La cosa peggiore che affonda in piscina

Funnel Spider

Suggestioni piuttosto vaghe di ottuplici zampe, grappoli d’occhi, zanne che grondano atroci tossine. Tra i gruppi di creature potenzialmente pericolose, quello dei ragni è tra i più spesso temuti nel suo intero insieme, senza particolari distinzioni tra vedove nere e innocui ragni ballerini, eremiti marroni o benefici Sparassidae, divoratori di blatte infestanti e non aggressivi per l’uomo. Ma basta inoltrarsi presso i lidi di un qualsiasi portale naturalistico di nazionalità australiana, per entrare in un regno di approfondite descrizioni scientifiche, che invitano a studiare la forma del carapace, i peli sulle zampe, il numero e la posizione delle ghiandole sericigene sul corpo dell’animale. C’è davvero da meravigliarsi? Nella terra in cui vive la maggiore concentrazione di animali velenosi e potenzialmente letali, dalle meduse a scatola ai serpenti, dal polpo striato al pesce di pietra, talvolta riuscire a riconoscere ciò che si ha davanti può fare la differenza tra un rapido salto all’ospedale, per la somministrazione del siero antiveleno, oppure l’ultimo estremo saluto ad amici, vicini e parenti. È una questione evolutiva, che ha visto lo sviluppo ecologico di metodi difensivi e di caccia soltanto incidentalmente pericolosi per l’uomo, ma anche relativa alle scelte degli antichi coloni di questi luoghi, che scelsero di edificare le proprie abitazioni proprio in prossimità di boschi ombrosi, valli argillose e umidi fiumi. Tutte caratteristiche particolarmente desiderabili per l’uomo e non solo, anche per le innumerevoli famiglie del più ricco e variegato ambito di creature, quello degli artropodi, piccoli (ma non sempre) e innocui (ma non sempre) zampettanti animali. Ed è proprio questo loro vagheggiare, l’andare in cerca, nei mesi caldi dell’anno, di una desiderabile compagna cui consegnare il propri patrimonio genetico, a portare i 5 cm ca. del ragno dei cunicoli di Sydney fin sotto alle recinzioni delle case site alla periferia cittadina, dove smarrirsi, raggiungere il bordo, distarsi un secondo e cadere nell’acqua del più amato rettangolo estivo, la piscina da cortile per umani. Fine della storia…Non proprio.
Perché l’Atrax robustus, come lascia intendere il nome, non è particolarmente facile da uccidere. E soprattutto, dispone di una risorsa invidiabile per la sua specie: la capacità di intrappolare tra i peli dell’addome una certa quantità d’aria, alla stessa maniera dell’Argyroneta (il ragno palombaro) e vivere soltanto di quella, per una quantità di ore che può raggiungere le 20-24 di quasi totale apnea, per lo meno apparente. Questo ragno tuttavia, a differenza del lontano cugino citato, non può nuotare né stare a galla. Ciò significa, nei fatti, che può anche capitare di tornare dal lavoro e dirigersi subito verso il luogo più fresco che si conosce, senza sapere che è già occupato da questo ospite involontario, spaventato, rabbioso e tristemente in attesa della sua fine, con i cheliceri pronti a veicolare la sua ultima vendetta. Il ragno dei cunicoli, anche detto volgarmente “della ragnatela ad imbuto” è assolutamente in grado di mordere mentre si trova in questo stato, e si stima che abbia causato, dal 1927 al 1981, almeno 13 morti, nonché un numero imprecisato di ricoveri d’urgenza, fino allo sviluppo lungamente, nel 1982, di un antidoto realmente funzionale, oggi conservato in tutti i maggiori ospedali australiani. Il morso dell’Atrax, qualora non fosse trattato, risulta estremamente doloroso e può causare conseguenze davvero grave. Il corpo umano colpito, nel giro di una decina di minuti, può avere una reazione violenta, con spasmi, battito accelerato e difficoltà respiratorie. In particolare, gli individui non adulti sono particolarmente vulnerabili, con una casistica che parla di un buon 42% di avvelenamenti gravi avvenuti sotto i 15 anni di età. Esiste inoltre almeno un caso documentato di un attacco ai danni di una bambina, che morì nel giro di soli 15 minuti, prima che fosse possibile intervenire in alcun modo. La ragione della grave pericolosità del veleno di questo ragno è alquanto singolare, nonché davvero sfortunata: gli esseri umani e le scimmie, infatti, per via delle loro particolari caratteristiche evolutive, risultano particolarmente sensibili a una dose anche piccola dell’atracotossina in esso contenuta, generalmente poco più che sufficiente ad immobilizzare una lucertola o un piccolo mammifero, tra le prede naturali del ragno. Ad esempio un cane o gatto, se morsi, non riportano alcuna conseguenza significativa. Questo dato, incidentalmente, ha sempre lasciato perplessi i seguaci statunitensi della scienza creazionista, che vorrebbe una genesi distinta e separata per ciascuna creatura, negando l’esistenza di un antenato comune tra l’Homo s. e i primati dei nostri giorni. Ma in merito a un ragno come questo, ecco, direi che la pensiamo tutti allo stesso modo…

