Gli aerodinamici capelli dei Watussi

Amasunzu 2

È fin troppo facile dalla distanza culturale del nostro mondo digitalizzato, guardare verso un popolo del Sud della Terra, alle sue tradizioni, le sue danze, i suoi costumi e leggende, finendo per chiedersi: “Dov’è l’eredità contemporanea di una tale società?” Nell’apparente arretratezza di chi ancora vive alla stessa maniera dei suoi antenati, vi è la genesi di questa presunzione d’inutilità, quasi come se l’assenza di telefonini ed Internet, in qualche maniera, condizionasse lo sviluppo psichico delle persone. Quando, in effetti, è forse vero l’esatto opposto, benché ci siano pro e contro in entrambi gli stili di vita. Idealmente, sarebbe tutta una questione di equilibrio! Quando osserviamo i personaggi di una creazione ludica che si affrontano su schermo, il guerriero marziale Heiachi di Tekken, certi stravaganti stregoni della serie di Jojo, oppure la forma del casco degli alieni belligeranti di Halo e così via, è del tutto comprensibile apprezzare quel profilo accattivante, che ha fatto della forma della testa un valido punto di distinzione. Ciò detto, nella maggior parte dei casi e senza pensarci troppo su, la nostra propensione è ad attribuire ulteriori meriti alla creatività di chi li aveva disegnati, elevato al ragno di “colui che crea dal nulla” (Ah, QUESTO è davvero impossibile). Ma ecco a voi l’imprevedibile realtà: spesse volte, tali aspetti inusuali (per noi) non che parte dei rispettivi leggendarii di supporto, non vengono dall’Empireo, ma da quel vasto continente troppo spesso trascurato, per le molte tribolazioni nonché, ahimé, il suo essere “nero”. E in particolare l’aspetto citato dei capelli, costituisce la diretta ispirazione di un popolo dalla vicenda estremamente tormentata, che migrò dai tempi immemori presso il fertile terreno vulcanico dell’odierno stato del Ruanda. Secondo la teoria più accreditata, a partire dalle sponde del fiume Nilo. Erano i Tutsi, o per usare il termine omologo decisamente più familiare a noi italiani, grazie alla canzone di Edoardo Vianello del ’63, i Watussi. Che viaggiarono con le loro preziose vacche dai corni spettacolari, con la particolare serie di acconciature, così estreme taluni coraggiosi le hanno persino paragonate agli aguzzi copricapi della nobiltà egizia, e soprattutto mettendo avanti la punta delle lance e le altre armi, come sempre si usò fare in ogni àmbito geografico, grossomodo fino all’altro ieri. Senza contare il fatto che, come noi ben sappiamo, la migrazione di massa è un momento che crea attriti tra i popoli davvero significativi. Fatto sta, dunque, che costoro giunsero trovando la loro meta già occupata, da un’etnia altrettanto antica e ben più numerosa che ha il nome di Hutu, originaria delle regioni dei Grandi Laghi e del Corno d’Africa. Da questo incontro a tempo debito, per un processo ad oggi poco chiaro, ma probabilmente attraverso scontri e reciproci scambi d’opinioni o favori, venne istituito il sistema feudale che ha il nome di ubuhake, per cui le genti nilotiche dei Tutsi fornivano agli Hutu protezione, carne bovina e l’uso delle terre conquistate, in cambio di lavoro nei campi e servitù incondizionata. Da alcuni stralci di leggende, addirittura, sappiamo che i Watussi erano venerati come figli diretti degli dei, in grado di comandare la venuta delle piogge o la fertilità del suolo.
Una situazione complicata, chiaramente. Giacché qualsiasi stato continuativo di disuguaglianza tra due popoli, soprattutto quando quello che ha avuto la peggio risulta tanto più numeroso, è una caldera che accumula pressione, in attesa dell’evento catastrofico finale. Che non sempre giunge: talvolta avviene, ad esempio, che attraverso le generazioni si raggiunga un graduale stato d’equilibrio, grazie alla reciproca ragionevolezza, il senso di rispetto naturale tra individui. Sarebbe stata possibile, tale soluzione, per i popoli del Ruanda e del Burundi? Non lo sapremo mai. Perché nel 1894, malauguratamente, arrivammo noi europei. Nella persona dell’esploratore tedesco Gustav Adolf von Götzen, giunto alla corte del re (mwami) di Nyanza con un particolare messaggio di speranza: che se pure l’antica dinastia dei Tutsi appariva prossima al decadimento, tutto quello che avrebbe dovuto fare era unirsi alla nuova Africa Orientale Tedesca, per ricevere il supporto delle truppe d’occupazione con le loro armi dalla potenza incontrastata. E chiaramente, così fu.

