Imprenditrice immagina un futuro in cui le strade di Nairobi saranno ricoperte di plastica riciclata

In una memorabile puntata del cartoon fantascientifico Futurama, veniva mostrata una possibile modalità del tutto priva di difetti per riuscire a smaltire la spazzatura: una gigantesca sfera, che qualcuno potrebbe chiamare katamari, spinta oltre l’atmosfera terrestre mediante l’utilizzo di un razzo, nella rotta attentamente calibrata per andare a schiantarsi, ed essere del tutto obliterata, sull’incandescente superficie dell’astro solare. Soluzione drastica, anche senza considerare il dispendio in termini di tecnologia e carburante, che in contesti maggiormente razionali avrebbe dovuto essere subordinata ad un approccio maggiormente reversibile. Poiché ogni cosa di cui dovessimo in futuro liberarci in modo definitivo, andrà effettivamente a sparire dal carnet di possibili risorse un giorno adatte allo sfruttamento. Poiché tutta la materia, in qualche maniera, può pur sempre essere riutilizzata previa l’accettazione di un giusto numero di compromessi. Assunto in qualche forma sostenuto, e indubbiamente divulgato, grazie all’opera continuativa di Nzambi Matee, fondatrice e titolare dell’azienda kenyota Gjenje Makers, diventata celebre negli ultimi anni per una tecnica proprietaria di trasformazione dei rifiuti in materiale da costruzione, particolarmente solidi mattoni da impiegare per costruire delle strade e forse, un giorno, anche interi e svettanti edifici. Plastica, per esser maggiormente specifici, veementemente raccolta e selezionata dalle circa 500 tonnellate giornaliere prodotte dalla sua natìa capitale, Nairobi, e comunemente destinate unicamente a discariche come quella di Dandora, la letterale “città nella città” gradualmente espansa fino all’attuale misura di 30 acri, utili a diffondere in ogni direzione le sue malattie e i suoi veleni. Portati ad ad accrescere l’ammasso da camion della spazzatura costretti a circolare frequentemente lungo strade sterrate, ed è forse questa, in ultima analisi, l’idea di partenza dell’ingegnosa procedura di riciclo messa in atto nell’officina dell’ormai ben conosciuta azienda. Poiché la processazione dei materiali al termine della propria vita utile comporta sempre dei costi, e non c’è slogan migliore agli occhi degli investitori di quello pronunciato dall’autrice della mission e vision aziendale di “Let’s turn trash, into cash” (Trasformiamo la spazzatura, in denaro!) Ben più che una semplice vuota promessa, per quanto possiamo apprezzare nei materiali a supporto dell’ingegnosa venture in cui si parla delle caratteristiche strutturali dei suoi mattoni. Fino al doppio di resistenza alla compressione, per non parlare di quella molte volte superiore in tensione, dei comuni mattoni per pavimentazioni di cemento, ad un costo significativamente inferiore: circa 7 euro al metro quadro, contro gli almeno 20 delle soluzioni prodotte mediante metodologie tradizionali. Un’offerta possibile grazie ad una filiera di fornitura delle materie prime risultata capace di produrre posti di lavoro per 110 persone in modo diretto ed indiretto nel corso degli ultimi due anni, ovvero da quando Matee è stata nominata dal Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) “giovane eroina del pianeta”, massimizzando la sua capacità di trovare imprenditori localmente e grazie ad Internet da ogni altra possibile parte del mondo. Un riconoscimento certamente meritato, come potrete desumere prendendo atto delle sue esternazioni attuali e precedenti…

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L’iniziativa di affondare un’autostrada per avvicinare la Scandinavia al centro del continente europeo

