Impettito sopra la sua sella, il paladino Orlando guardò ancora una volta in direzione della foresta, lungo la tortuosa strada discendente del passo di Roncisvalle. Una mano sopra il pomolo della sua spada, Durlindana, e l’altra sollevata per proteggersi dal sole, con il guanto d’armatura posto a catturare quel riflesso fastidioso ed insistente: “Mio saggio e fedele Oliviero, compagno d’infinite battaglie, cosa vedi all’orizzonte?” La coppia di paladini finemente equipaggiati, con gli alti cimieri rappresentativi della loro nazione e accompagnati dai vessilli dell’Impero Franco e almeno una mezza dozzina di attendenti ciascuno, stavano tornando in quel momento dalla Spagna sotto il giogo degli infedeli, con numerosi ostaggi ed i preziosi tesori delle città di Guernica e Saragozza. Incaricati da Carlo Magno di sovrintendere alla retroguardia, potevano contare unicamente su una quantità di truppe alquanto limitata e per di più, del tutto priva d’esperienza. “Se i miei occhi non m’ingannano, fratello mio, ciò che vedo muoversi tra gli alberi sono persone. Molte decine, o forse centinaia, probabilmente armate.” Per un attimo senza parole, Orlando sembrò meditare sull’effettiva portata della situazione e la necessità di ritornare a uccidere, per la maggiore gloria della Cristianità: “Dannazione… Siamo stati ingannati dal nostro stesso fratello d’armi Gamo, inviato a stringere accordi di pace! Ancora una volta le truppe dell’emiro Baligante, incapace di accettare la sua sconfitta, ci assalgono senza quartiere. Stammi vicino Oliviero, combattiamo!” Ma esattamente proprio mentre il famoso eroe pronunciava simili parole coraggiose, una nube oscurò per qualche attimo la luce del meriggio. Mentre l’aspetto degli aggressori, d’un tratto, diventava palese: quelli non erano dei veri arcieri, bensì cacciatori. E lì non v’erano lanceri, ma dei contadini con le falci alzate verso il cielo. Mentre al posto degli spadaccini, comparivano pastori, ciascuno armato di uno strano arnese lungo e affusolato, con il pomolo simile a uno scintillante melograno. Adesso la mano sinistra di Rolando, quasi involontariamente, si era spostata al proprio fianco, da cui pendeva il leggendario corno d’Olifante. L’unico strumento che, dando l’allarme, avrebbe avuto modo di salvarli…
Esistono diverse interpretazioni attraverso le tradizioni della storiografia del fatto d’armi svoltosi nel 778 d.C, in occasione del quale le truppe della prima vera nazione europea furono assalite, si dice a tradimento, durante la loro ritirata strategica dalle terre in mano agli arabi di al-Andalus. Accantonando momentaneamente tuttavia il resoconto semi-leggendario che compare nel poema in versi della Chanson de Roland, mirato ad equiparare l’uomo d’armi che muore per ciò in cui crede al martire cristiano diventato santo, oggi l’interpretazione moderna di una tale circostanza vede le retroguardie dei franchi sconfitte da un qualcosa (o qualcuno) che semplicemente, non avrebbero mai potuto prevedere. Proprio mentre varcavano gli alti passi montani della catena dei Pirenei, Orlando e gli altri avevano, in parole povere, incontrato i baschi.
