Il gufo che sottrae i salmoni all’orso siberiano

Quanto può essere maestoso un rapace? Quanto grande o impressionante? Di certo avrete chiara la presenza delle aquile, possenti cacciatori delle rupi e delle steppe senza limiti apparenti. O la grazia e l’agilità del falco, l’animale più veloce del pianeta Terra. Mentre un gufo, invece, è differente. Ricoperto da un folto mantello di piume, che lo rende simile a una maschera teatrale, con le sopracciglia folte ai lati della testa, tese come antenne di una cavalletta predatrice. A tutti piace ricordare il “più grande” di ogni possibile categoria biologica: il mammifero, il felino, il pachiderma… Eppure, sono pronto a scommettere che questo non lo conoscete: Bubo blakistoni, il più notevole dei gufi pescatori. Sommo rappresentante di un gruppo composto da appena quattro specie asiatiche, un tempo classificate in uno speciale ramo dell’albero della vita, il genus Ketupa. E poi spostate, con un occhio alla semplificazione, nello stesso gruppo degli strigidi cornuti o gufi-aquila, diffusi nell’intero territorio del cosiddetto Vecchio Mondo. Ma che fanno una vita sensibilmente differente, soprattutto in funzione del gelo quasi artico delle loro regioni di appartenenza: tutto l’Estremo Oriente Russo inclusa parte della Siberia, le isole Kurili e poi l’Hokkaido giapponese, dove venne per la prima volta osservato scientificamente dal naturalista inglese che gli avrebbe dato il nome, il grande viaggiatore Thomas Blakiston, nel 1883 ad Hakodate. Come avviene per gli altri volatili, ci sono tre modi convenzionali per determinare quale sia il più imponente rappresentante di una famiglia: la lunghezza, l’apertura alare ed il peso… E se in base al primo di questi criteri, il chiaro vincitore è il grande gufo grigio (Strix nebulosa) diffuso nell’intero emisfero settentrionale, è nel secondo e il terzo che il suo cugino siberiano esce chiaramente vincitore, con i maschi che oscillano tra i 2.95 e i 3,6 Kg, mentre le femmine raggiungono gli impressionanti 4,6 Kg con 190 cm da un’estremità all’altra delle ali. Il gufo di Blakiston misura inoltre fino ai 72 cm d’altezza. Abbastanza da essere scambiato, nell’oscurità della notte, per una lince, o altre creature potenzialmente pericolose per l’uomo. Soprattutto per il molto tempo che passa, per inesplicabili ragioni evolutive, camminando semplicemente a terra. Il che ha portato, in passato, all’uccisione immotivata di più di un esemplare, senza contare quelli a cui veniva sparato per la superstizione diffusa in ampie aree geografiche, secondo cui il gufo sarebbe una creatura portatrice di sventura. Finché non si è scoperto, grazie alle moderne osservazioni ecologiche, che la presenza di questo uccello è un chiaro segno dello stato naturale di una riserva, della sua ricchezza faunistica e della salute dei corsi d’acqua. Dipendendo per la sua prosperità, inoltre, dagli stessi parametri di altri animali ben più amati dalle telecamere, come la sempre benvoluta (incidenti a parte) tigre di Amur (Panthera tigris altaica). Per non parlare dell’innata bellezza di un simile cacciatore piumato…
Dal punto di vista della forma, il Blakiston è il più simile tra i gufi pescatori ai nostri rappresentanti del genere Bubo europei, con un becco relativamente lungo, il corpo tozzo e gli artigli enormi, che tuttavia impiega, di preferenza, per catturare il pesce nei fiumi. Ed è un vero maestro nel farlo, arrivando ad agguantare prede pesanti anche il doppio di lui, che successivamente trascina a riva aggrappandosi a una roccia o un tronco, passare quindi al suo pasto silenzioso nell’oscurità notturna. Le sue prede preferite includono perciformi, pesci gatto, burbot, trote, salmoni e varie specie di gamberi. Ma non disdegnano neppure piccoli mammiferi, soprattutto nell’area giapponese settentrionale, dove alcuni corsi o specchi d’acqua diventano inaccessibili per le grandi quantità di ghiaccio e neve, spostando la loro attenzione sulle martore e varie specie di piccoli roditori. Qualora se ne presentasse l’occasione, il Blakiston è sempre pronto a catturare altri animali volanti, tra i cui il pipistrello, varie tipologie di anatre e persino, si ritiene, l’airone dalla cresta nera, un uccello che raggiunge i 64 cm di lunghezza. In particolari aree, invece, il gufo si nutre quasi esclusivamente di rane, per le quali diventa un importante fattore di controllo della popolazione. La vista di uno di questi rapaci in caccia è particolarmente memorabile, con i grandi occhi scrutatori che giacciono immobili sopra un ramo per lunghi minuti e persino ore, prima che un benché minimo movimento, captato dalle orecchie eccezionalmente acute e triangolato con lo sguardo, porti il vendicatore al suo formidabile balzo tra i flutti del fiumiciattolo boschivo. Per poi fuoriuscire, finalmente, come estatico vincitore. Non è difficile immaginare i sentimenti del primo esploratore…