Il 30 ottobre del 1990, senza particolari cerimonie, un foro del diametro di appena 50 mm venne completato orizzontalmente attraverso uno spesso strato di marna. Probabilmente uno dei più costosi di tutti i tempi, vista la maniera in cui completava finalmente il collegamento, dopo oltre due anni di lavoro, tra le gallerie scavate con immense trivelle a 55 metri di profondità e 50 Km di lunghezza sotto le fredde acque della Manica, preparando il sottosuolo al transito di due imponenti tragitti ferroviari. Così che l’Eurotunnel, inaugurato infine nel 1994, avrebbe finito per costituire una delle infrastrutture più notevoli della sua epoca, sebbene sussista ragionevolmente un tipo d’interrogativo dalla significativa pertinenza di una domanda: dovendo perseguire oggi lo stesso obiettivo, saremmo inclini a utilizzare macchinari equivalenti? Affrontare la stessa serie di difficoltà, potendo contare sull’esperienza precedentemente acquisita? Oppure fare affidamento a un tipo differente di soluzione, maggiormente calibrata sulle effettive esigenze di chi costruisce arterie di collegamento sotto i profondi strati dell’azzurra umidità terrestre… Come quello dell’immersione, applicato per la prima volta ed una singola corsia statunitense nel 1910 ma che proprio al volgere del millennio avrebbe dato prova della sua applicabilità su larga scala nel tunnel completato nel 1999 di Drogden, pari a 3.500 metri di cemento e acciaio letteralmente prefabbricati che contengono due corsie stradali ed altrettante dedicate al passaggio di convogli elettrici ad hoc, collegando efficacemente la punta meridionale della Svezia con l’importante porto danese di Copenaghen, assieme al ponte consequenziale di Øresund. Il che non prescinde una possibilità per l’ipotetico viaggiatore di dirigersi ulteriormente ad occidente, oltrepassando lo Storebæltsforbindelsen (collegamento fisso del Grande Belt) per giungere in una trasferta ininterrotta fino alla parte continentale della Danimarca, oltre un ponte a trave scatolare tra la Selandia e l’isola di Sprogø. Eppure fin da un lungo periodo e stata percepita, nella cognizione logistica di tali situazioni rispettivamente risalenti al 1998 e ’99, una grande mancanza veicolare a vantaggio di tutti coloro che, per ragioni di qualsivoglia tipo, avessero deciso piuttosto di procedere verso il meridione. Per raggiungere l’isola tedesca di Fehmarn, passando per la Lollandia, terra emersa oltre la quale l’unica maniera per procedere era imbarcarsi su un traghetto perdendo un tempo stimato che si aggira attorno ai 40 minuti. Del tutto accettabile in determinate circostanze, ma non sempre, e d’altra parte inadeguato in un contesto in cui simili attraversamenti richiedono generalmente una mera frazione di quel prolungato periodo di flemmatica navigazione. Per cui fin dall’epoca della seconda guerra mondiale, durante l’occupazione tedesca della Danimarca, l’architetto Heinrich Bartmann aveva elaborato un piano ambizioso per unire le due terre mediante l’impiego di un ponte sospeso, poi passato in secondo piano per le problematiche di tutt’altra natura derivanti dalla conclusione del sanguinoso conflitto. Ciò detto, l’ipotesi continuò ad affascinare la gente di quel paese, fino a concretizzarsi verso l’inizio degli anni ’90 con la proposta molto concreta di quello che sarebbe diventato di gran lunga il ponte sospeso più lungo del mondo, con quattro pilastri ed oltre 20 Km di carreggiata sopra le acque ondose dello stretto. L’effettivo coronamento di parecchi anni di pianificazione, destinato tuttavia a naufragare ancor prima dell’inizio dei lavori, dopo uno studio di fattibilità capace d’evidenziare la maniera in cui i forti venti trasversali, tra le direzioni est ed ovest, avrebbero reso quell’avveniristico sentiero inaccessibile per una parte significativa dell’anno. Dal che, l’idea: perché non invitare gli aspiranti attraversatori, piuttosto, a procedere direttamente sotto il mare…

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La strada dove tutti frenano a Città del Messico ma l’incidente non può essere evitato

Ci sono luoghi, a questo mondo, in cui la prospettiva di una mera inquadratura con il cellulare può riuscire a trarre in inganno lo spettatore. Quando scorri i video di TikTok e vedi, tra le plurime proposte, la scena di una strada in cui ogni singola persona sembra camminare in modo bizzarro: stranamente rigidi ed eretti, le ginocchia che si piegano a malapena nonostante un visibile sforzo fisico e mentale. Le braccia tese lungo il corpo ed orientate in avanti, come se cercassero di mantenersi in equilibrio. Il ritorno da una festa particolarmente alcolica e animata? Oppure una giornata di vento forte che necessità di tecniche particolari, e tutta la loro attenzione, per non cadere rovinosamente all’indietro? Ma è soltanto quando nel riquadro del video compare un edificio, che le cose iniziano a diventare relativamente più chiare: le mura che si stagliano contro il chiarore di quel cielo, chiaramente inclinate ad un angolo di esattamente 45 gradi. Mentre la precisa ragione di tutto questo, a seguito di un breve intervallo di elucubrazione logica e analitica, potrà diventare maggiormente chiaro se soltanto s’inclina la testa da un lato. Per vedere il mondo non come è stato mostrato, ma nella maniera in cui effettivamente si presentava ai presenti, quando sottoposti alla cattura videografica dall’autore che abbiamo appena incontrato. Lo dice, questo è chiaro, anche un famoso proverbio internazionale: “Quando tutto il mondo sembra storto, è la strada sottostante divergere dalla linea di galleggiamento media degli oceani globali.” Essendo, in altri termini, visibilmente inclinata. Il che non toglie la maniera in cui l’avverbio “visibilmente” possa essere nient’altro che un eufemismo, dinnanzi all’esagerata pendenza di un tragitto come quello del Paso Florentino nel quartiere popolare intitolato al “sindaco Alvaro Obregon” possibilmente un omonimo, piuttosto che l’importante generale della Rivoluzione Messicana nel 1910, poi niente meno che il 46° presidente di quel paese. Dove non soltanto i pedoni, ma purtroppo anche le moto, automobili e furgoni tendono ad andare incontro ad un gramo destino. Quello di trovarsi impossibilitate a rallentare, mentre il mezzo di trasporto scivola direttamente o di lato verso il fondo della vallata o fino ad uno dei numerosi ostacoli a bordo strada, più comunemente definiti “case” o “edifici”. Quando non finiscono a ridosso o al di là del basso strapiombo, situato nel punto in cui è possibile cadere oltre i margini stradali dall’altezza di circa un metro e mezzo fin sull’impietoso asfalto della calle sottostante. Un’esperienza tanto comune e frequentemente ripetuta, anche più volte al giorno, da aver motivato l’installazione da parte degli abitanti locali di vistosi e resistenti dissuasori colonnari, più comunemente detti bollard, con la duplice finalità di proteggere le proprie mura e se stessi, ogni qual volta si compie l’avventuroso passo in avanti che porta a poggiare i propri piedi sulle scale ai margini stradali usate per far vece del marciapiede. Il che non permette ancora d’immaginare con piena efficienza, d’altra parte, quello che succede in questo luogo nel momento in cui, volendo il cielo, cominciasse a ricadere una pioggia insistente. Trasformando il paso nella fedele approssimazione di uno scivolo acquatico, in fondo al quale le lamiere contorte inizieranno prevedibilmente ad accumularsi…

