Fango e furia tailandese, nell’aspra corsa motoristica dei buoi di ferro

È perfettamente comprensibile, nel tentativo di nobilitare o rendere più interessante ogni particolare attività del mondo, tentare per quanto possibile di trasformarla in competizione. Ciò è conseguenza imprescindibile del fremito, l’ebbrezza, il bisogno umano di mostrarsi abili nel compiere i più semplici e ripetitivi gesti. Trovare l’orgoglio nella mondanità, costruire proprio trionfo mediante l’utilizzo di mattoni grigi e normalmente, privi di caratteristiche degne di nota. Ma prendi un gruppo di persone sufficientemente giovani, e/o abbastanza cariche d’entusiasmo, mettile all’interno di quella che possa definirsi un’arena, e vedrai trasformato un pomeriggio come tutti gli altri in un momento di catartico conflitto, magnifico confronto tra visioni simili, ma in qualche modo contrastanti dell’universo. Così un tempo era piuttosto frequente, nell’ambiente maggiormente bucolico del regno del Siam, che coloro che dovevano ogni giorno dedicarsi alla risaia organizzassero la gara tra i più essenziali assistenti animali del proprio consorzio; cornuti, pelosi esseri coperti di fango, Bubalus bubalis, i bufali d’acqua, altrettanto abili nel tirare un’aratro, quanto disposti a sopportare il gesto d’essere cavalcati fino ad una linea del traguardo arbitrariamente tracciata. Ma i tempi cambiano, naturalmente, e tutto ciò che si era soliti trovare attribuito ad un particolare stile di vita, segue quel percorso che lo porta a mutare, cambiare nei suoi elementi di base, fino a diventare un qualcosa di radicalmente diverso e…
CB Media, anche detto più semplicemente Chad, è il Vlogger motoristico originario di Atlanta negli Stati Uniti, che dalle corse autogestite tra le auto pesantemente modificate del suo paese ha spostato in tempi recenti la sua attenzione all’Estremo Oriente. Ed in particolare a quella che potremmo definire la patria asiatica di ogni folle o perversa competizione fuori dai restrittivi confini di uno stadio o pista controllata, che al giorno d’oggi siamo soliti identificare con il nome di Thailandia. Un paese in cui il 46% del territorio è dedicato all’agricoltura ed un buon 19,5% della popolazione si definisce coinvolta in qualche modo nelle attività professionali interconnesse ad essa, mentre le particolari tecniche d’irrigazione, semina e raccolta sono valse a farne il principale esportatore di riso sull’attuale mercato globale. Molto più di quanto si possa ottenere semplicemente con un carro tirato dai buoi ed almeno in parte attribuibile al successo di un particolare attrezzo, in uso presso molti paesi, ma che qui ha finito per assumere i multipli ruoli e le versatili applicazioni che normalmente siamo soliti associare ai coltellini di provenienza elvetica: la motozappa o coltivatore automatico. Tra cui l’utilizzo, in origine non previsto, dimostrato con un simile trasporto ed entusiasmo dal nostro esauriente Chad.
Nella terra degli uomini serpente esiste, d’altra parte, un solenne detto: “Se è dotato di un motore, è possibile modificarlo per gareggiare.” In maniera sostanzialmente analoga a quella dimostrata nel suo video, la cui scena si svolge presso un evento rurale nella zona di Kamphaeng Phet, cittadina situata 4 ore a nord di Bangkok. Dove la trasformazione dei cosiddetti “buoi d’acciaio” in mezzi competitivi, completi di ghirlande floreali e nappe colorate, prosegue con l’inclusione di un ampio pezzo di tettoia semi-rigida simile ad un paio d’ali, finalizzato ad evitare che il fango schizzi da tutte le parti ivi incluse le prese d’aria del motore stesso, impedendone un funzionamento idoneo fino al completamento della gara. Questo perché, dettaglio assolutamente non trascurabile, la suddetta competizione si svolge in effetti non su strade asfaltate, sentieri in terra battuta o simili agi e confort dell’ideale processo logistico dell’agricoltore; bensì proprio nell’ambiente naturale di questi veicoli, chiaramente: le soffici profondità terrose della risaia. Ecco perché si consiglia, agli spettatori, di mantenere una ragionevole distanza di sicurezza dallo show. Pena l’impressione conclusiva di essere stati trascinati giù dal mostro della Laguna Nera…

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Tre motori e una cicogna: storia del più strano aereo passeggeri degli anni Venti

