Il mistero dell’idrovolante più famoso nella storia dell’animazione giapponese

Da qualunque lato la si osservi si tratta di una storia semplice, quasi una fiaba per bambini. C’è un eroe creato dalle circostanze, con un difficile passato. C’è l’amore di una donna, lasciato in bilico fino all’ultima scena. C’è il rivale ma nessun “cattivo”, fatta eccezione in senso lato per l’ideologia dei tempi, destinata ad essere resa obsoleta dalla storia. Ciò che rende, invece, memorabile il lungometraggio Porco Rosso, tra le opere di uno Studio Ghibli/Hayao Miyazaki all’apice del loro fulgore internazionale (1992) è l’attenzione infusa nei dettagli maggiormente minuziosi di un’ambientazione tanto inusuale, specie nel suo ambiente mediatico d’appartenenza: il Mar Adriatico e le sue isole verso la fine degli anni ’20, quando la grande depressione stava per incombere sopra testa di un’economia portata fino al limite più estremo di sopportazione. Eppure per quanto i numerosi riferimenti alla storia dell’aviazione di quei tempi, in aggiunta alla resa sempre ineccepibile di ambienti e costumi appaiano garantiti dal consueto impianto di ricerca straordinariamente approfondito, appare certamente lecito interrogarsi in merito a cosa, esattamente, stesse pilotando nel film l’aviatore protagonista Marco Pagot, i cui lineamenti appaiono, in maniera programmatica, del tutto indistinguibili da quelli di un suino antropomorfizzato (in un esempio antologico dello stile d’illustrazione giapponese che prende il nome di kemono – ケモノ, bestialità). Velivolo che sembrerebbe possedere, nei fatti, il nome ed il cognome di un idrovolante realmente esistito, il Savoia S.21, benché ciò costituisca già nei fatti, una (probabilmente) voluta inesattezza: l’azienda recante il nome della casa reale d’Italia, che avrebbe continuato a utilizzare tale stile di nomenclatura ancora per parecchi anni, aveva infatti all’epoca di quel modello (1921) ancora il nome di SIAI (Società Idrovolanti Alta Italia). E tutto questo non è ancora nulla, quando ci si approccia effettivamente a una ricerca tecnologica sull’apparecchio: l’S-21 era infatti, contrariamente all’aereo pilotato dal maiale titolare, un biplano. E benché fosse a quanto pare dipinto di rosso esattamente come nell’opera d’ingegno giapponese, una caratteristica difficilmente apprezzabile nelle fotografie in bianco e nero coéve, le ulteriori somiglianze sembrerebbero fermarsi al posizionamento insolito del motore, tipico in quegli anni, nella configurazione cosiddetta “a castello” ovvero in alto sopra la carlinga, con una serie di supporti verticali paragonabili all’impianto di un’esposizione museale. Per trovare quindi l’effettivo ispiratore del maestro dei disegni animati occorre ripercorrere una la storia di una celebre serie di competizioni, e i leggendari piloti che furono in grado di parteciparvi, che erano iniziate nel 1913 presso il Principato di Monaco, grazie al finanziamento e l’entusiasmo del magnate della finanza francese Jacques Schneider. Il cui trofeo, simboleggiato da una coppa recante la scultura in stile Liberty di una serie di spiriti del vento e delle acque incluso il dio Nettuno, si sarebbe accompagnato per i successivi 18 anni al premio cospicuo di 1.000 sterline, per l’azienda che si fosse dimostrata la migliore nel superare un’ardua serie di prove tecnologiche. Inerentemente capaci di dimostrare un qualcosa di cui quest’uomo era convinto: che il futuro dell’aviazione avrebbe tratto giovamento, senz’alcun dubbio, dai vasti mari e gli altri specchi d’acqua di questa Terra. Perché la natura ci aveva donato la miglior pista di atterraggio e decollo immaginabile, e sarebbe stato semplicemente una sciocchezza, mancare di utilizzarla…

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L’imponente antesignano dell’unione tra elicottero e aeroplano