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La rustica possenza del chukudu, scooter muscolare al servizio dell’economia del Congo

Chi ha mai detto, o anche soltanto pensato che ricostruire i crismi della società contemporanea sarebbe stato semplice, dopo il trascorrere di quel momento esiziale che segnerà la fine di ogni cosa? Dopo i conflitti armati, l’auto-annientamento, la catastrofe ambientale seguita da miseria e disordini civili per almeno due, quattro generazioni condannate a vivere di sforzi quotidiani e privazioni pressoché costanti. Così come sperimentato largamente dall’incolpevole popolazione di Goma, città di medie dimensioni sul confine orientale della Repubblica Democratica del Congo, la cui storia contemporanea è stata un susseguirsi di momenti poco conduttivi ai risvolti edificanti dell’esistenza: prima il genocidio rwandese nel 1994, seguito dalle due guerre del 1996 e 1998. Quindi lo sciame eruttivo del vulcano Nyiragongo nel 2002, sotto la cui ombra erano stati disegnati, molte generazioni fa, i confini di questo luogo idealmente ameno. Il che avrebbe lasciato, a seguito delle colate laviche, la pioggia di lapilli ed i sommovimenti tellurici, una rete infrastrutturale profondamente ed ampiamente danneggiata, compromettendo in modo significativo le potenzialità logistiche di questo demograficamente affollato e labirintico centro metropolitano dell’entroterra. Dalla più totale impossibilità di muoversi con biciclette convenzionali, semplicemente troppo fragili e leggere, al costo eccessivamente elevato di cui farsi carico per l’acquisto di veicoli dotati di sospensioni e pneumatici adeguati alle circostanze, ebbe origine una sorta di paralisi che pareva destinata a gravare sulla testa della popolazione, abbattendone l’economia e costringendo molti a ritornare a vivere nelle campagne circostanti. Mentre i membri più anziani delle famiglie cominciavano perciò a muoversi in tal senso, i loro figli e nipoti si fecero i fautori di un’approccio al tempo stesso innovativo e tradizionalista alla questione. Agevolando la trasformazione, relativamente graduale, di quella flotta spropositata di carriole e carretti usati per prolungare l’agonia logistica del loro luogo di nascita con qualcosa di già conosciuto, ma difficilmente operativo nelle quantità che stavano apparendo un giorno dopo l’altro lungo il tragitto serpeggiante di una simile rete disagiata: chu-ku-du era il suono che producevano ed anche il nome scelto per definirli, fin dai remoti anni ’70 in cui, si dice, furono inventati dal portoghese immigrato in Angola nella città di Uige, che ne aveva costruito il primo prototipo funzionale a tutti gli effetti. La risposta a una domanda che aleggiava sostanzialmente nell’aria di quell’epoca, su come avrebbero potuto i nativi africani provvedere alle necessità di trasporto delle merci e beni di un contesto sui confini della modernità, senza le flotte di furgoni ed altri mezzi di trasporto possedute dalla maggior parte dei paesi industrializzati. Quesito per rispondere al quale egli avrebbe posto assieme due piccole ruote di legno ad un asse orizzontale, sormontato da una forcella col manubrio simile alle corna di un toro. E l’aspetto complessivo vagamente riconducibile a quello di un monopattino sovradimensionato, benché fossero proprio le proporzioni a cambiarne radicalmente le potenzialità e doti funzionali inerenti. Così che, a quei tempi in quantità piuttosto limitata, aveva iniziato a girare per le strade comuni la nuova figura professionale del chukodista o chukodour, una sorta di ibrido tra facchino e tassista, il cui gesto maggiormente riconoscibile consisteva nel posizionare un ginocchio sull’apposito cuscino costituito da una pantofola di gomma fissata all’assale del mezzo, mentre l’altra gamba si occupava di spingere innanzi il suo veicolo a due ruote. Opportunamente ingombro, nella maggior parte dei casi, di una quantità di merci fino a un massimo di 800 Kg. Abbastanza per assecondare le necessità di un’economia moderna, priva di quei mezzi e strumenti che noi siamo abituati a dare largamente per acquisiti…

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