Il bruco che squittisce quando disturbato

Usutabiga

Il grido d’imbarazzo della giovane larva di Rhodinia fugax, la falena pelosa del Giappone, risuona del pathos dell’effimero e del senso dell’impermanenza di ogni cosa. Lei era lì, sul suo ramo, quando quella grezza mano umana si stringeva, con presunzione, sul suo splendido didietro. Un altro tipo di bruco, al suo posto, si sarebbe vendicato con propaggini pilifere urticanti. Non lei. Sottoposta alla molestia delle virginali e candide pudenda, come da prerogativa della sua disarmata specie, si è invece limitata a strofinare le mandibole d’insetto tra di loro, producendo un suono non dissimile da quello di un giocattolo per cani, quando masticato. Facile riesce immaginare quanti gufi affamati, cornacchie avide, batraci famelici e altri esseri carnivori, sottoposti a un tale suono tremebondo, siano scappati, nei secoli, letteralmente a due centimetri, oppure quattro di distanza. Probabilmente, nessuno. Gustando l’agognato pasto, al massimo, si saranno chiesti come mai quel bruco, in particolare, squittisse come un topo. Talvolta, ed è questo il caso, gli strumenti di difesa evolutiva finiscono per trasformarsi in semplice prerogativa ornamentale. La Natura funziona come una corsa agli armamenti. Mossa e contromossa, preda e predatore, lascia che ciascuno sviluppi gli strumenti adatti a prosperare, a discapito di altri. E il suono emesso da quel bruco, dal punto di vista della sopravvivenza, oggi ci pare così fine a se stesso. Se non per un fatto, in particolare: quello di renderlo assolutamente adorabile. Tutto considerato, niente affatto un brutto affare! Negli stretti di Shimonoseki c’è una tipologia di granchi, gli heikegani, che secondo una leggenda sarebbero la reincarnazione dei samurai sconfitti di un antico clan. Sul loro ventre, a guardarli, si può scorgere l’immagine di un volto. Si dice che quelli che ne hanno uno più marcato, vivido e somigliante, vengano risparmiati dai pescatori, come forma di rispetto per la Storia. Nell’epoca moderna, affascinare gli uomini può bastare per giungere, tutti interi, al giorno dell’accoppiamento.

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Quella deliziosa cimice assassina

Toe Biter

La più terribile creatura dello stagno non è il rospo cornuto, la ranatra lineare, neppure il ragno palombaro. Nero come la notte, lungo come un pennarello e più fragrante di un gatto passato a miglior vita, quel predatore giace immobile semi-sepolto fra le alghe, in attesa di essere apprezzato. Può raggiungere i 12 cm. Gli americani lo chiamano toe-biter (mordi-dita) o ammazza-girini, con chiari riferimenti al suo pacifico contegno, mentre nel Sud Est Asiatico tutti lo usano per dare un particolare sapore ad alcune delle loro zuppe, quelle vietnamite dette di cà cuống. In India, dal canto loro, questa splendida bestia l’incontrano di tanto in tanto, giusto abbastanza perché non sia particolarmente conosciuta. Come quella volta in cui una guardia di sicurezza della scuola, interpellata in merito allo strano insetto, aveva garantito alla youtuber aniow che poteva anche prenderlo e portarlo via con se, senza particolari pericoli o preoccupazioni: “Tanto neanche può volare!” Vatti a fidare dell’entomologo di turno. Ci sono insetti che, come parte delle loro difese evolutive, hanno sviluppato segni di pericolo incipiente, ovvero livree colorate che scoraggiano altamente la manipolazione. Nessuno metterebbe una vespa fra tre pennarelli, considerandosi al sicuro. Altre creature, ad esempio i ragni, hanno semplicemente una pessima reputazione. Chiunque abbia frequentato gruppi di discussione, forum o imageboard statunitensi avrà notato l’istintiva e diffusa fobia per gli aracnidi, quasi incomprensibile per noi europei, geograficamente lontani dalle specie piú maligne o micidiali. Il morso corrosivo del ragno violino, molto comune in Arizona, non te lo scordi tanto presto. Questa cimice, invece, devi averla approfondita. Poteva sembrare un grosso scarafaggio stravagante, placido e a suo modo delizioso. Quanto è facile sbagliarsi! E con che conseguenze….

