Scalatore della ciminiera abbandonata

Chimney Climb

Lassù con entusiasmo, verso altezze dove non arrivano neanche gli uccelli; perché poi dovrebbero? Su tante e tali cose, simili brutture. Flaviu Cernescu, giusto l’altro giorno, si è arrampicato su per tutti e 280 i metri della vecchia ciminiera di Pitesti Sud, senza attrezzatura di sicurezza, reti, vele, paracadute o altri strumenti di alcun tipo. Soltanto le sue mani, la voglia ed il pensiero, di esserci e rischiare la sua vita, sul secondo edificio più alto della Romania*. Perché si, c’è sempre un elemento d’incertezza, in simili pazzesche imprese, soprattutto quando l’oggetto della propria ebbrezza è tanto vecchio e derelitto, così prono a cedere o spezzarsi con orrende conseguenze. Guardiamola del resto, una tale sporca torre: se non oscilla nel vento, è solo perché altrimenti sarebbe già caduta. Uno strano controsenso. Il simbolo dell’operoso XX, alto e fiero come un dritto campanile delle antiche chiese, catene di montaggio per fedeli, senza più una fabbrica, una centrale, un opificio. Pare un po’ l’immagine surreale di un dipinto, in cui sia stato messo in evidenza un unico elemento, scelto molto attentamente e a discapito di tutti gli altri. E in effetti del complesso di edifici pre-esistenti, ormai, non resta quasi nulla: ruspe o bulldozer l’hanno demolito, quindi fatto a pezzettini e poi portato via. Resta giusto un vuoto capannone senza più pareti, attraverso cui soffia ululando l’impeto del vento. E poi, questa COSA qui, alta e stretta e oblunga e resistente, nonostante tutto. Perché chiaramente, tu ci hai mai provato? Demolire ciminiere non è facile. Tendono a cadere come fossero giganteggianti querce di cemento e ruvidi mattoni, proprio sulla testa di chi meno se lo aspetta quando all’improvviso, BAM!
La scalata viene descritta nei primi fotogrammi attraverso un testo in funereo bianco-su-nero, con frasi lapidarie che sarebbero anche la descrizione dell’architettonico residuo. Tra i 0 e i 20 metri, non restano appigli di metallo, ma oh! Che fortuna. C’è un cavo elettrico che penzola dimenticato, cui aggrapparsi per salire, come pompieri infervorati verso il salvataggio di un gattino. Tra i 21 e 55 inizia la scaletta, alquanto arrugginita, benché priva di struttura protettiva tutto attorno (perché siamo ancora bassi, giusto?) Nel segmento più lungo, 56-275, invece, tale ausilio è ancora integro e ben saldo. Per lunghissimi minuti, Cernescu sale senza esitazioni, lungo l’equivalente verticale di un tranquillo marciapiede cittadino; qualcuno con poca durata d’attenzione, nei commenti al video, si fa spavaldo: “Ah! Dov’é il pericolo? Troppi appigli per chiamarsi parkour” (Si, come no!) Finché giunto verso la cima, fin quasi a toccare il cielo con un dito, negli ultimi 5 metri, spariscono i presupposti delle critiche infondate. La scaletta non è assicurata al muro del camino e soltanto un folle, proverebbe a proseguire! Così lui l’afferra e compie l’ultimo azzardato sforzo, per…

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A 332 Km/h tra gli alberi e le case

Bruce Anstein Snaefell

6 giugno 2014: il sole sorge come tutti i giorni sopra l’isola minore del freddo Mar d’Irlanda. Ma sulle rocce di Ellan Vannin, antica dipendenza della Corona Britannica, nessuno siede ad aspettare l’alba. Le finestre sono chiuse. Le porte sbarrate. Rigidi edifici temporanei, simili ai gradoni di un anfiteatro, fiancheggiano le strette strade di campagna. Li hanno eretti in una notte, coltivando il seme della folla effervescente. Sono tutti lì, gli abitanti, pronti al via! È proprio questa, infatti, la data in cui tiene l’annuale Tourist Trophy, la gara che ricopre d’adrenalina fulgida e di fiamme l’intero percorso ripido della Mountain Road, anche detta Snaefell, comunemente nota come: pista dell’Isola di Man. Che non è una “pista”, ovviamente, bensì l’incubo degli addetti alla sicurezza provenienti da ogni angolo del mondo. Il terrore di parenti e genitori. Il sottile bracciale d’asfalto serpeggiante, lungo 60 Km e con 206 curve, ciascuna dedicata alla vicenda di un pilota, che lì avrebbe vissuto un attimo fatale. Un magico sorpasso, oppure un tragico incidente; qualche volta, purtroppo, la fine stessa della vita: le cronache parlano, tra il 1907 ed 2009, di un totale di 241 morti, fra le curve e le cunette di un simile sentiero della perdizione. E della Gloria, al tempo stesso.
Qualche giorno fa un utente di YouTube, senza autorizzazione, aveva caricato il video completo del giro record effettuato dal neozelandese Bruce “Almighty” Anstey, ripreso tramite l’impiego della telecamera di bordo (sarà stata una GoPro?) Per poi ritrovarsi (giustamente) bloccato dai legittimi detentori dei diritti, i titolari del canale ufficiale della gara – ecco, dunque, uno spezzone di presentazione lungo due minuti, propedeutico all’acquisto dell’intera sequenza, per l’irrisorio costo di due dollari e 99. Diciamo la verità: per noi neofiti, pure questo assaggio può bastare. Nei due minuti di sequenza possiamo osservare il 44enne, a bordo della sua Honda CBR1000RR, mentre demolisce il precedente primato di velocità assoluta presso il rettilineo di Sulby, con un picco di 332 Km/h, per poi procedere in quello che sarebbe stato il giro con velocità media più lungo nella storia del Gran Premio: 212.913km/h. Un successivo errore su una curva, tuttavia, gli avrebbe precluso la vittoria nella gara, che si è aggiudicato invece l’irlandese 25enne Michael Dunlop, già detentore di altre 10 precedenti, nonché nipote del più celebrato pilota del TT: Joey Dunlop (1952-2000, 26 vittorie in totale).
La sensazione di velocità che restituisce questo video è qualcosa di assolutamente…Inimmaginabile. Piccoli dettagli all’orizzonte, nel giro di due secondi, spariscono ai margini dell’inquadratura, già gettati oltre, superati come ostacoli di poco conto. Ci si immedesima, alla fine. L’eroe corre verso l’orizzonte, liberandoci, per qualche attimo, dalla percezione della nostra stessa vulnerabilità.