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I ferrovieri giapponesi ballano la Yosakoi

Yosakoi

Sopra un palco rapidamente costruito in mezzo ai giardini di Odori, nella ridente città di Sapporo, sono schierati in file successive trentadue individui in uniforme nera con accenti rossi, il berretto recante un soggolo dorato. In posa plastica, le braccia raccolte dietro la schiena, ciascuno di loro guarda il pubblico con ciglio fiero e poi produce, in un perfetto sincronismo, il primo accenno di un saluto militare. Ma non sono soldati, questi, non ci troviamo a una parata. Stiamo per assistere piuttosto alle prime battute della festa annuale dedicata ad una delle espressioni popolari maggiormente rappresentative del Giappone, che reinterpreta gioiosamente le sue stesse tradizioni. Questa è la danza, un tempo ubriaca, della Yosakoi. La quale oggi, piuttosto che nascere come spontanea espressione di chi vorrebbe onorare gli spiriti dei defunti durante la festa di Obon, è frutto di uno studio coreografico più attento, nonché ricco di un concreto simbolismo. Dunque ciò che segue nella scena appare subito profondamente rappresentativo: il braccio sinistro dei curiosi personaggi che si alza parallelo al suolo, portato con fare formale a quindici centimetri dal viso, come se costoro si apprestassero leggere…Un orologio? Siamo per caso in ritardo? Impossibile, appare immediatamente chiaro mentre già si voltano, con fare maestoso, mostrando il monogramma vermiglio dietro alle giubbe, messo in mostra esattamente come fosse quello araldico dei samurai: un solo logo, un’idea di assoluta efficienza funzionale. JR – Japan Railways, ovvero le ferrovie del Giappone, le uniche che quando mancano l’appuntamento con una stazione, ti offrono un biglietto di scuse, da inoltrare fino al capo dell’ufficio. In questo appassionante frangente rappresentate con fierezza, ancora una volta, dal corpo di ballo messo assieme dai loro dipendenti dell’isola del Kyushu, ormai diventati ospite fissi, e onorati, delle più prestigiose manifestazioni nazionali in cui si pratica la disciplina della danza. L’effetto complessivo è straordinariamente travolgente, e gli è valso un’ottimo piazzamento nella competizione nazionale dello YOSAKOI Soran Festival, evento in grado di attrarre, stando alla pagina ufficiale, fino a 2 milioni di visitatori.
Perché non è possibile sopravvalutare l’importanza dello spirito d’aggregazione in un qualsiasi impegno di stampo aziendale: come ingranaggi di un grandioso meccanismo tutti gli individui coinvolti, dal custode al CEO, dalla receptionist al direttore del marketing, dovrebbero condurre e veicolare un movimento che non sia soltanto regolare, ma una via d’accesso alla realizzazione collettiva. E non c’è davvero un modo più immediato, o semplice, di dare forma a un simile concetto, che attraverso lo strumento della musica, che decora con le sue armonie l’incedere del tempo, così come l’arte visuale, la pittura o la scultura, occupa lo spazio fisico di tali e tante sale. Pensate all’inaugurazione ormai attentamente codificata di un nuovo Apple Store, in cui i commessi in uniforme, come prima esperienza dopo il processo di formazione successivo all’assunzione, ricevono il sacro mandato di mettersi in vetrina e inscenare una buffa danza, tra gli applausi imbarazzati dei primi clienti. Oppure all’improbabile canzone motivazionale, simile a un peana neozelandese, che la catena dei grandi magazzini statunitense di Walmart esigerebbe dai suoi dipendenti all’inizio di ogni singola giornata lavorativa – o almeno così dice la leggenda. Il fatto stesso che si possa parlare in un ambito occidentale di un simile fenomeno, come pure di quelle strane sessioni pensate per cementare lo spirito collaborativo dei manager, in cui si costruiscono ponti con gli stuzzicadenti, ci si getta all’indietro per essere presi al volo e così via…Può essere considerato un chiaro segno dell’influenza avuta dall’etica lavorativa del Giappone sull’intero mondo degli affari in bilico per il passaggio tra gli anni ’70 e ’80, quando sembrava che il futuro economico della globalizzazione sarebbe stato tracciato dalle inconoscibili zaibatsu (conglomerati di compagnie) così perfettamente riassunte nelle poderose ed inquietanti insegne al neon della nascente estetica del cyberpunk, ideogrammi fiammeggianti nella pioggia del Blade Runner di R. Scott. Perché in Giappone l’ego della singola persona non esiste. O per meglio dire, la sua stessa concezione è quella di uno stato transitorio, l’illusione momentanea di chi al termine di scuola, lavoro e/o incontri familiari, finalmente si ritrova sopra il proprio letto silenzioso, per pensare, idealmente, ai propri impegni del domani. E così soprattutto il ferroviere: perché non ci vuole molto a capire che il treno, come essenza noetica, è più grande di coloro che lo guidano, di chi lo usa per giungere a meta…

