La tortura del guanto di formiche brasiliane

Formica proiettile
L’ultimo video promozionale di Hamish & Andy, viaggiatori della tv australiana, dimostra chiaramente l’effetto del “dolore più intenso noto all’uomo”

Immaginate, se volete. Di avere a pochi metri da casa vostra, sotto l’albero di pere, un intero nido di imenotteri simili a questiil cui pungiglione ospita, in qualche maniera inimmaginabile, il principio stesso della polvere da sparo. O almeno così vorrebbero dare ad intenderci, visto come le chiamano per analogia, in ambienti un po’ troppo civilizzati: formiche proiettile. Ipotizzate, dunque, di vedere tali insetti tutti i giorni della vostra vita, fin da piccoli, con sincero e imprescindibile terrore. E di evitarle ancora, ormai cresciuti, nel tragitto verso l’università e il lavoro. Da persone adulte, infine, fantasticate di scrutarle con rabbia, dietro finestrini chiusi molto saldamente, accompagnando i vostri figli a scuola con la macchina. Anch’essi spaventati, esattamente quanto voi, i vostri genitori e i vostri nonni e… Ad un certo punto, che fareste? Non le mettereste tutte dentro a un tubo di bambù? Non le addormentereste attentamente con il succo verde della pianta dell’anacardio, per poi incastrarle, una ad una, nella tessitura fitta e salda di una coppia di guanti da forno fatti con il vimini (che strano)? Naturalmente, avendo cura che il pungiglione sia rivolto verso l’interno! Per poi darglieli in regalo al vostro figliolo, nel dì allegro di una festa lungamente attesa…
Non ci sono parole per descrivere il dolore assoluto. Tanto che in campo medico, come ausilio alla diagnosi, si chiede al paziente di assegnargli una cifra indicativa, normalmente variabile tra l’uno e il dieci. Dove alla base della scala c’è un leggero fastidio, mentre all’apice, teoricamente, la via diretta verso una generosa dose di morfina o altra sostanza, possibilmente altrettanto valida nell’ottenere una pace torpida e immediata. Sarebbe questo il caso di chi sanguina copiosamente, per l’effetto di un attacco portato avanti con le terribili armi da fuoco, tormento della nostra civiltà. O che piuttosto langue, senza danni visibili o vere conseguenze, a seguito del morso di anche una singola formica tocandira. Gemendo per 24 ore, tra lenzuola altrettanto umide di cupa sofferenza…È soprattutto nell’attimo di passaggio tra la notte e il giorno che si sperimentano visioni mistiche particolari: ancora intorpiditi dalle lunghe ore di sonno, i neuroni umani a reagire bruscamente. Si risvegliano di scatto e all’improvviso, il campo elettrico cerebrale s’interseca e contorce, creando l’immagine di noi stessi, oltre i limiti del mondo. Diversi. L’eccessiva lucidità, per quanto apparentemente desiderabile, costituisce un’arma a doppio taglio. L’essere umano, sperduto nel vuoto cosmico dimenticato, si trasforma. Uno sciamano sperimenta la presenza del grande spirito. Altri coraggiosi, parlano coi morti. Ivi albergano mostri, santi e figure leggendarie. Per la maggior parte della gente, invece, c’è solo un astratto senso di totale smarrimento. Perché quel periodo sublime è  in realtà frutto di una transitoria e piccola morte, l’annientamento della consueta ragionevolezza, frettolosamente ricreata, mille volte in quel fatidico secondo. Uno scalino obbligatorio, che sa di lunga eternità. Finché ad un tratto, per fortuna, la mente viene tratta in salvo, dal martellante suono della sveglia o della pura volontà. Il fatto che ciò avvenga in qualche misura tutti i giorni, per l’effetto del comune addormentarsi, è una grande fortuna dell’uomo moderno e sano di mente, che fugge dal dolore come cosa totalmente inutile o persino deleteria. Un’opinione, questa, del tutto arbitraria e condizionata dalle circostanze. Di chi vive troppo lontano dalla tocandira, che condensa mille notti, come questa, in una sola indenticabile esperienza.
Gli “indiani” Sateré-Mawé della Foresta Amazzonica, popolo di guerrieri e cacciatori, conservano gelosamente l’usanza di un rito d’iniziazione impressionante. Che consiste nel sottoporre i propri giovani a un supplizio reiterato: la terribile, indescrivibile tortura del guanto saaripé. C’è molta tecnica ed arte nella sua preparazione…

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Auto di razza e branchi radiocomandati