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Come danzano gli uccelli per mangiare

Tiptap Gull

Ho conosciuto Fred presso la coste sabbiose del Ceredigion, nella tiepida New Quay. Dove persino le correnti fredde provenienti dall’Oceano Atlantico, con il carico consueto d’astio ed animosità, altro non possono che infrangersi contro gli scogli dell’ospitalità gallese, il convivio celtico e la voglia di far festa ad ogni ora.  Lui era un tipo bianco e grigio, piccolino, con i piedi grossi e vistosamente palmati. All’epoca, la sua unica espressione artistica era un canto penetrante e alquanto primitivo, squillante all’alba per segnare il territorio: GAAWK, SQUAAKW, faceva lui. Talvolta, i suoi vicini e parenti si univano alla compagnia. Generando una specie di concerto, allegro se non propriamente variegato, in grado di allietarci un cacofonico risveglio. Ma Fred, ah! Lui non era come gli altri, questo ebbi a capirlo quasi subito. La prima volta, pioveva leggermente, così già stavo mettendo il cane in macchina, quando un fruscìo tra gli alberi portò il mio sguardo verso l’entroterra. Lui era lì, da solo, il becco giallo aperto eppure senza suono a disturbare un simile momento. Voltò la sua testolina prima a destra, poi a sinistra, gli occhi gialli e ostili per definizione, eppure non rapaci, né crudeli. Mi scrutava per capire cosa fossi. “Uu-mano, duee-mani, noo-pani” immaginai che mi dicesse, poi chiusi lo sportello ed inventai quel nome, riecheggiante dello spirito umido di una distante terra senza nome. Fred, l’ambasciatore pennuto in Gran Bretagna. Fred, il ballerino che proviene da lontano. Non che fosse, già a quei tempi, in grado di dare un senso a quello che facesse. Come i suoi cugini della costa, nonché gli antenati comuni da generazioni immèmori, lui batteva i piedi sulla sabbia di riflesso, senza ritmo né ricerca musicale. Lo scoprii due giorni dopo, verso la metà di un’escursione mattutina, di questa vacanza destinata a rimanere nella storia. Oliver il Labrador, come al solito bagnato, masticava il suo bastone quietamente. Temporaneamente stanco per il triathlon canino (corsa, nuoto, riporto) dapprima non udì quel suono sussurrante (tapatapatap) poi sempre più forte (TAP-TAP-TAP) né vide il risultato di un tale spettacolo, l’uccello dietro la duna. Che sia alzava in volo, lo spettacolo finito, con il verme che pendeva dal suo becco, a mò di mortadella delle polverose circostanze.
Quella sera, non riuscii a pensare ad altro. Giù al pub con i ragazzi, dopo la quarta birra, il cugino della locandiera se ne stava un po’ in disparte: “Jon, ho una t-omanta pel pte?!” Il mio accento australiano si sentiva appena: “Ma porqua, i gabbiani batpono le zannpte per cac-ciare?” Dopo uno sguardo all’interlocutore, mi pentii subito di aver posto la domanda. Il pescatore di mezza età, la barba incolta, l’abito sgualcito, era evidentemente ubriaco fradicio e pensava già al domani. Ebbi modo di contare per uno, due, tre secondi, mentre la sua espressione virava dal sorpreso al concentrato, poi si fece all’improvviso del tutto neutrale. “Vedi amico, normalmente non lo fanno.” Il tono era didascalico, la struttura della locuzione semplice e oxfordiana: “Il Larus hyperboreus è un uccello fortemente opportunista, che di preferenza si mostra abituato a cacciare molluschi, artropodi e i piccoli pesci dei fondali sabbiosi. Talvolta è solito battere le conchiglie contro il duro degli scogli, per poterne suggere l’amaro contenuto. Soltanto in un caso è solito battere a terra per riuscire a procacciarsi il cibo…” [Un breve rutto interruppe la disquisizione] “Quando è innamorato. O come dicono i miei esìmi colleghi — Quello scassaboline del dannato cielo (Ar, ar, ar!) –Ha un debole per te.” Gulp! “Fattene una ragione.” Quindi l’ubriaco, all’improvviso, cadde addormentato.