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I Mori e i Cristiani nell’eterna battaglia di Alcoy

Moros y Cristianos

Ah, si: guarda. Chi è quell’uomo incoronato, sopra il carro ricoperto dai festoni e in una pioggia di coriandoli gettati sulla strada? Chi mai potrebbe essere costui, se non re Giacomo I d’Aragona, conquistatore della Valencia, della Linguadoca e delle isole delle Baleari, fiero condottiero, deviatore delle frecce assassine, filosofo e primo scrittore autobiografico della sua epoca. Intento a nominare per l’ennesima volta, tra i bimbi della città di Alcoy in Alicante, qualche nuovo armigero, nobildonna o generale, al fine d’aiutarlo nel prossimo passaggio della guerra senza fine, rimessa in scena tutti gli anni in occasione di una data dedicata alla memoria: l’onomastico di Giorgio il cavaliere, verso il termine d’Aprile. L’occasione, ormai da molto tempo denominata d’Importanza Nazionale, della locale festa dei Moros y Cristanos, durante la quale sfilano intere generazioni di guerrieri, in schiere tanto fantastiche quanto ordinate, ciascuna ispirata a questa o quella tradizione, con qualche infiltrato di moderni film e videogiochi. Ma bando alle formalità: già dietro il castello artificiale, costruito come palco del momento culmine della sfilata presso la Plaza de España, si preparano i protagonisti del secondo giorno di festività. L’inimìco supremo, quel Mohammad Abu Abdallah Ben Hudzäil al Sähuir, brevemente detto Al-Azraq (l’azzurro, dal colore dei suoi occhi) comandante arabo che nel 1276, quando questa città segnava la linea di confine tra due mondi totalmente differenti, sfidò il potere del sovrano europeo. E poi fallì, eppure…Sarebbe difficile non ammirare addirittura lui, con le schiere allegoriche dei “cattivi”, un po’ Immortali persiani, un po’ membri di tribù africane, o persino, perché no, abitanti del pianeta Cybertron, tornati indietro nel tempo per rappresentare un male spettacolarmente puro. Come l’altro lato di uno specchio illuminato, che lascia passare i raggi alterni della verità. Tutto in nome di…
Un Dio misericordioso, un Dio comprensivo e tollerante. Persino, nella sua accezione più spiccatamente medievale, magnanimo verso i più implacabili dei peccatori, purché appartenenti a quel contesto che ha il nome della cristianità. Ma sopra a tutto questo, come sua connotazione biblica presunta e ancora largamente dimostrabile, supremo esecutore di un sacro senso di giustizia, sia verso l’individuo che sul passo e il senso della Storia. Non che Egli potesse discendere ancora da una nube, come ai tempi d’Abramo, per condurre alle crociate i cavalieri in arme. Non personalmente, almeno. La teologia era già troppo sofisticata per questo, nei tempi di alabarde o mazze incatenate. Però al risuonare di una tale frase: “Deus Vult” difficilmente interi eserciti potevano restare indifferenti. E non era insolito, nelle cronache tra il dodicesimo ed il tredicesimo secolo, che si finisse per parlare di questo o quel santo, la spada stretta saldamente in pugno, comparso in cielo con il compito di segnalare l’ora e il tempo di lanciarsi nella carica finale. Nella maggior parte dei casi, questo è soprattutto incidentale, l’imago sfavillante era concessa solamente a chi era in grado di annotarla: l’arcivescovo che accompagnava il re, i più ligi comandanti o redattori di complessi resoconti e biografie. Loro e non il povero fante di prima linea, cui bastava il risuonare o l’eco di una tale forza immisurabile, l’orgoglio del signore in Terra e/o di quell’Altro, per concludere la propria vita tra le frecce, il fuoco e il mulinare delle sciabole dei Mori.