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Due incontri ravvicinati tra GoPro e granchi

Granchio GoPro

Sono da ogni parte, per mari, per valli, monti e sotto terra: gli artropodi e le telecamerine digitali. Con presa salda, occhi attenti e gusci duri, quelle se ne stanno fermamente assicurate sopra i caschi. Cirripedi dell’epoca moderna. Dall’altra parte della barricata loro, che siano insetti, aracnidi o molluschi, privi di presa USB o connessioni senza fili, tralasciano di registrare l’occorrenza degli eventi. Vivono zelanti, alla giornata, in cerca della preda quotidiana, mentre rapidissimi camminano tra le alghe dei fondali. “Sarà meglio accontentarli.” Avrà pensato Scott Murray, australiano, prima di calare la sua trappola per granchi. Certi video diventano virali nel giro di una mezza giornata o poco più. A guardarli, si capisce presto la ragione. Quanta vita, sotto a un tale mare…
La pesca del Portunus pelagicus, granchio nuotatore, è una questione molto seria. Nell’Oceano Pacifico, in quello Indiano, anche tra le acque più orientali del nostro prossimo Mediterraneo, il suo accattivante color blu è associato alle cucine di moltissime culture. Granchio fiore, lo chiamano nelle Filippine, oppure alimasag, e lo cuociono sauté, con aglio, latte di cocco e del gustoso zenzero. Nei paesi occidentali, invece, tale specialità marina si assapora con il semplice pomodoro, o ancor meglio grazie al gusto piccantissimo dei peperoncini jalapeno. Prenderne uno non è difficile, se si dispone della giusta esca. Non solo il proprietario del video ha ben pensato di metterci la telecamera, nella sua rete, ma pure un trancio ittico davvero molto ghiotto. Quasi troppo. E nel giro di pochi secondi, guarda caso, l’ambiente si satura di un branco di graziosi pesciolini a righe, possibilmente della specie striped dottybacks (Pseudochromis sankeyi), che fanno a gara per accaparrarsi il cibo, senza considerazioni per il rischio dell’ambiente circostante. Poi passa, con  la rapidità di un missile teleguidato, pure un’imponente razza. Ma che esca, questa è pura ambrosia! Il granchio in questione, dalle caratteristiche zampe posteriori piatte, simili a dei remi, si avvicina infine di soppiatto, muovendosi agilmente. Verrà preso, questo è ovvio, nella trappola dell’uomo. Ciononostante, alla fine forse gli andrà bene. Si tratta infatti di un piccolo esemplare, probabilmente destinato a ritornare in mare. O in padella, chi lo sa. Anche per stavolta, impassibile GoPro, non sarai la testimone di un terribile finale.

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GoPro Kung-fu: lo scontro in soggettiva

GoPro Fight

Nutrendo il proprio lato combattivo degli exploit di Bruce Lee, Jackie Chan, Tony Jaa e Chuck Norris ci si dimentica prima o poi del sublime dinamismo e dell’adrenalina insite nel trovarci noi, in prima persona, oggetto della furia di un avversario esperto nella lotta a mani nude. Fortunatamente, in futuro, l’industria cinematografica potrà riprendere l’idea di Joey e Christian (artschooldropouts) assicurando sulla testa dei suoi protagonisti l’equivalente di una semplice videocamera digitale GoPro. Per fornirci, qualche volta, un repertorio immaginifico più visualmente coinvolgente.
Praticare la via del kung-fu significa comprendere intellettualmente il significato più profondo del combattimento, sferrare pugni con il cuore e con la mente. Intercettare, oscillare, sentire, premere, toccare e tagliare a fette (qie 切) non tanto un avversario in senso prettamente tangibile ma la sua più segreta essenza, l’invisibile, fluido Qi

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