Probabilmente ne avrete sentito parlare: di come questo popolo, da sempre in grado di preservare la propria indipendenza culturale (se non talvolta, quella politica) tra le zone rurali situate tra Francia e Spagna, talmente diverso dai propri vicini che qualcuno ha addirittura ipotizzato che potesse discendere dalla nazione perduta di Atlantide. O in maniera solo lievemente più scientifica, dall’uomo di Cro-Magnon stesso, attraverso una linea ereditaria tutt’altro che indoeuropea. Casistica esemplificata dalla lingua estremamente distintiva dell’euskara, dalle tradizioni religiose legate al culto ctonio di divinità del tutto ignote altrove ed una ricca selezione di esclusive tradizioni sociali, culinarie, architettoniche ed artigianali. Di cui forse il makhila, bastone, simbolo di prestigio e al tempo stessa arma in caso di necessità, costituisce oggi uno degli orpelli maggiormente riconoscibili e rappresentativi. Specie quando si considera come, in casi particolari, anche soltanto un singolo esemplare di tali oggetti possa raggiungere il costo di 1.000 o più euro…
Europa
Il ritorno dello strano ammasso da 3 milioni di seppie volanti
Era capitato l’ultima volta nel 2015 a largo della Turchia ed ora, senza nessun tipo di preavviso, si è di nuovo presentata quella situazione innanzi ad occhi umani, all’altro capo del continente europeo. In quel di Norvegia per essere precisi e nella contea di Møre og Romsdal, Ørstafjorden. Di un oggetto misterioso dalla forma globulare grande quanto un’automobile, vagamente riflettente sotto la luce tenue che penetra nelle profondità marine, costellato da una pletora di piccole forme oblunghe, vagamente simili a capsule spaziali. Al punto che il sub Ronald Raasch accompagnato dal capitano Nils Baadnes del vascello oceanografico REV Ocean, non ha potuto fare a meno di restare temporaneamente immobile, tentando di venire a patti con l’inusitata ed incredibile presenza, telecamera puntata rigorosamente all’indirizzo dell’USO (Unidentified Submerged Object) quasi aspettandosi che esso, da un momento all’altro, potesse tentare di mettersi a comunicare. Benché purtroppo, lo sappiamo fin troppo bene bene: i suoi umidi abitanti non possono parlare…
L’esistenza continuativa degli stessi processi naturali alla base dell’ecosistema planetario si basa sulla capacità delle creature molto grandi, pachidermi frutto dell’evoluzione, di apportare modifiche all’interno di contesti dall’elevato grado di specificità. Così come le forme di vita dalle dimensioni assai ridotte, talvolta, possono creare grandi cose. E ciò appare tanto maggiormente vero nell’ambiente sotto le onde degli oceani, dove vasti i leviatani avanzano seguendo le precise regole di quel copione, che li porta a mantenere aperte le loro bocche, mentre quantità inusitate di microrganismi passano nel mezzo dei fanoni e vanno giù, nel vasto e oscuro stomaco della propria stessa disintegrazione. Ma se è vero che l’unione fa la forza, cosa dire allora della tecnica riproduttiva dei cefalopodi appartenenti alla categoria informale delle seppie volanti (e non soltanto quelle) la cui tecnica riproduttiva prevede la più perfetta applicazione della cosiddetta strategia r (classificazione MacArthur/E. O. Wilson) che consiste nel mettere al mondo una prole tanto numerosa da permettere semplicemente, per la legge dei grandi numeri, a QUALCUNO di raggiungere l’età adulta… Beh, tanto per cominciare: che essere approssimativi non significa peccare necessariamente d’imprudenza. Specie quando la saggezza di un processo millenario ti ha dotato di una ghiandola capace di produrre muco, e per usare un’espressione tipicamente umana, nessun timore d’usarla. Muco appiccicoso, denso e semitrasparente, capace di assumere le stesse proprietà delle sferette ricreative americane Orbeez Balls, giocattoli multicolori in grado di crescere in maniera esponenziale quando immersi all’interno di una certa quantità d’acqua per un periodo di tempo breve. Questo poiché tali oggetti artificiali, almeno quanto quell’ammasso risultante dall’iniziativa della seppia, possiedono la dote innata di una massima capacità assorbente, con finalità che almeno nel secondo caso, presentano notevoli vantaggi per la prole dei nostri piccoli tentacolari amici.
Non ultimo dei quali, la capacità di rimanere generalmente lontani dallo sguardo di occhi indiscreti, che sanno solo chiedersi: “Bello, sarà buono da mangiare?”