Nella storia dell’aviazione esiste un modo di dire: “Se è brutto, è inglese. Se è strano, è francese. Se è brutto e strano, è russo”. Ma poiché come la maggior parte degli aggettivi, simili giudizi non possono che apparire fondamentalmente soggettivi, forse la connotazione migliore che si può trovare a tali e tanti pregiudizi è quella d’elencare una possibile serie d’eccezioni. Casi eclatanti e tanto memorabili, splendenti Soli di un possibile avvenire; scene da possibili reami alternativi dell’esistenza. Ove ogni soluzione pratica è la diretta ed innegabile risultanza di un bisogno: far volare la cosa. Qualsiasi… Cosa, in effetti.
Era una limpida giornata autunnale in quel 26 ottobre del 1907, quando i tre fratelli Farman si riunirono sopra un colle ad Issy-les-Moulineaux, località non troppo distante da Parigi, per imitare quanto i due Wright erano riusciti a fare a Kitty Hawk: far sollevare da terra un velivolo più pesante dell’aria, spinto innanzi dall’uso di un motore. A volare sarebbe stato il più esperto di loro e pluripremiato ciclista Henri, figlio di mezzo e già utilizzatore di una serie di alianti costruiti in casa, mentre il più giovane Maurice, esperto autista in diverse competizioni a livello europeo, avrebbe fornito il supporto morale e fatto il tifo per l’ottima riuscita dell’impresa. Richard il maggiore, d’altra parte, nonostante la preparazione ingegneristica, aveva un ruolo non poi così diverso; questo perché il biplano in questione, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, era stato acquistato e successivamente migliorato a partire da un modello già completo di Gabriel Voisin, costruttore che non aveva avuto l’intenzione di mettersi a rischio in prima persona. Il suo cliente riuscì a compiere quindi tre voli, di 363, 403 e 771 metri, per poi compiere un circuito completo di 1.030 metri il 10 Novembre successivo. La strada era stata finalmente aperta e anche nel Vecchio Continente, mentre la stampa e cinegiornali cominciarono a narrare direttamente le straordinarie meraviglie di questo nuovo mezzo di trasporto: l’aeroplano. Nel corso dei mesi successivi, lavorando questa volta in famiglia, i fratelli apportarono alcuni significativi miglioramenti al progetto di Voisin, aggiungendo tra le altre cose una coppia di “tende” verticali alle estremità dell’ala superiore ed inferiore, capaci d’incrementare la stabilità di quello che ora tutti chiamavano il Voisin-Farman I, riuscendo in questo modo a vincere la competizione del marzo successivo del Grand Prix d’Aviation organizzato dal petroliere Henri Deutsch de la Meurthe, riuscendo in questo modo a conseguire un premio di 50.000 franchi. Lo stesso aereo, incredibilmente considerato il suo aspetto alquanto rudimentale, riuscì quindi a compiere una trasvolata di 2.004 Km entro la fine dello stesso mese. Entro la fine del 1908, la scienza dei volatili di metallo era ormai una disciplina largamente nota ed accettata in Francia, al punto da permettere ad Henri di aprire una scuola per piloti a Châlons-sur-Marne, nella quale un altro celebre pioniere, George Bertram Cockburn, diventò il suo primo allievo. Da lì, il passo successivo non fu eccessivamente difficile, anche vista l’epoca dai molti investitori e validi processi finanziari, per creare quella che sarebbe diventata la prima e più importante casa di produzione aeronautica francese, capace di sfornare in rapida successione quattro diversi biplani produrre in serie: il Farman III, l’MF-7 “Longhorn”, l’MF-11 “Shorthorn”, l’idroplano HF.14 ed il ricognitore militare HF.20 nel 1913. Con lo scoppio della grande guerra l’anno successivo, l’attenzione dei tre fratelli ebbe quindi modo di spostarsi chiaramente in tale ambito, dedicandosi alla creazione di una serie di velivoli di supporto e nella fase successiva del conflitto, quando ormai il campo di battaglia si era esteso in modi precedentemente inimmaginabili, anche caccia intercettori e bombardieri. Fu in questa accezione e con tale modalità d’utilizzo dunque che ebbe modo di comparire il primo e più importante successo storico dell’azienda, l’enorme Farman F.60 Goliath da 26 metri di apertura alare, capace di trasportare un carico di due tonnellate e mezzo per una distanza di 900 Km. Con una filiera di produzione completata solamente nel 1919, quando era ormai troppo tardi per fare la differenza. Così che i Farman, meditando a lungo sulla questione, elaborarono il principio di un’idea piuttosto avveniristica per il tempo: e se un simile approccio al trasporto volante, con alcuni piccoli ma significativi cambiamenti, fosse stato modificato e ottimizzato al fine di trasportare le persone?