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Si può cambiare la ruota di un aereo in volo?

Gladys Ingle

È una storia del primo secolo dell’aviazione, o per meglio dire, che si colloca agli albori di quei cento anni, il periodo attraversando il quale siamo passati, dal delicato Flyer dei fratelli Wright, a grandi bolidi che volano sopra gli oceani, i caccia VTOL e addirittura lo Space Shuttle della NASA, purtroppo decommissionato. Nulla dura per sempre, tranne il ricordo delle imprese degne di essere discusse, anche se sono trascorsi gli anni di oltre un paio di generazioni. E certamente non è eterno uno pneumatico, sottile involucro con dentro l’aria, che rompendosi in determinate circostanze, può far perdere il controllo di un veicolo su strada. Mentre lassù nel cielo, molto, molto peggio… È una vicenda complessa, che può essere riassunta in un concetto semplice e immediato: EMERGENZA! Questa gente si trovava, lietamente intenta a vagheggiare, sopra un aeroporto di Los Angeles piuttosto noto a quei tempi, la Scuola d’Aviazione di Burdette. Celebre perché, come ben sapevano i vicini coabitanti, da quella pista partivano missioni di continuo, sempre soggette a un qualche tipo di “imprevisto” o “incidente di percorso”. Non per niente, i principali utilizzatori della pista a partire dal 1924 avevano un nome come The 13 Black Cats (I Tredici Gatti Neri) e il pericolo l’avevano trasformato in una costante della propria vita, nonché quella degli spettatori. Così costoro, nel frangente qui documentato, finivano per perdersi in qualche maniera misteriosa la metà esatta delle ruote di un biplano, il Curtiss JN-4, che in totale ne ha soltanto due. L’avevano montata male? Le viti erano corrose? Un gabbiano se l’è ingurgitata? Poco importa, a posteriori, stabilire le cause di un disastro in fieri, la palla di fuoco che nient’altro attende che il momento della verità. Un tale velivolo, tutt’altro che versatile, in simili condizioni non potrebbe infatti mai atterrare. E saremmo già stati pronti a perderci d’animo se non che d’un tratto giunge lei… Gladys Ingle! La donna con “coraggio e nervi di ferro” (l’acciaio ancora non si usava) che costituiva l’inesattezza semantica nel nome di squadriglia degli stuntmen in questione. Si diceva infatti che nell’affiatato gruppo, che da sempre si sforava di sfidare il rischio e la superstizione, persino i nomi d’arte di ciascun membro dovessero contenere esattamente 12 lettere. Vincolo che apparentemente, non si applicava all’unica felina della compagnia, tra l’altro specializzata in una delle imprese più caratteristiche di quegli anni, punto cardine del repertorio dei barnstormers, gli acrobati dei circhi volanti: ovvero la camminata sopra le ali a centinaia di metri d’altitudine, come niente fosse, mentre l’aereo può procedere anche a 90-120 Km/h. Il che, naturalmente, risultava decisamente accessibile rispetto ai nostri tempi di semplici monoplani, sopra i quali non potresti reggerti a nulla, tranne la speranza in via d’esaurimento. Mentre questa vera e propria atleta, a vederla mentre si trasferiva nel corso dei suoi show tra  piloni, i cavi e le sporgenze di collegamento, più che un gatto ricordava una scimmia, animale simbolo della suprema agilità.
Chi meglio di lei, dunque? Se non allora, quando? Un richiamo riecheggia per il campo, mentre già l’eroina si assicura la gomma di ricambio sulle spalle, a mò di zaino. Accompagnata da un paio di fidi compagni, s’invola quindi a bordo di un secondo biplano, per dirigersi a salvare il segno della situazione senza l’ombra di un imbracatura o un paracadute. Certamente, ce la farà…

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Tre speciali tagliaerbe: triplo, telecomandato, volante