Leggi tutto

La lunga notte del pappagallo vampiro

Ciascuna nazione tende a rappresentare sulle proprie banconote ciò di cui va maggiormente fiera, ed allo stesso modo in cui le lire facevano sfoggio dei ritratti di alcuni dei maggiori scienziati ed artisti italiani, così come l’euro mostra monumenti e punti di riferimento dell’Unione, il quarto paese per grandezza nel continente d’Oceania ha sempre avuto la tendenza a far figurare sopra i soldi i suoi animali più famosi. Tra cui l’imponente pappagallo kea (Nestor mirabilis, fino a 50 cm di lunghezza) che aveva figurato sul retro del biglietto da 10$ per l’intero periodo tra il 1967 e il 1992, come fulgido simbolo della Nuova Zelanda.  Strigopide decisamente insolito, perché vive preferibilmente sulla neve, unico nella sua famiglia. Giocherellone, curioso e qualche volta un po’ troppo espansivo, al punto da guadagnarsi l’appellativo prototipico di “cheeky” (sfacciato) essendo in grado di allietare ed infastidire da oltre un secolo i turisti che vengono per sciare ad Arthur’s Pass, presso le Alpi Meridionali dell’Isola del Sud. “Perché?” Potreste a questo punto chiedervi “Che cosa aveva fatto il poverino per meritarsi di essere sostituito in tale onore dal kārearea, il semplice falco neozelandese?” Il quale non è per dire, ma in fin dei conti non è altro che un semplice rapace di palude, incapace di elaborare un pensiero più complesso di: “Dov’è il topo? Dov’è il topo? Prendo il topo!” La risposta in effetti potrebbe stupirvi. E cambiare i vostri presupposti in merito a quello che ci si può aspettare da un pappagallo: uno di questi svolazzatori verde oliva, dal riconoscibile sotto-ala di un arancione acceso, era uscito ben dopo il tramonto del sole. Per uccidere di nuovo.
Sembra a tutti gli effetti una leggenda metropolitana, come quella, della vicina Australia, secondo cui dei giganteschi koala carnivori si nasconderebbero sulla cima dei più alti alberi di eucalipto, pronti a lanciarsi sulla vulnerabile ed impreparata testa dei passanti dall’aspetto più saporito ed invitante. Eppure, si tratta di una questione di vecchia data: fu per la prima volta attorno al 1860, che i pastori delle valli e colline verdi attorno alla città di Christchurch, rese celebri dalla saga cinematografica del Signore degli Anelli, iniziarono a trovare strani segni sulle loro pecore più preziose. Profonde ferite sanguinanti, sui fianchi ed in prossimità dei quarti posteriori, dove gli animali non avrebbero potuto procurarsele da soli neanche volendo. Alcuni esemplari più giovani, oppure vecchi e malati, iniziarono ad essere trovati morti, letteralmente dissanguati per l’effetto della spiacevole situazione continuativa nel tempo. Per anni si pensò a una nuova, sconosciuta malattia, finché il proprietario di una tenuta nei dintorni, James MacDonald, non ebbe modo di assistere all’episodio in prima persona: era il 1868. Quando nelle sue retine spalancate sarebbe rimasta impressa l’immagine del verde, assatanato pappagallo, che nel profondo della notte balzava sopra la pecora, ignorando i suoi belati terrorizzati e colpendola selvaggiamente, con il grosso e acuminato becco ricurvo, di un simbolico colore nero. Nulla sarebbe stato più lo stesso. Nel 1889 il naturalista Alfred Wallace, nel suo libro sull’evoluzione intitolato Darwinism, citò l’esempio del kea in merito all’adattamento comportamentale, per cui una specie animale primariamente vegetariana, a seguito di un cambiamento della situazione ambientale, può scoprire ed esplorare nuove fonti di cibo. Ciononostante, per oltre un secolo furono in molti a non credere possibile che un simile uccello, tutto fuorché minaccioso, potesse addirittura uccidere un mammifero quadrupede di tali dimensioni. Finché nel 1993, all’interno di un documentario della NHNZ, non vennero incluse le riprese di prima mano di uno di questi attacchi, effettuate da un anonimo testimone di tanta animalesca brutalità.
A questo punto, la Nuova Zelanda si trovò di fronte ad un dilemma: rinnegare il maligno torturatore, oppure continuare a ricordarlo unicamente per i piccoli fastidi, il modo in cui era solito, durante le sue scorribande diurne, rendersi tutto fuorché benvoluto, benché sempre in maniera ragionevolmente simpatica, dovuta al suo desiderio di provare tutto e tutti, comprendere la vera ragione delle cose… Certo che alla fine, per quanto egli possa esser stato un saggio e ferreo governante, ce l’avreste mai visto il conte Vlad III di Valacchia sopra i soldi della Romania?

