“Carica!” Grida il collega ranger, mentre con senso d’urgenza stranamente intensa sollevo il grande proiettile dal bossolo metallico con entrambe le mani, raddrizzo la schiena e lo inserisco nell’apposito alloggiamento all’altro capo della bocca da fuoco. Con un’espressione concentrata, appoggio allora le mani al lato interno dell’alloggiamento dell’equipaggio all’interno della posizione tra le meno comode sul campo di battaglia: l’angusta torretta di un M60 Patton, pronto all’azione. “Carico!” Grido quindi e lui sembra rispondere con la prima sillaba della parola “Fuoco!” Ma non prima che un roboante suono scuota il profondo stesso del mio essere, accompagnato dalla vibrazione che pare coinvolgere l’universo e tutto quello che contiene. “Al termine di questa lunga giornata, faremo in modo che l’abbia capito. E se non l’avrà capito, torneremo domani. Carica!”
“Lei” è l’alto dirupo noto al grande pubblico come Montagna del Cowboy, ovviamente, che si staglia candida dinnanzi al punto di passaggio strategico dello stato di Washington per la città di Seattle, a sua volta chiamato Stevens Pass. Ma pura follia sarebbe scegliere di fidarsi del suo aspetto tranquillo e stolido, del tutto privo di alcun principio di minaccia immanente, come avrebbero potuto certamente testimoniare i nostri àvi al principio del secolo passato. Quando in un fatidico febbraio del 1910, senza nessun tipo di preavviso, una gigantesca valanga ebbe modo di sfiorare per pochi metri la struttura gremita dell’hotel sciistico Bailets, per colpire il deposito ferroviario sottostante. Nei cui treni, sfortunatamente, si trovava un grande numero di passeggeri addormentati, in attesa di continuare il proprio viaggio con le prime luci dell’alba, molti dei quali persero la vita. 96 vittime per essere precisi, nel disastro nevoso maggiormente significativo nell’intera storia della Nazione. Così che in quel giorno s’incrinò in maniera significativa il rapporto di fiducia tra uomo e natura, portando allo sviluppo di una situazione che, nel giro di poche generazioni, avrebbe condotto ad una guerra vera, senza più alcun tipo d’esclusione di colpi.
Diversi paesi montagnosi e soggetti al verificarsi periodico di un candido inverno, nei decenni immediatamente successivi alla grande guerra, stavano conducendo esperimenti in merito alla maniera migliore per gestire le valanghe, spesso anticipandone il verificarsi affinché nessuno fosse presente per riceverne l’impatto significativo, totalmente avverso alla continuazione della vita umana. Negli Stati Uniti in particolare, tuttavia, questo discorso non avrebbe avuto inizio prima dell’assunzione, da parte del Servizio Forestale, della figura professionale di Douglass Wadsworth nel 1939, il primo uomo destinato a ricevere la qualifica, e i doveri professionali, dell’innovativa qualifica di snow ranger. Istituendo il primo tipo di processo bellico per il controllo preventivo delle montagne. I primi esperimenti ebbero luogo presso l’area sciistica di Alta, tra le montagne Wasatch dello stato dello Utah, dove lavorando assieme ai suoi colleghi l’importante pioniere istituì una serie di regole per gli escursionisti, affinché questi fossero pronti a riconoscere il pericolo imminente di valanghe, tenendosi alla larga. Non contento di questo, tuttavia, si armò anche di una certa quantità di dinamite, per posizionarla e farla esplodere nei punti strategici dell’accumulo nevoso immanente. Ciononostante, provocarne intenzionalmente il sommovimento si rilevò non soltanto un’attività più difficile del prevista, ma anche potenzialmente pericolosa quando poche ore dopo che il suo team aveva lasciato un sito giudicato a rischio, l’intero fianco roccioso si scrollò di dosso il manto bianco, con un episodio che avrebbe potuto facilmente costare la vita di ogni singola personalità coinvolta. Fu chiaro pressoché immediatamente, a quel punto, che una soluzione migliore doveva essere trovata e implementata al più presto. E caso volle che proprio dal vortice terrificante della storia, sarebbe giunto un nuovo tipo di suggerimento utile allo scopo. Quando proprio l’anno successivo, sarebbe scoppiata la seconda guerra mondiale.