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I soccorsi non arrivano? Cinque minuti per montare l’elicottero e decollo da me

Il problema: coraggiosi piloti d’aerei da combattimento vengono talvolta, sfortunatamente, colpiti dal nemico in territorio ostile. l molti fondi investiti nei sistemi di eiezione o la resilienza dei motori costruiti dalle compagnie statunitensi, quindi, permettono a costoro di toccare terra sani e salvi, qualche volta senza riportare nessun tipo di conseguenza alla persona. Nell’immediato. Perché a quel punto, se c’è un qualche tipo di conflitto in atto (e non può certo essere altrimenti, giusto?) ciò che tende a capitare è che truppe di terra sufficientemente astiose accorrano sul luogo del disastro. Per catturare tali uomini, portarli presso il proprio campo base, farli propri prigionieri ad libitum. Pure leggi della guerra, si potrebbe anche affermare, intese come implicazioni inevitabili per chi si arma e affronta gli avversari politici della sua nazione. Accettando, se vogliamo, il pericolo assieme alle speranze di gloria. Eppure verso il concludersi del sanguinoso conflitto coreano, con ancora nella mente ben impressi i ricordi della seconda guerra mondiale, l’aviazione statunitense elaborò un particolare processo mentale; per cui tale sconveniente piega degli eventi si era ripetuta fin troppe volte. Lasciando il posto, per chi avesse avuto l’intenzione d’imboccarla, all’invitante tracciato di una possibile strada alternativa.
L’idea: era la seconda metà degli anni ’50, dunque, quando i vertici dell’Arma stabilirono una serie di parametri, applicando i quali sarebbero stati proprio tali falchi appiedati, per la prima volta, a mettere in salvo loro stessi dal pericolo, mediante l’attuazione di un progetto alternativo. Quello per la costruzioni di particolari mezzi volanti, che potessero essere tenuti a bordo dei velivoli più grandi come letterali scialuppe di salvataggio, oppure paracadutati sul bersaglio pronti ad essere sfruttati per tentare il tutto per tutto. Qualcuno ricorderà, a tal proposito, l’argomento precedentemente trattato su queste pagine del Goodyear Inflatoplane, un letterale aereo gonfiabile conforme ad una simile ambizione, rimasto allo stato di prototipo sebbene costruito in ben 12 esemplari. Un destino simile a quello toccato, pochi anni prima, ad un diverso approccio nei confronti della stessa identica questione: quello offerto al volo ad ala rotante, grazie al contributo di uno dei maggiori pionieri di questo ramo. La Hiller Helicopters, come si chiamava in quegli anni, era la compagnia californiana fondata da Stanley Hiller, personaggio di caratura paragonabile a quella del più celebre Igor Sikorsky, altrettanto strumentale per validazione negli anni ’30 e ’40 del concetto quasi-folle di volare a bordo di un marchingegno diabolico come un’aerodina a sostentazione dinamica, vibrante ed instabile per sua stessa concezione. Con abbastanza convinzione ed attenzione ai dettagli da permettergli di vincere, entro il 1953, il concorso indetto a tal proposito, grazie all’elaborazione preventiva di quello che sarebbe diventato uno dei primi e meglio riusciti elicotteri ultraleggeri della storia: il ROE Rotorcycle, destinato ad essere soprannominato dai cinegiornali come una sorta di “bicicletta dell’aria”. Ed osservandone caratteristiche, ingombro e configurazione, non è affatto difficile comprenderne la ragione: con un peso complessivo di appena 140 Kg, il singolo sedile sovrastato dal rotore principale e quello di coda al termine di un palo in grado di raggiungere i 3,84 metri dallo schienale inclusivo d’impianto di propulsione, l’oggetto volante parzialmente identificato ricorda molto da vicino il tipico gadget sfoderato nel momento culmine da un personaggio come James Bond, con la significativa differenza di esistere davvero, ed avere per lo più uno scopo pratico definito in maniera estremamente chiara. Quello di entrare all’interno di un cilindro standard di trasporto grazie a un’ingegnosa serie di piegature e paletti di fissaggio, tali da renderlo perfetto da sfoderare e montare in tempi estremamente brevi nel giro di appena 5 minuti. O almeno, questo è quello che si pensava all’epoca della sua preventiva approvazione…

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La transitoria chimera statunitense di un idrovolante supersonico da combattimento