Leggi tutto

Il ritorno del pollo un tempo noto come Big Boss

Nella storia del mondo, ogni volta che si avvicina una grande catastrofe o un cambiamento, un uccello mitico risorge dalle tenebre incorporee della non-esistenza: dapprima, con l’aspetto di un demone infuocato. Esso spicca il volo ed usa il suo potere per gettare il caos tra le nazioni inermi della Terra. Quindi all’improvviso, muore. Tuttavia, dopo un lungo sonno, l’uccello torna di nuovo. Questa volta, sarà il salvatore. E la Ruota del Tempo gira ancòra… Lo scorso week-end, in un momento all’apparenza del tutto privo d’importanza, l’allevatore kosovaro Fitim Sejfijaj ha aperto, come un qualsiasi altro giorno degli ultimi sei anni, la pagina principale del browser, scegliendo di recarsi presso il suo gruppo preferito su Facebook: SHPEZTARIA DEKORATIVE. (Nota: SHPEZTARIA significa pollame)  Quindi ha preso il cavo di collegamento che si trovava nella tasca del suo gilet, e con un gesto deciso e rapida risoluzione, ha caricato il video contenuto nel suo cellulare con la didascalia “Shikim te kendshem merakli” (Ma quanto sei bello, Merakli). Nel giro di poche ore, il contenuto era stato guardato circa 300.000 volte. Tempo una giornata, dozzine di canali su YouTube l’avevano ripreso, con accompagnamenti testuali variabili tra lo stupito e il terrorizzato, l’ansia e l’incredulità. Entro la giornata di lunedì, la storia aveva raggiunto alcuni dei maggiori quotidiani online. A questo punto, non c’era più alcun dubbio: il virus si era diffuso. Ormai era troppo tardi, per poter pensare di fare un passo indietro.
Razgriz era il mostro mitico che si annidava nell’omonimo stretto, in alcuni episodi della serie di videogiochi aeronautici Ace Combat, eppure la stampa internazionale ha scelto un altro nome in codice per questo gallo assolutamente straordinario: Big Boss, il Grande Capo, non a caso ripreso fedelmente da quello del grande mercenario e soldato di ventura Solid Snake, clonato in gran segreto dal governo degli Stati Uniti e poi sfuggito al volere dei suoi stessi comandanti, nell’epopea incompleta della serie giapponese Metal Gear. Il che ha certamente un senso. A vederlo fuoriuscire dalla porticina del suo pollaio, Merakli sarebbe quasi comico, se non apparisse semplicemente terrificante. “Questo qui non è un pollo normale.” Viene da esclamare, mentre si osserva la sua massa spropositata, l’altezza di almeno un metro ed il maestoso mantello di piume, che riprende immediatamente la sua forma originale, dispiegandosi come le ali di una farfalla alla fuoriuscita dal suo bozzolo attaccato a un ramo. Mentre scende la ripida scaletta, il gallo pregiato appoggia attentamente i piedi, ricoperti da quelli che sembrerebbero essere a pieno titolo dei veri e propri stivali, mentre il suo collo poderoso si volta in ogni direzione contemporaneamente, alla ricerca di una possibile fonte di cibo. Qualcuno azzarda il paragone a un uomo in un costume dalla chiusura lampo ben chiusa, ma la piegatura delle gambe invertita, come un camminatore di Guerre Stellari, smentisce immediatamente questa possibilità. Di nuovo, l’analogia fantastica appare più che mai calzante, vista l’effettiva somiglianza di quanto stiamo vedendo all’unione tra un comune uccello da cortile e il suo esoscheletro meccanizzato, in grado d’incrementare a dismisura la sua forza in combattimento. Eppure, non c’è niente d’innaturale in tutto questo, come si sono immediatamente affrettati a sottolineare gli specialisti in materia. Tranne, ovviamente, la genetica di fondo.
Ecco dunque, la verità: Merakli/Big Boss altro non è che un ottimo esponente della rinomata razza Brahma, creata verso la metà del XIX secolo per rispondere a un’esigenza precedentemente assai gravosa: nutrire con estrema abbondanza ogni fascia, incluse quelle più disagiate, del variegato e disparato popolo statunitense. Poco prima di diventare, grazie all’iniziativa di un famoso estimatore, più preziosi di un gioiello della corona inglese. È una storia piuttosto affascinante, a dir poco…