cannoni
Ultima frontiera della guerra corazzata: un WC russo dentro il carro del domani
Con un sibilo imprevisto, il sistema d’intercettazione reattivo Afghanit scatena l’inferno. Il proiettile nemico, rallentato sensibilmente, impatta contro l’armatura del T-14 Armata con traiettoria diagonale. Colpi, scosse tremebonde, il rombo senza sosta del motore. Un tocco delicato sul sistema di controllo d’armi, in grado di ruotare l’armamento in direzione del nemico. “Fuoco” grida il comandante; ma voi sapete, molto bene, che la situazione sta per prendere una piega totalmente differente. Avete mai provato il senso di quel brivido freddo che vi percorre la schiena? L’orripilante consapevolezza, poco dopo che lo scritto è cominciato, di come avreste fatto meglio dopo tutto ad andare al bagno, piuttosto che ripassare per l’ultima volta gli argomenti dell’esame. Seguìto da quel senso di condanna ineluttabile, l’inesprimibile terrore, di chi sa che non potrà recarvisi per oltre un’ora. Fretta. Sudore. Agitazione. Ebbene ciò è una parte, prima o poi, profondamente inevitabile dell’esperienza umana. Poiché meri esseri viventi siamo, ed in quanto tali, concepiti per sopravvivere grazie a un ciclo che non al 100% regolare. Ma vi sono attimi, drammatici momenti, in cui la società ci vieta d’espletarlo; ed uno di essi, come ben sappiamo, è pericoloso il fronte di battaglia organizzato tra due contrapposti schieramenti di veicoli da guerra: carri armati. Cari amati, oggetti fatti al fine di annientare ciò che si trova all’esterno, ma che talvolta possono finire per fiaccare anche lo spirito dei loro passeggeri. Poiché un soldato, per quanto abile e disciplinato, resta fatto della stessa carne e sangue, e tutti gli altri materiali, che caratterizzano la nostra forma fisica di questa Terra. E questo include, chiaramente, la copiosa risultanza dell’imprescindibile escrezione. Se hai mangiato, devi farlo, se hai bevuto non potrai resistergli. E talvolta, tanto basta a far la differenza nel momento della verità.
Nessun problema! L’UralVagonZavod (Bureau di Progettazione d’Armi degli Urali) ha pensato veramente ad ogni cosa e tale ogni, come largamente trattato negli ultimi giorni dai siti d’argomento tecnologico di questo mondo, non prescinde l’inclusione all’interno del nuovo progetto di carro armato russo, dal costo unitario di 3,7 milioni di dollari ed un peso di 48 tonnellate, un gabinetto “dotato di sciacquone” perennemente disponibile a vantaggio dell’equipaggio di comandante, pilota e cannoniere. Si tratta, in parole povere, del primo carro armato della storia a presentare un tale accorgimento, che oltre a colpire chiaramente la fantasia popolare potrebbe a conti fatti riuscire a far la differenza tra la vita e la morte. Poiché tra tutti i membri della guerra meccanizzata, probabilmente non ve ne sono altri costretti a passare un maggior numero di ore dentro ad una scatola impenetrabile quanto i carristi, pena il rischio di trovarsi pericolosamente esposti nel momento in cui, infine, il nemico dovesse presentarsi all’orizzonte. Ed il bisogno di condurre a greve compimento il ciclo del proprio processo energetico mitocondriale, nella maggior parte delle situazioni, non può che rivestire un ruolo di primo piano a margine di tutto questo. Ora come d’altra parte avremmo potuto facilmente prevedere, tali aspetti chiave della nuova piattaforma d’armi russa restano largamente protetti dal segreto militare, benché sia possibile ipotizzare la presenza a bordo dello stesso tipo di gabinetti normalmente utilizzati negli RV (camper e roulotte) coadiuvato da un serbatoio chimico posizionato in una zona protetta dell’involucro impenetrabile del carro armato. Questo in considerazione, largamente discussa negli ultimi anni, di come il T-14 Armata possa in effetti giungere a costituire uno dei mezzi più previdenti e “sicuri” dell’interno campo di battaglia contemporaneo, quando finalmente entrerà in servizio in un qualche momento imprecisato dell’incipiente anno 2020…
Il triste fato del castello più inutile degli Stati Uniti