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Nuotare assieme ad un milione di meduse

Jellyfish Lake

Ecco un evento fuori dal contesto: l’acqua che è una zuppa, più che un lago, e lui che fluttua ricordando un tempo e un luogo differente. Certe situazioni sono tanto strane e incomprensibili che, senza un appiglio chiaro al mondo, potrebbero portarti fuori dal tuo placido e tranquillo vicinato. Laddove volano le aquile, se ami l’alpinismo, oppure in comparabile e diametrale opposizione, nel profondo di un sistema chiuso, in cui sussistono le condizioni per un’unica realtà…Tentacolare…Soltanto “lievemente” urticante…replicata all’infinito nell’impegno d’individui senza nome, né pensiero. Ce li fa conoscere con il suo video, realizzato nel corso di un’affascinante quanto costosa immersione, Mikeyk730, visitatore occasionale della nazione arcipelago di Palau. Ora, naturalmente qualsiasi paese isolano che si trovi a 500 Km dall’importante terra emersa più vicina (in questo caso, le Filippine) tenderà ad avere flora e fauna alquanto fuori dal comune. Questo dettano le leggi dell’evoluzione, che non soltanto si adattano a un contesto dell’ecologia, ma alla presenza, o incidentalmente anche l’assenza, di determinati concorrenti nella gara che conduce alla sopravvivenza. Ma non sempre fino a un tale punto, senza pari nell’intera storia della biologia: il Lago delle Meduse, il cui nome è già un programma, sarebbe questo specchio d’acqua marina della misura di 460×160 metri circa sito presso le coste dell’isola di Eil Malk, caratterizzato da diverse quanto significative eccezioni da quello che potrebbe definirsi il corso principale delle cose. Prima di tutto, perché presenta un marcato fenomeno di meromissi, ovvero la precisa divisione in strati dalla composizione chimica notevolmente differente, nel suo caso due, che riescono a mantenersi separati nel corso dell’intero ciclo stagionale. In tutto il mondo sono più di 200 i laghi che presentano questa caratteristica, quasi tutti d’acqua dolce, benché dall’alto contenuto salino. Mentre questo particolare luogo riesce essenzialmente a costituire un avamposto del vicino mare, visto come numerose fessurazioni e tunnel sotterranei, scavati dall’erosione sull’antico suolo d’arenaria, lo colleghino direttamente alle acque tiepide della laguna lì vicino. Tubi di collegamento, autostrade per i pesci, metropolitane che non nei secoli e millenni sono state viste con particolare diffidenza da praticamente tutte le creature, tranne due particolari specie, molto simili tra loro: le meduse scifozoe delle specie Mastigias papua e Aurelia aurita. Che simili sifoni li hanno già percorsi, con la ferma intenzione di raggiungere quel vuoto interessante. E farne, grazie alla riproduzione scriteriata, il proprio paradiso in Terra.