Non è affatto raro che in campo aeronautico, la forma del velivolo racconti una parte significativa della storia: così come nei processi evolutivi, lo sviluppo di particolari caratteristiche fisiche permette agli uccelli di rispondere a esigenze necessarie per la loro stessa sopravvivenza, il prodotto volante dell’ingegno tecnico umano incorpora nei suoi fattori esteriori parametri determinati dal suo ruolo programmatico, le tecniche d’impiego e l’inclinazione operativa del pilota. Non potevano certo esserci dubbi, dunque, nel remoto 1964, sulle ragioni che avevano portato alla progettazione, costruzione e infine messa in opera del surreale Ling-Temco-Vought (LTV) XC-142, frutto almeno in parte delle stesse figure professionali che avevano realizzato, a partire dalla metà della seconda guerra mondiale, la particolarmente riuscita linea di caccia con decollo da portaerei F4U Corsair. Capaci d’infondere, nel loro progetto militare, una significativa dose di quel lampo di genio, altrimenti definito sacro lume della follia. Messo per la prima volta alla prova presso l’Edwards Air Force Base californiana poco a settentrione della città di Los Angeles, e una volta che l’enorme polverone sollevato dai suoi quattro possenti rotori fu disperso dal vento, ciò che i vertici delle alte sfere erano stati chiamati a supervisionare si rivelò in tutta la sua surreale magnificenza: quella di un grande aereo cargo (poco più di 10 tonnellate) le cui ali erano state montate, per qualche incomprensibile ragione, in senso perpendicolare al suolo. Assurdo, nevvero? Come un pesce con le zampe. Come un serpente piumato. Eppur con significativo rombo dei motori, l’oggetto non identificato prese quindi a sollevarsi, con totale sprezzo ed apparente sdegno nei confronti della gravità. Per variare quindi in volo il proprio assetto, alla maniera di un’antenna satellitare che tenta di agganciare il segnale. Cosa sono, d’altra parte, orizzontale e verticale? Nient’altro che definizioni soggettive dei diversi aspetti di un qualcosa, definito dal bisogno di rispondere ai presupposti fondamentali dell’Impresa. E ciò che questi uomini stavano vedendo, in quel fatidico 11 gennaio chiaramente registrato negli annali, fu sostanzialmente la realizzazione più sofisticata di un aeromobile con ali basculanti. Sostanziale versione, portata fino alle più estreme conseguenze, dell’originale concetto di un convertiplano capace di riorientare i propri motori ed eliche, eccetto per il fatto che stavolta, sarebbe stata l’intera ala a ruotare. Un’idea dotata da parecchi significativi vantaggi, tutti di natura aerodinamica, capaci di controbilanciare la maggior complessità e costo unitario dell’aeromobile; primo tra tutti, la capacità di rimanere stabile nell’aria come un elicottero e spostarsi in avanti alla velocità di un aereo passando attraverso tutte le fasi intermedie, anche da fermo. Laddove le sue alternative popolari fino a quel momento richiedevano il raggiungimento di una velocità sufficientemente elevata, prima di poter effettuare la transizione a tal fine. Il che in effetti bastò a renderlo profondamente diverso, dal suo ideale successore il Bell Boeing V-22 Osprey (Falco Pescatore) oggi attivamente utilizzato dalle Forze Armate Americane per rispondere a speciali esigenze di trasporto.
Non c’è molto da stupirsi, dunque, se a differenza di quest’ultimo, l’affascinante sogno pindarico di quegli anni sarebbe stato destinato a fallire, nonostante le ottime caratteristiche d’impiego dimostrate dai suoi cinque prototipi costruiti in quegli anni: forse, semplicemente, il mondo non era ancora pronto per lui…

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Il treno sui trampoli che superò i confini del mare

Risultano ancora visibili mentre si passa sulla Strada Costiera verso Rottingdean, nel distretto di Brighton & Howe, poco oltre i confini del bagnasciuga segnato dall’alta marea: una coppia di lunghe piste, come cicatrici incancellabili del paesaggio, punteggiate dall’occasionale blocco quadrangolare di cemento. E sarebbe certamente difficile, al giorno d’oggi, trovar qualcuno che abbia memoria diretta del loro impiego all’inizio del secolo scorso. 1896-1901 è il periodo. Durante il quale un oggetto non propriamente facile da identificare, sorgendo maestoso tra i flutti di Nettuno, spingeva il suo unico vagone dalle dimensioni piuttosto significative verso la meta all’altro capo del promontorio costiero, per poi tornare indietro lungo lo stesso identico tragitto, trasportando un carico d’ulteriori 30 passeggeri. “Ferrovia Elettrica Costiera” o Pioneer era il suo nome ufficiale, volendo riferirsi al veicolo solamente, benché vigesse l’abitudine collettiva di definirlo per antonomasia “Papà Gambalunga”. Un probabile riferimento al ragno dal corpo piccolo e le zampe sovradimensionate (fam. Pholcidae) largamente diffuso nell’intero territorio inglese. Questo perché, diversamente da qualsivoglia tipo d’imbarcazione, il surreale veicolo fuoriuscito direttamente da un romanzo di retro-futurismo speculativo restava perennemente a contatto con il fondale, mediante quattro affusolate colonne tubolari all’interno delle quali trovavano posto ben due alberi di trasmissione, capaci di connettere un singolo motore elettrico ad altrettante ruote motrici non del tutto dissimili da quelle di una qualsivoglia locomotiva. Barca? Treno? Difficile capirlo; per quello che era all’epoca, e sostanzialmente sarebbe ancora, un esempio totalmente privo di precedenti di trasporto tecnologico umano, frutto tangibile di quel periodo verso la fine dell’epoca Vittoriana in cui l’ingegneria britannica sembrò aver raggiunto il punto di gran lunga più elevato della sua storia pregressa, lanciandosi conseguentemente verso territori pindarici che mai nessuno, prima d’allora, avrebbe mai tentato di concepire all’interno della propria mente. Spazio virtuale utile a perseguire vie di rinnovamento, come quello nel cranio pensante di Magnus Volk (1851–1937) inventore talvolta definito l’Alessandro Volta o il Nikola Tesla dell’East Sussex, responsabile, tra le altre, cose della prima casa alimentata elettricamente della sua città oltre alla popolare, nonché redditizia, ferrovia elettrica di Brighton & Hove. Una soluzione di trasporto relativamente convenzionale e che tale sarebbe rimasta, almeno finché maturando l’intenzione di estendere i propri interessi commerciali fino a Rottingdean, il fondatore e amministratore unico non si sarebbe trovato a fare i conti con le difficoltà di un paesaggio poco collaborativo. Dovendo trovare un sistema, economicamente proficuo, per superare l’alta collina sul tragitto da compiere mediante l’impiego dei motori elettrici non particolarmente potenti dell’epoca, possibilmente scavando una costosa, profonda galleria, oppur passando coi suoi binari a ridosso di un pericoloso baratro sopra i flutti del Canale. Al che, giunse il principio della notevole idea: perché non passarvi, piuttosto, attraverso? Come una torre magica di stregoni, capace d’avanzare indefessa tra le nebbie del tempo. Come un antico dinosauro, trasformatosi in criptide avvistato nel mezzo del lago scozzese. Veicolo concepito per svolgere un compito e soltanto quello, per cui l’avrebbe svolto (si spera) eccezionalmente bene…

