prossimo futuro. E i critici di tale circostanze, guardandolo con diffidenza, raggiungessero il consenso che: “Il robot sta eseguendo il programma di cui è stato insignito senza nessun tipo di sentimento. Esso finge soltanto di essere un membro produttivo della società. Per questo, il suo contributo non ha valore.” Eppure forse, al termine del turno di lavoro, la flangia dal profilo convesso, l’albero a camme, la biella contro-ritorta non sono forse confluite per dar forma all’oggetto desiderato? E tale apparecchio non verrà impiegato, a sua volta, per svolgere mansioni utili alla collettività civilizzata? Ogni dubbio, ogni resistenza all’importanza che individui-macchina dalla capacità di elaborare i dati e agire di conseguenza, nasce dall’idea tutt’ora pervasiva che i la mente sia un qualcosa d’irriproducibile e in qualche maniera sacro. Che il gesto di un essere umano abbia un valore inerente, simile a quello del demiurgo, originale artefice dell’Universo. E se pure l’evidenza ci ha ormai fornito prove incontrovertibili che i computer possono occuparsi di mansioni creative, esibendo capacità assolutamente degne di nota e persino superiori alle capacità dei loro programmatori, l’arte resta relegata ad un contesto psichico in qualche maniera differente. Quasi come se la sua mancanza d’utilità per così dire “pratica” potesse esimerci in qualche maniera dall’accettare il contributo di secondo grado, derivante da coloro che hanno programmato gli strumenti perfettamente in grado di crearla in autonomia. E sarebbe perfettamente lecito, a seguito di questa presa di coscienza, pensare che la dolorosa accettazione possa giungere anche a diverse decadi da questi giorni, quando semplicemente non sarà possibile evitare di accettarne le conseguenze. Tranne per il dettaglio, difficile da trascurare, che l’intento di mettere la macchina di fronte a una tela può esser fatto risalire a prima dell’invenzione dei microprocessori, quando nel 1968 il pittore inglese Harold Cohen (1928-2016) già pluri-premiato partecipante alla Viennale di Venezia, decise di accantonare tutto quello che aveva ottenuto fino a quel momento e ricominciare da capo. Causa la visita per una lezione presso l’Università della California, a San Diego, dove aveva conosciuto il musicista e programmatore Jeff Raskin, che lo introdusse ai misteri e meraviglie dei cervelli meccatronici grandi quanto un’intera saletta di studio. Computer inflessibili e di complicato utilizzo, il cui principale metodo d’inserimento dati erano ancora le schede perforate, ma che esattamente come oggi potevano già essere connessi ad arti o corpi robotici, per trasferire i risultati dei propri calcoli nella forma maggiormente desiderata. Da qui l’idea, per la prima volta messa in pratica proprio presso il campus della UCSD dove aveva chiesto ed ottenuto di potersi stabilire temporaneamente, di dare una forma numerica a determinati criteri estetici. Gli stessi utilizzati, per l’appunto, dai bambini al fine di tracciare un’immagine all’interno di un foglio: “Crea una linea, racchiudi un punto. Riempi un vuoto.” Il primo limitato tentativo, di spostare il campo d’analisi all’interno di un territorio letteralmente inesplorato. All’interno del quale un qualcosa che era al tempo stesso niente più che un pennello, ma anche molto più di questo, poteva prendere l’iniziativa e generare conseguenze letteralmente inaspettate dal suo creatore. Perciò fu assai difficile negare che, per quanto si trattasse soltanto di un piccolo spiraglio di un portale molto più vasto, nulla avrebbe potuto più essere lo stesso…

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