Leggi tutto

La battaglia delle aquile giganti

Il grido distante dell’uccello, simile a quello di un cane con la tosse, sottolineò il momento dello scambio d’opinioni. Allo stesso modo di un frullar di piume, sempre più vicino, come se la natura, stanca di sopportarli, stesse per richiudersi sopra di loro. Lui sapeva bene di cosa si trattava: la battaglia infuriava di nuovo. “Per l’ultima volta Georg: non nutrirò i miei uomini con bacche, foglie e radici. Soprattutto adesso. Soprattutto in un luogo tanto ricco di cibo…Che tra l’altro, lasciamelo dire: è assolutamente…” Il grande navigatore ed esploratore Vitus Jonassen Bering, dall’alto dei suoi oltre 50 anni d’età, morsicò con gusto la coscia fumante del gabbiano kittiwake (Rissa tridactyla) tanto da trasformare la successiva parola in un goffo ed indistinto: “Deh-lischo-sho!” I pochi denti rimasti non aiutavano affatto la situazione. Assumendo un’espressione indescrivibile, l’interlocutore scrollò, per la duecentesima volta, le spalle. Naturalmente. A cosa serve un naturalista laureato a bordo? Scrivere un diario, inviare qualche lettera una volta fatto ritorno all’Accademia Imperiale di Mosca, promuovere le imprese del grande uomo che, alla ricerca di nuove rotte commerciali, gli ha permesso di vedere cose che nessuno, prima di allora, avrebbe mai neppure sognato. Non di certo, dare consigli al capitano! Per settimane e interminabili mesi, questo scambio si era ripetuto ad intervalli regolari, grossomodo con le stesse obiezioni e il risultato altrettanto inconseguente. Mentre la stragrande maggioranza degli uomini a bordo, uno dopo l’altro, cadeva vittima dello scorbuto. Finché ad un certo punto del 1741, di ritorno dalla spedizione che avrebbe aperto i mari a settentrione della Siberia ai mercantili del glorioso zar Pietro il Grande, non si giunse all’inevitabile finale. Da tempo separato dalla sua nave gemella e compagna di viaggio, la nave San Pietro aveva continuato a navigare verso Nord Est, fino ad approdare presso una terra ricoperta di ghiaccio che tutti, a bordo, sospettavano potesse essere l’Alaska. Ma a quel punto, gli uomini di mare che erano ancora in grado di svolgere le proprie mansioni si contavano sulle dita di due mani. E includevano, ovviamente, l’ospite d’onore tedesco Georg Wilhelm Steller, assieme al suo sollecito assistente. Tutti fecero il possibile, spronati dal carisma e le capacità di navigazione del vecchio e beneamato capitano. Nessuno, essenzialmente, commise errori di sorta. Ma la nave, con le vele in condizioni pessime per una precedente tempesta, alla fine naufragò.