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L’implacabile potenza del motore alto quanto un palazzo di quattro piani

Tra le diverse teorie relative all’estinzione dei dinosauri, una delle più accreditate attribuisce parte significativa dell’evento a una variazione della composizione atmosferica del nostro pianeta. Il che significa che col trascorrere degli Eoni, il progressivo aumento della quantità di esseri animali sulla Terra senza che avvenisse lo stesso in ambito vegetale avrebbe portato gradualmente a una rarefazione dell’ossigeno fino a uno stato paragonabile a quello attuale. Condizione del tutto insufficiente, nella semplice realtà dei fatti, a rispondere alle necessità respiratorie di una creatura (non acquatica) dalle dimensioni superiori a quelle di un elefante. La situazione immediatamente cambia quando d’altra parte, l’immissione della quantità d’aria avviene tramite l’apporto di un diverso approccio, quello indotto dagli umani grazie all’utilizzo della tecnica finalizzata alla risoluzione di un bisogno: trasportare cose, Altrove. Così che al trascorrere del tempo, invece che diventare più piccole, le cose tendono a ingrandirsi in funzione dei mutamenti delle condizioni vigenti, come l’aumento di efficienza, affidabilità e la divisione dei compiti necessaria a poter fare a meno dello standard Panamax, necessario per poter attraversare le strette condotte del più strategico canale mai costruito dall’uomo. Prima figlia per lo meno in termini di preminenza, di quest’era senza Panama risulta esser stata, d’altra parte, proprio quella Emma Mærsk da 397 metri col nome della moglie del magnate a capo dell’azienda relativa, varata nel 2006 e sospinta innanzi, verso nuove vette del trasporto dei container, grazie ad uno dei traguardi più avanzati mai raggiunti dalla meccanica dei trasporti: il Wärtsilä 14RT-flex96C a due tempi spesso soprannominato, in particolari ambienti del vasto Web, “motore più grande e più potente al mondo”. I cui numeri, banalmente posti l’uno di seguito all’altro, risultano abbastanza da far girare la testa a chicchessia: altezza 14 metri, lunghezza 27 (con disposizione lineare dei cilindri) peso 2.300 tonnellate, 300 delle quali per il solo albero motore. Cilindrata complessiva di 25.000 litri e una potenza di 109.000 cavalli, ovvero l’equivalente di 73 Bugatti Chiron. Il tutto alimentato da un consumo orario di 6.280 litri di carburante diesel l’ora, in realtà molto inferiore a quanto si potrebbe pensare, grazie all’eccezionale efficienza termica del 50% circa, nei fatti fino a tre volte superiore a quella di un moderno motore automobilistico o ferroviario. Questo perché il suo funzionamento, nei fatti, avviene al ritmo notevolmente inferiore di appena un centinaio di giri al minuto, rispecchiando nei fatti l’ideale di quelle creature colossali, risalenti ad altre epoche o momenti del continuum, le cui movenze dovevano necessariamente rispondere alla legge del cubo quadrato; il che significa, nell’esempio da noi utilizzato, che il volume dei muscoli non può crescere alla stessa rapidità del resto del corpo, benché ciò sembri applicarsi in modo meno pregno al campo dei motori. I quali includono, per semplice necessità inerente, i grandi spazi vuoti dei cilindri, permettendo nei fatti ad un qualcosa di veder la sua potenza incrementata in modo esponenziale, mentre non aumentano di pari passo, il peso e le dimensioni. Fino all’ottenimento di un qualcosa di talmente ineccepibile, così impressionante, che nemmeno la natura avrebbe mai potuto pensare di arrivare a conclusioni in qualche modo paragonabili o equivalenti…

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