In principio, era il Caos: una miriade di forme ed azioni, concepite dagli inventori nella vaga speranza che potessero condurre fino al nascondiglio dell’ennesimo Santo Graal. Quello rappresentato, sui loro tavoli da disegno, dall’ottenimento del volo più pesante dell’aria, ovvero non più condizionato tempo atmosferico, zavorre o grandi sacche di gas incline a infuocarsi alla benché minima scintilla degli sgraditi eventi. Cose che battevano, viti senza fine, ombrelli che si sollevavano, code vibranti con grandi parapendii sul dorso; in altri termini, la miglior congiunzione possibile tra il mondo naturale e quello attentamente calibrato dell’ingegneria creativa. Tutti egualmente inutili, alla fine. A partire dall’impresa di Kitty Hawk nel 1903, quindi, una strada davvero percorribile sembrò risplendere della luce dell’ovvietà. Il principio dell’aeroplano si sarebbe manifestato mediante lo sfruttamento di due ali rigide, un propulsore, una serie di superfici di controllo. Linee guida in realtà piuttosto ampie, tali che il secolo successivo sarebbe risultato pieno di approcci non meno variabili ad un simile canovaccio di partenza. Che una di questi potesse essere il triangolo rappresentato dalla lettera greca Δ (delta) era già largamente compreso all’epoca, in forza dei preliminari esperimenti di J.W. Butler ed E. Edwards nel 1867, per l’ipotesi mai realizzata di un velivolo guidato innanzi dalla forza motrice di un razzo. Idea analizzata in maniera ancor più pratica nel 1909, con una proposta non meno in grado di portare a risultati tangibili del pioniere dell’aviazione J.W. Dunne. Negli anni catartici del secondo conflitto mondiale, tale soluzione sarebbe stata indagata approfonditamente dall’ingegnere tedesco Alexander Lippisch, con svariati prototipi che per sua e nostra sfortuna, non sarebbero mai riusciti ad entrare in produzione su larga scala. Questo per alcuni problemi inerenti di tale approccio, tra cui l’alto grado di attrito con l’aria generato da una superficie tanto ampia, nonché la portanza ridotta dalla necessità d’impiegare l’intero estendersi della parte posteriore come alettone di manovra. Ma la possibilità sarebbe tornata sotto i riflettori, assieme alla spontanea risoluzione di tali problemi, con l’affermarsi del motore a reazione e l’impressionante potenza raggiungibile da una tale soluzione. Finché a qualcuno non venne in mente, osservando il jet intercettore Convair F-102 Delta Dagger, che una simile forma avrebbe potuto altrettanto facilmente riuscire a galleggiare. Offrendo uno spunto d’analisi ed introspezione militare che riusciva a manifestarsi proprio nel momento in cui avrebbe potuto fornire un vantaggio strategico significativo.
Ciò che occorre tenere a mente, per comprendere l’impostazione e composizione delle Forze Armate statunitensi dell’immediato dopoguerra, è il ruolo fondamentale occupato dalla marina nel corso della campagna del Pacifico, tale da convincere ogni personalità rilevante che l’unico modo per dominare realmente il campo di battaglia fosse costituire una letterale estensione del suolo nazionale a largo di un altro continente, da utilizzare come base di partenza operativa per le proprie manovre, assalti ed operazioni di bombardamento. Il che poneva naturalmente le portaerei al centro della questione, se non che i nuovi e più performanti aerei dotati di motori a jet, data la lunghezza della pista di decollo ed atterraggio necessaria, difficilmente avrebbero potuto adattarsi ad una simile dottrina di combattimento. A meno che… Imparassero a decollare direttamente dai flutti, così come facevano un tempo i grandi aerei da trasporto passeggeri degli anni ’20 e ’30, nonché i molti modelli successivi spinti innanzi da un’elica e impiegati in diversi contesti di tipo militare. Sarebbero stati tuttavia per primi gli inglesi nel 1947 a tentare di combinare il concetto di una barca volante con quella del getto a reazione, con la creazione dei tre prototipi del Saunders-Roe SR.A/1, un idrocaccia subsonico destinato a non raggiungere mai il servizio operativo. Ciò che la marina statunitense bandì l’anno successivo, tuttavia, era un vero e proprio concorso diretto ai suoi principali fornitori, per la creazione di un velivolo non soltanto capace di galleggiare, ma che potesse sollevarsi in cielo e superare la velocità del Mach 1 (1.192,32) rivaleggiando in tal senso i migliori dispositivi da combattimento messi a disposizione dei piloti di quell’epoca di cambiamento. Una finalità destinata ad essere perseguita con la maggiore efficienza dalla squadra di ricerca di Ernest Stout, presso la compagnia di San Diego della Consolidated Vultee, più generalmente nota come Convair…

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