In Paradiso, credete a me: l’isola di Bering, a largo della stretta striscia di terra segnata sulle mappe come Kamchatka, era più di ogni altra la dimostrazione in Terra dell’esistenza di Dio: florida, nonostante le temperature molto al di sotto dello zero, e brulicante di ogni forma di vita immaginabile dall’uomo. Poco dopo l’incidente, la nave San Pietro fu giudicata irrecuperabile, e i marinai ancora in grado di muoversi iniziarono immediatamente a costruire un vascello più piccolo, a partire dai rottami di quest’ultima, che potesse dimostrarsi sufficiente a tornare in patria. Tutto questo, a posteriori, fu drammatico. Ma ebbe un grosso, ed imprevisto punto a favore: dare a Georg il tempo di disegnare, appuntare e descrivere ciascuna di tali incredibili creature, poco prima di cuocerle a puntino sopra il fuoco della pura e semplice sopravvivenza. Sottoposti alle continue scorribande delle volpi artiche, i membri della spedizione non potevano conservare a lungo il cibo. Proprio per questo, ogni giorno uccidevano una delle gigantesche “mucche di mare” che di lì a poco si sarebbero viste attribuite il nome scientifico di Hydrodamalis gigas, e banchettavano serenamente. Ma lo scorbuto, senza sosta, continuava ad avanzare. “Capitano, adesso ascoltatemi. Molte miglia a sud di questa posizione, vive il popolo dei Jipangu, che è vissuto per generazioni del tutto isolato dal resto del mondo. Il loro paese, prima di essere unito, era suddiviso in clan che si facevano la guerra tra loro. E sapete, fra una battaglia e l’altra, cosa mangiano costoro? Pesce crudo ed alghe. Erba, erba proveniente dai fondali più profondi dell’Oceano stesso…” Ancora una volta, l’uomo stava superando il suo grado. Ma le sue storie… Troppo interessanti! Un’aquila abbaiò di nuovo. Ra-ra-ra-raurau, ra-ra-ra…
Li sto lentamente convincendo, pensò Steller. Sopravviveremo. Mentre si allontanava per l’ennesima volta dal campo base, inoltrandosi oltre le scogliere pietrose, dove sapeva bene cosa avrebbe avuto modo di vedere. Ancora una volta, come ogni giorno, gli uccelli più grossi e nobili di tutti i continenti, ridotti al ruolo di semplici passeri arrabbiati per qualche gustosa briciola di pane. L’aquila reale (A. chrysaetos) e quella dalla coda bianca (Haliaeetus albicilla) egualmente intente a litigarsi lo stesso scampolo di cibo. In trepidante attesa che giungesse, sulla scena, la più grande e terribile di tutte. Becco arancione, piume nere e zampe bianche, come se portasse i pantaloni. Fra tutte, l’unica con cui Steller sentisse d’identificarsi davvero.

Leggi tutto