Triple Lawnmower

Tutti vorrebbero una casa con il prato, almeno in teoria. È la realtà dei fatti successivi a rivelarsi spesso un’onerosa seccatura. Il problema è che come in tutte gli àmbiti che sono ambìti, c’è chi è portato, ed ama l’esperienza rilassante di curare un tale appezzamento, poi ci sono tutti gli altri. Chi non ha pollice verde, quindi, raramente ha il medio di un colore comparabile, né l’anulare oppure il quinto dito, anchilosato nella sofferenza di dover pensare all’erba. Su e giù, destra o sinistra, l’implemento viene trasportato. E c’è sempre qualcosa di spiacevole che condiziona quel processo: O fa caldo O s’inceppano le lame O le ruote perdono pressione. La vita è già di suo piuttosto faticosa: perché complicarsela tagliando il prato? Nella guerra quotidiana contro la crescita eccessiva, l’inopportuna insistenza della piante, non c’è logorìo che tenga. Se davvero l’esperienza entropica del calpestìo bastasse, nel quotidiano, a contrastare un tale spirito generativo, oggi il mondo si conformerebbe all’estetica di un tiepido deserto. Mentre il verde è tra i colori che più facilmente riempiono lo spazio di una coppia di pupille. Soprattutto se si ha l’uscio che si apre su un giardino, per così dire, grande.
Grande come quello di Victor Poulin, l’uomo che avevamo conosciuto qualche tempo fa, come un eccentrico costruttore d’armi in grado di tornare indietro nonché titolare dell’impresa e-commerce BoomerangsByVic, ben fornita di versioni estremamente variegate dell’oggetto aborigeno per massima eccellenza. Che in qualche maniera, a giudicare dalla sequenza in questione, deve aver fatto fortuna, vista l’ampiezza estremamente significativa delle zolle a sua disposizione per il patio (è una piscina, quella?) Per di più, rigorosamente lasciate vuote per fare da campo operativo della sua passione. Niente torna indietro se s’incaglia in mezzo ai rami! Ma anche vivere nel mezzo di uno spazio brullo e secco e incolto, chiaramente può fare tristezza. Senza contare le proteste dei propri vicini, che nel tipico consorzio delle ville a schiera in stile americano, difficilmente accetterebbero una casa tanto desolata. Il che significa, in parole povere, che non si scappa: se hai un giardino, hai prato. Se hai un prato, hai *almeno un tagliaerbe. O più. Il problema, semmai, sono le mani disponibili per affrettare il passo della procedura, mettendo in funzione l’intero concerto delle lame affilatissime e rotanti. C’è chi si procura l’assistenza di uno o più ragazzi di fiducia, reclutati tra gli amici di famiglia, che per pochi dollari s’industrieranno nell’operazione. Però come dice il proverbio: se vuoi le cose fatte bene…Devi legare assieme tutta l’attrezzatura, attaccarla ad un trattore motorizzato, premere l’acceleratore e sperare che l’idea funzioni.
Così il buon vecchio Vic, applicando la sapienza tecnologica acquisita in anni di successi ed ottimi video virali, ci presenta l’esperienza della sua ultima invenzione. Si tratta di una di quelle cose tanto semplici, così immediate, che verrebbe un po’ da chiedersi: possibile che nessuno ci abbia mai pensato? Sicuramente, nel secolo prima di questo digitale…Quando non tutto ciò che aveva una ragione d’ulteriore popolarità, veniva necessariamente messo sotto l’occhio della gente con il monitor e la tastiera! È un tagliaerbe triplo, questo, formato dal tipico dispositivo semovente verde oliva, con un traino di metallo a T. Che lui ha saldato, e quindi in qualche modo assicurato, ad una coppia di fiammanti attrezzi manuali, del tipo a spinta che verrebbe normalmente consigliato a chi ha un giardino dalla metratura contenuta. Ciò che risulta da una tale impresa, per usare le parole composite tanto apprezzate dagli americani, potrebbe definirsi un Frankenmower, un Lawnzilla delle quotidiane circostanze. L’apparato dalla larghezza di taglio complessiva di 94 pollici (2,4 metri ca.) le cui lame girevoli sono state attentamente allineate, eliminando del tutto l’esigenza di passare nuovamente in ciascun punto per rimuovere le strisce d’erba. Un’incredibile prova d’ingegno. Ma per chi invece, ama le cose fatte in serie…

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