Fucili spianati, picche acuminate, tizzoni ardenti. Quale, tra i due popoli non propriamente nativi che occupano i più vasti territori del continente nordamericano sareste maggiormente inclini ad associare a simili implementi di guerra? Ebbene, se aveste rivolto una simile domanda a James Madison, rifugiatosi nel villaggio di Brookeville dopo la sconfitta delle sue truppe a Bladensburg nel 1814, egli non avrebbe esitato neanche l’alito di un singolo istante: “Quello a cui appartengono le truppe che, sotto la guida di un feroce generale, stanno facendo del loro meglio per radere al suolo Washington e la stessa Casa Bianca.” Già perché erano in molti a dimenticare, persino allora, come il Canada facesse ancora parte ufficialmente dei possedimenti di re Giorgio III del Regno Unito, e in funzione di ciò, presidiato da soldati inglesi, cannoni inglesi e i fedeli benché naturalizzati militi profondamente avversi alla rivolta più eclatante nella storia del colonialismo europeo. Caso volle che la notte di quel fatidico 24 agosto, ad ogni modo, una tempesta estiva imprevista avrebbe scatenato ettoliti infiniti sulla città messa a ferro e fuoco, spegnendo gli incendi e calmando gli animi col flusso purificatore dei rovesci. Così mentre l’acqua ancora scorreva assieme alle copiose lacrime, l’uomo più potente del suo paese si prese la briga di formulare un giuramento: “Mai più, mai più dovrà succedere qualcosa di simile!”
Ci sarebbe stato, dopo tutto, un seguito: la famosa battaglia del lago Chaplain, vero e proprio portale d’accesso verso il fiume Hudson e attraverso quello, il cuore stesso della nazione, combattuta soltanto due settimane dopo, nel corso di quel grave conflitto destinato a passare alla storia come “guerra del 1812” e considerato dal punto di vista europeo come un mero teatro secondario delle guerre napoleoniche. E sebbene gli americani avrebbero, almeno in quel caso, conseguito il loro trionfo ed ottenuto il favorevole trattato di Ghent, loro massima preoccupazione fu assicurarsi che i nuovi possedimenti stessero al sicuro da eventuali eventi di una comparabile gravità. Ragion per cui, il presidente giunto quasi al termine del suo mandato nel 1817 diede l’ordine che lì venisse costruito un forte inespugnabile, dotato delle ultime tecnologie e soluzioni difensive. Ad occuparsi della sua messa in opera sarebbe stato niente meno che Joseph Totten, uno dei pochi genieri militari ad aver raggiunto il rango informale di eroe della Repubblica, grazie al successo conseguito dalle sue fortificazioni proprio durante i recenti conflitti con il Canada inglese, mentre il nome attribuito all’edificio avrebbe dovuto richiamarsi a niente meno che Richard Montgomery, il fiero generale di origini irlandesi in grado di dare inizio, quasi 60 anni prima, al difficile progetto di espugnare e conquistare l’intero Canada, soltanto per perire coraggiosamente nel corso dell’assedio di Québec City assieme al sogno di una così remota idea. Ma il possente forte dalla pianta a stella sarebbe stato destinato a passare alla storia con un diverso e ben meno lusinghiero nome: “Forte Cantonata”, principalmente per il fatto che, come si scoprì soltanto troppo tardi, l’isola artificiale sopra cui sarebbe sorto era stata costruita, per un “piccolo” errore, al di sopra del 45° parallelo. Il che ne faceva, per tutte le leggi ed i trattati vigenti, un possedimento legittimo del Canada e dei suoi soldati. Il cantiere venne dunque abbandonato immediatamente, mentre l’amministrazione dei presidenti successivi a Madison fece la promessa implicita di non parlarne mai più. Ma la storia, si sa bene, è una creatura fluida e imprevedibile, ragion per cui trent’anni dopo, alla stipula del nuovo trattato di Webster–Ashburton del 1842 grazie alle argute manovre diplomatiche di John Tyler, decima persona a ricoprire quell’ambita carica, la parte settentrionale del lago Chaplain sarebbe ritornata sotto il controllo americano. E con essa, l’isola costruita come unico bastione nella parte settentrionale di quel territorio vasto e incontaminato. Al che venne deciso che il mai dimenticato Montgomery avrebbe ricevuto, finalmente, il suo castello. E così fu.