Dogs RC car

Snoopy, Australia 2014: per sempre in fuga dal branco ululante, l’automobile 1:16 continua la sua corsa. Sarà sufficiente la durata della batteria? Riusciranno le svelte dita del padrone a comandarla verso la salvezza? Cosa sono, in fondo, qualche centinaio di dollari, rispetto alla soddisfazione di svagare quasi dieci cani tutti assieme… È una scena spettacolare, un po’ ridicola e altrettanto memorabile, quella gentilmente pubblicata da red crawler, che si autodefinisce come “Appassionato di Beagles, Dashcams & random other things” [un po’ di tutto, insomma]. Delle quali cose, qui ne vediamo almeno due: la razza, per massima eccellenza, dei cani da caccia di taglia media e la telecamerina usata per riprendere la scena, assai probabilmente una GoPro, dalla frequenza di aggiornamento e risoluzione veramente eccelse. Per fortuna, direi! Vista la rapidità dei molti protagonisti, così piccoli rispetto al campo largo dell’inquadratura, tanto svicolanti, zigzaganti, svelti grazie all’ìmpeto supremo dell’inseguimento. La regina Elisabetta I Tudor era non a caso nota, fin dalla sua salita sul trono d’Inghilterra (1558) per la sua predilezione verso questi cani alti all’incirca 30 cm, ben presto introdotti, per osmosi, verso le altre principali corti dell’Europa Rinascimentale; dove si guadagnarono la propria fama d’eccellenza, proprio in virtù dell’abilità dimostrata nell’inseguire e catturare lepri, volpi, fagiani sfortunati. Destinati ad essere la preda di quei piccoli e vivaci denti, prima di finire in pentola o alla brace. Un epilogo, questo, particolarmente improprio nel presente caso, di una tale bestia artificiale, fatta in plastica, metallo e altre sostanze niente affatto salutari. Anche troppo prevedibile sarebbe il caso sfortunato di un cappottamento, l’urto di un ostacolo imprevisto, preambolo dell’arrembaggio ringhiante e scriteriato. Forse, constatata l’assenza di piume o di un odore oltre a quello del padrone, i saggi bracchetti lascerebbero fuggire via la vittima designata. I cani sono noti per la loro ragionevolezza, giusto?
Poco importa, dinnanzi ad un simile divertimento in cooperativa, tra l’uomo e i suoi compagni a quattro zampe. Perché si tratta, per usare un termine ludico moderno, della perfetta interazione asimmetrica, Sacro Graal del media digitale. Il pilota, usando la sveltezza di mano ed il cervello, che si applica con le sue dita sul telecomando, l’approssimazione dei pedali col volante. Il suo strumento principale è l’empatia: risulta fin troppo facile, nonché appassionante, immaginarsi al posto di guida dell’oggetto usato per segnare il ritmo della danza, quella costosa quanto desiderabile automobilina. Nel frattempo, i cani fanno quello che gli riesce meglio. L’obiettivo diventa… Dare seguito agli istinti atavici, oltre i confini del parco e del momento. C’è un senso del dovere in tale operatività canina. Che da un senso pregno alla battaglia del presente!

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En garde! Sto alzando il mio bastone da passeggio…

Canne de combat

…Che si chiama Durlindana! Se l’anima del samurai è la sua spada curva, arma infusa dello spirito degli antenati, quale potrà essere la nostra, di uomini privi di connotazioni bellicose? La risposta va cercata nella vita quotidiana di una volta, quando la lotta senza appositi strumenti, piuttosto che un’attività sportiva, era una pratica che proveniva dal bisogno. Ma prima d’inoltrarci nei fumosi vicoli della Londra vittoriana, piuttosto che dietro gli alti padiglioni o ai metallici edifici e simboli dell’Esposizione Universale di Parigi (quella del 1900) sarà meglio procedere con metodo scientifico appropriato. Conoscere le vie nascoste dell’autodifesa, certe volte, vuole dire prevalere sui briganti. Soprattutto nel campo eclettico delle arti marziali d’Occidente.
Nelle Olimpiadi dei tempi moderni, la cui seconda edizione ebbe luogo durante la già citata fiera internazionale, esisteva fino a poco tempo fa una sentita tradizione, praticata fino al 1992 e detta in francese (lingua ufficiale dell’evento) sport de démonstration, secondo cui alla nazione ospitante, subito dopo l’accensione della torcia titolare, veniva consentito di dar spazio ad una sua particolare tradizione atletica, non necessariamente di natura agonistica o convenzionale. E la stessa capitale della Francia, avendo ricevuto l’onore di ospitare i Giochi, mise fieramente in mostra, nell’ordine: il volo degli aquiloni, il pronto soccorso, il caricamento dei cannoni ed alcuni interessanti precursori degli sport moderni, come il tennis e il gioco delle bocce. Ci fu quindi un crescendo, nelle edizioni immediatamente successive, per eguagliare o superare tali memorabili momenti. Con proposte storiche davvero imprevedibili: il football gaelico a St. Louis, Stati Uniti (1904), il polo in bicicletta (Londra, 1908) la lotta vichinga del glima, fedelmente ricostruita grazie alle associazioni culturali di Stoccolma (1912) e il korfball, o pallacesto olandese, ad Anversa nel 1920. Ogni volta c’era una sorpresa. Fino a quel fatidico momento, dopo esattamente vent’anni e come stabilito da principio, quando l’onore di tenere i Giochi Olimpici ritornò ai parigini, coloro che, giustappunto, li avevano riportati in auge, nell’epoca dei primi notiziari radiofonici. Con la posta molto in alto e una palla a centrocampo, per usare un eufemismo, quanto meno incandescente. Come superare, in spettacolarità, tanti insigni anfitrioni dei diversi continenti?
Nessun problema: all’alzarsi del metaforico sipario sull’arena, il mondo ebbe ancora una volta il piacere di restar basito. Ecco due uomini agilissimi, in uniforme protettiva, che tentano di colpirsi alle caviglie con dei semplici bastoni. Nelle loro mani, oggetti molto simili a quello che ancora era, in quei tempi, tra gli accessori maschili largamente considerati irrinunciabili: the cane o come lo chiamavano da quelle francofone parti, la canne, oggetto fatto spesso in legno, qualche volta riccamente decorato, sempre rigido e pesante, all’incirca, quanto una sciabola da fianco. Caratteristica, questa, in grado di renderlo due volte utile, al bisogno! Come avevano notato Michel Casseux, farmacista marsigliese (1794–1869) e Charles Lecour (1808–1894) rispettivamente caposcuola e teorico dell’arte marziale del Savate, comunemente detta boxe francese. Nata, secondo la leggenda, sulle instabili navi in viaggio verso le colonie dei diversi grandi Imperi, quando i marinai, per ricevere soddisfazione in una disputa, erano soliti menar le mani in modo nuovo: ovvero, usando soprattutto i piedi, mentre con quelle si reggevano al sartiame. Per poi sbarcare, qualche tempo dopo, e prendersi a sonore mazzate.