Palau, che fa parte del gruppo di isole che collettivamente compongono la vasta regione della Micronesia, è a sua volta suddiviso in due sezioni contrapposti: una parte a nord, dove si trovano gli aeroporti, tra cui quello internazionale, il porto e commerciale e i principali centri abitati, tra cui la capitale Koror. Nel meridione invece, sussiste un paesaggio di circa 300 isole rocciose e piccoli atolli da una superficie complessiva di 47 Km quadrati, virtualmente incontaminati dalla mano dell’uomo. Il nome di questo luogo prezioso, nominato dal 2012 patrimonio naturale dell’UNESCO, è Chelbacheb ma i turisti, per semplicità, sono stati abituati a definirle le Rock Islands. Questo soprattutto visto l’aspetto spigoloso e rigido del suolo, parte residua di una barriera corallina preistorica, che fu spinta verso l’alto per l’effetto di attività vulcaniche dimenticate. Ma non tutte queste isole sono dei piccoli scogli, abitati unicamente dagli uccelli e i pericolosi coccodrilli d’acqua salata, tra le specie animali più imponenti della regione. In particolare questa Eil Malk, che è anche la maggiore, presenta nel mezzo di una folta vegetazione numerose attrattive per i turisti, che annualmente la visitano in cerca di esperienze senza precedenti. E che c’è di meglio di una cosa simile? Chiunque sia stato mai punto da una medusa, abbia conosciuto quel bruciore simile all’estensione fuori controllo di una puntura di vespa, se non peggio, non potrà fare altro che rabbrividire, alla vista di questo coraggioso che s’inoltra in mezzo all’acqua nebulosa, spingendo lontano innumerevoli creature a fungo, ciascuna potenziale bomba d’insistente sofferenza. Soltanto che, gradualmente, ci si rende conto che l’atteso lampo di dolore non arriva; questo perché, eccezione tra le eccezioni, le meduse di Ongeim’l Tketau, nome in lingua Palau del lago delle… Che si sono adattate negli anni a sopravvivere senza alcun tipo di arma difensiva. L’assenza di particolari predatori, fatta eccezione per una specie guastafeste di anemone attestato nella parte nord del lago, unita ad una sostanziale sovrappopolazione dell’ambiente abitativo, ha portato attraverso le generazioni all’atrofizzazione dei loro cnitociti urticanti, organi che l’animale deve rigenerare dopo ciascun utilizzo, con notevole dispendio d’energia. Il risultato è che le meduse di Palau possono ancora, si, pungere, ma lo fanno in modo tanto delicato che il veleno neanche penetra la pelle degli umani, se non leggermente e in prossimità di zone molto delicate, come il volto e le labbra.
Naturalmente, a chi è ha presentato i sintomi di un’allergia verso punture precedenti si consiglia di prestare un certo grado di prudenza. Ma tutti gli altri sono gioiosamente invitati, dall’amministrazione turistica di questi luoghi a far del pozzo brulicante, come fosse la propria piscina personale. Unica regola del Jelly Club: niente bombole e respiratore, solo maschera e boccaglio. La prima ragione è che le bolle emesse dalla valvola potrebbero causare danni alle meduse, restando intrappolate sotto il loro fragile ombrello. La seconda è molto, molto più inquietante….

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