Siamo salvi! Lo sceriffo è la molletta più veloce del Colorado
Oggi giorno, l’intera questione potrebbe apparire piuttosto obsoleta. Bambini che corrono sulle proprie fisiche gambe (non premendo semplicemente il pulsante SHIFT della tastiera) e si nascondono dietro effettive fronde del tipo vegetale, tendendosi agguati a vicenda mentre emettono suoni che variano tra lo “Yippee ki-yay!” E il “Bang, bang, ti ho preso!” Tanto che qualcuno potrebbe giungere a sospettare, addirittura, l’influenza di un vecchio film andato in onda in orari pomeridiani, magari consigliato dal nonno o uno zio in avanti con gli anni.
Già, il Far West: perché sono trascorsi un tempo e un’epoca, ormai più che mai remoti, in cui il tipo di fantasticherie immaginifiche utilizzate per catturare l’attenzione dei giovanissimi ormai ruotava attorno a un effettivo periodo storico, alle soglie del 1800, in cui lo sforzo di colonizzare i vasti territori del Nord America si era trasformato da impegno transnazionale in impresa più o meno collettiva di tipo privato. E in assenza di una struttura valida a far rispettare la legge, si viveva o moriva in base alla tacca per mirare piazzata sopra la canna della propria pistola. Hopalong Cassidy, il Ranger Solitario, Matt Dillon, Roy Rogers, Tonto… Tutti nomi di eroi “buoni” o in qualche maniera portatori di un messaggio positivo, per cui scagliare proiettili all’indirizzo dei banditi (e qualche volta, gli indiani) era più che altro un modo per difendere e assistere la gente comune. Ma con l’evolversi degli schemi di ragionamento e le ambizioni registiche degli anni successivi alla guerra, il tipo di tematiche affrontate da questo genere non poté che cambiare drasticamente. Attraverso un processo che potremmo arbitrariamente riassumere nella frase del film Per un pugno di dollari (Bob Robertson, 1964) “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, quello con la pistola è un uomo morto” pronunciata dal pistolero ispirato al samurai Yojimbo di Akira Kurosawa, prima di sfoderare il suo fido Winchester e sgominare la banda nemica. Niente arresti né seconde possibilità. Soltanto un trionfo crudo e risolutivo ai danni di coloro che si trovavano nel posto sbagliato, per le ragioni e con un obiettivo sbagliato.
Ma sapete cos’è ancor più letale di un’arma da fuoco dotata di canna lunga? Quella che fosse, ipoteticamente, dotata di una coppia di esse, rigorosamente affiancate o sovrapposte, nella configurazione nota in lingua italiana come “doppietta”. Ed ecco dunque che giunti alla resa dei conti della ricreazione, il capo della compagine del cortile balza fuori dal nascondiglio, certo di poter annientare gli ultimi componenti dello schieramento nemico. Il bandito Joe, con la pistola ad avancarica sparatrice di frammenti di patata (in inglese, spud gun) e la sua assistente nella rapina in banca, Terry la rossa con cerbottana e una bandoliera di cartoccetti crudelmente inumiditi di saliva. Con espressione ferma e determinata, la stella di latta a riflettere il sole del pomeriggio d’inverno, divaricò le gambe ed alzò il fido canna-liscia fabbricato con la migliore molletta sottratta al capanno del bucato. sapeva fin troppo bene che non avrebbe avuto una TERZA possibilità!