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La fuga rocambolesca di un trasportatore ubriaco

Russian Truck

C’è un solo paese tra la Finlandia e la Corea del Nord. E i suoi territori, che superano per estensione la superficie del pianeta Plutone, sono uniti dalle strisce di un asfalto che ne ha viste molte, pure troppe. Sono strade estremamente forti e lunghe, queste, come testimoniato quasi quotidianamente da dozzine di registrazioni video, messe a conoscenza del grande pubblico internazionale. Forse, assai probabilmente, nessuna pari a questa, appena rilasciata dal dipartimento di polizia di Grodno, nel Belarus, come esempio didascalico di un pericolo scampato, solo per un pelo, esclusivamente grazie all’abile intervento degli agenti in uniforme. Siamo, per usare il termine italiano, nella nazione della Bielorussia. E questa è una delle Avtomobil’nye dorogi federal’nogo znacheniya Rossiyskoy Federatsii (Strade d’importanza federale nell’Unione Russa) tanto simili alle vene ormai cristallizzate di un antico dinosauro, titanico e indefesso, lo spettro di un’epoca dimenticata. Eppure assai vicina, nella coscienza culturale di chi l’ha vissuta.
Tanto che, ad oggi, non esiste un’immagine in Occidente di quel vasto mondo operoso, dei suoi campi coltivati, delle industrie e degli ingenti sforzi necessari per tenere collegate le sue città, assai remote. Circondati dalle visioni ammirevoli dei colossali 18-wheeler statunitensi o dei loro corrispettivi canadesi, splendidi e cromati, siamo pronti a trascurare la figura dell’autotrasportatore slavo, che senza mai stancarsi viaggia fino alle propaggini della Mongolia. Come un tempo fecero all’inverso le orde del temuto Gengis Khan; finché non succede, all’improvviso, questo. L’aberrazione di un tremendo rischio o l’impossibile follia di un tardo pomeriggio, certamente meno che ordinario, all’apparenza. Comunque valido ad aprirci gli occhi sulla verità. Tutto inizia alle ore 20:15 dello scorso 27 luglio, presso un’area di parcheggio della Baranovichi – Vaŭkavysk. Un camionista, alla guida di un articolato Scania per il trasporto di autoveicoli, urta un furgoncino Mercedes Sprinter. Aveva 1.9 ppm di alcol nella vene, contro la soglia nazionale permessa di  0.3 parti per milione. Tanto è bastato, incredibilmente, a scatenare la follia. Inizia così una fuga senza criterio, nel corso della quale l’uomo viola ogni regola del codice della strada, guidando anche contro mano, sfiorando numerosi autoveicoli e con essi la tragedia. A fargli da scorta indesiderata alcune coraggiose auto della polizia, che presto aumentano di numero in maniera esponenziale. Verso le ore 20:37, il dipartimento di Grodno chiede aiuto al distretto di Baranovichi, mentre già vengono sparati i primi colpi in aria, senza nessun tipo di risposta dal fuggiasco. Ciò che succede dopo…Va detto: le proporzioni, a volte, fanno la differenza. 

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