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La sfilata danzante dei pidocchi mordilibri

Psocoptera

Prendersi le pulci è sempre un’ottima esperienza, per le pulci. Decisamente meno piacevole risulta esserlo dall’altro punto vista, quello dei sanguigni fornitori di materia di scambio utile per l’operazione, i nostri cari cani, i gradevoli gatti, gli ubbidienti topi e noi stessi, i sempre incolpevoli esseri umani. Se fin dalle nebbie di epoche remote lo schema naturale delle cose ha previsto l’esistenza di esseri parassiti, risucchiatori dell’altrui linfa vitale, non per questo dobbiamo farne ragione di pubblica esultanza. Nessuno manifesta per le strade il proprio apprezzamento per le fameliche zanzare, per il cuculo che getta uova meno fortunate fuori dal nido, per la vespa che introduce, abusivamente, larve dentro al formicaio preannunciando un cataclisma. E affiliato a tutti questi spietati malandrini, almeno dal nostro punto di vista, potrebbe dirsi la psocoptera, l’insetto mordilibri. Ce ne sono parecchie varianti, così tante che gli esemplari relativamente simili, considerati come appartenenti alla stessa specie, possono avere o meno le ali, presentarsi con un torace di forma variabile ed essere ricoperti, oppure no, di una fitta peluria microscopica. Lo stile di vita da loro scelto, comunque, li suddivide in due brigate ben distinte: quella domestica, dei mordilibri propriamente detti, e la controparte arboricola, semiselvaggia. La scelta linguistica per definirli, diversa fra l’Italia e gli Stati Uniti, dove per antonomasia sono tutti chiamati tree cattle (mandrie degli alberi) rispecchia la maggiore presenza dell’uno piuttosto che dell’altro gruppo, qualora si prenda in analisi ciascuna delle due regioni. La motivazione per un tale appellativo è presto detta: il video soprastante dimostra il comportamento difensivo di un piccolo gruppo di questi artropodi sopraffini, sorpresi mediante l’uso di una luce artificiale, mentre furtivamente percorrevano il muro di una casa. Forse cercavano nuove fonti di cibo. L’effetto visuale è sorprendente. Con fare ritmico e scattoso, l’improvvisata squadriglia disegna forme battagliere, cercando in qualche modo d’intimorire l’avversario. Sembrano subito uno stormo d’uccelli, oppure un gruppo di piccoli pesci, cui siano magicamente spuntante tre pratiche paia di zampe. Perché lo fanno è chiaro; come, decisamente meno. Ed è forse proprio per questo che la scena risulta tanto accattivante.

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Millepiedi non bastano per arrivare prima

Millipede

Neanche l’artropode miriapode più grande al mondo può sottrarsi alle regole del codice della strada, specie qualora debba confrontarsi con delle dispotiche formiche legionarie. La scena si svolge nel parco nazionale di Bui, nel Ghana meridionale. Archispirostreptus gigasanche detto il millepiedi gigante africano, quella mattina si era svegliato con un proposito importante. Andare verso una specifica direzione, per un tempo indefinito, verso mete vagabonde. Difficilmente questo essere, che può raggiungere la ragguardevole lunghezza di 38 cm e i 7 anni di età, pensa profondamente a qualche cosa. Già le sue 256 zampe, di un numero equivalente ai colori grafici di un vetusto standard VGA, occupano la parte principale della preziosa materia cerebrale nascosta nel suo capo corazzato. Lentamente, tastando il suolo con le antenne, si volge verso sera. Una volta pronto, zampettando se ne va. Gira intorno ai tronchi degli alberi, in cerca del materiale putrescente di cui si abitualmente ama nutrirsi. Serpeggiando evita le pozze e i pochi torrenti delle regioni sub-sahariane, in cerca di un pascolo gradevolmente ombroso. Se incontra un predatore più grande di lui si chiude a spirale, lasciando scoperte unicamente le rigide placche dorsali, simili all’armatura a scaglie di un cavaliere medievale. Vive nella più totale serenità di un singolo momento, sapendo che in caso d’emergenza può anche secernere un fluido speciale, urticante per gli occhi e il muso degli eventuali mammiferi affamati. Tra l’altro non ha nemmeno un buon sapore. Tutti lo ignorano. E lui degli altri, non se ne cura. Finché, distrattamente, non giunge a contato con la sua perfetta antitesi: un formicaio, comunità brulicante fondata sul senso pratico e la determinazione. E li, beh, sarebbe servito l’aiuto di un semaforo.

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