La notevole complessità logistica del primo poster della storia
Il silenzio cala tra i restauratori del museo Metropolitan di New York, mentre l’ultimo dei 36 grandi fogli di carta dall’età incerta finisce di essere affiancato agli altri sul freddo pavimento della sala: 192 xilografie in totale, per un’estensione complessiva di circa 3 x 3,5 metri. Molto lentamente, ciascuno dei presenti viene a patto con l’idea surreale, persino impossibile, che la propria istituzione possa aver tenuto sotto chiave e rigorosamente lontano dallo sguardo dei visitatori, per molti e troppi anni, uno degli oggetti più notevoli della sua intera collezione: una copia in stato ragionevolmente buono di conservazione dell’Arco Trionfale di Massimiliano I d’Austria, “costruito” o per meglio dire inciso sopra il legno, e quindi trasferito con l’inchiostro, sotto la direzione di nientemeno che Albrecht Dürer, forse il più importante pittore, comunicatore ed inventore dell’intera Germania rinascimentale. Con un sorriso incredulo, l’archivista capo porta pensierosamente la sua mano destra sotto il mento. Quindi afferma sottovoce, contemplando gli strappi, i buchi e i graffi sopra il preziosissimo reperto: “A questo punto c’è soltanto una persona che potrà aiutarci…”
É strano ritornare con la mente a un mondo che nei fatti risultava essere, per un buon 99,8% della sua popolazione umana, del tutto privo di libri. Fuori dalle case dei potenti e le strutture ecclesiastiche, o i magazzini dei mercanti maggiormente facoltosi, dove la parola scritta risultava poco più che un mito, al di fuori del suo impiego maggiormente pratico e immanente: calendari scritti a mano, appunti di cucina, qualche breve cronaca familiare. Eppure proprio questa era la situazione all’inizio del XV secolo in Europa, quando ancora e nonostante i significativi progressi compiuti nella creazione e diffusione di una cultura in grado di espandersi verso l’ampio ventaglio dei possibili status sociali, il semplice gesto necessario di copiare un intero testo, parola dopo singola parola, continuava a richiedere un dispendio d’energie e di tempo pari, o superiore, a quello per costruire una cappella in legno per scontare l’intero cursus dei propri peccati terreno. Immaginate perciò adesso, al volgere di un tale secolo, l’effetto che potrebbe aver avuto l’invenzione di un certo Johannes Gensfleisch della corte di Gutenberg, non lontano da Magonza, capace di tradurre in un processo industriale riproducibile l’arte fino a quel momento per lo più teorica della pressa da stampa. Metodo che avrebbe reso, nel giro di poche decadi, l’apprendimento della verbo scritto non più solo uno strumento per semplificarsi le giornate, bensì la porta per accedere a diverse vette di una saggezza per la prima volta democratica, ovvero in grado di trascendere mere considerazioni sulla propria schiatta o dotazione finanziaria.
Ed è perciò questo lo scenario all’interno del quale, esattamente 8 anni dopo il fatidico 1500, l’arciduca d’Austria nonché unico erede del ramo principale della grande dinastia degli Asburgo, sarebbe salito al trono del Sacro Romano Impero, succedendo infine a suo padre, Federico III. E tutti avevano già concordato, fin dalla sua giovane età, sul fatto che Massimiliano I d’Austria, anche detto il Wunderkind (letteralmente, bambino prodigio) non poteva essere più diverso dal suo insigne genitore: orgoglioso dove il primo era modesto, enfatico piuttosto che sobrio, amante dei duelli, le grandi battaglie storiche, la vita semi-mitica dei condottieri. Fino al matrimonio con l’amata moglie Maria, figlia del duca di Borgogna, che perendo sfortunatamente nel 1482 per un incidente d’equitazione, l’avrebbe lasciato con due figli e il dominio frammentato che era stato del padre di lei, arduo da gestire senza la esserne l’Imperatore, di nome, nell’immagine e nei fatti. Una terra che sopra ogni altra cosa, languiva in significative difficoltà economiche, situazione che avrebbe continuato a sussistere anche in seguito, dopo l’accesso alla carica concessagli per convenzione ereditaria di supremo sire dei Romani. In quale modo, dunque, un uomo simile avrebbe potuto ritrovare quel prestigio che era stato, in origine, associato a simili figure sopra i margini del foglio sopra cui tracciamo la linea segmentata della storia?
L’Aquila Mercedes che si posò con ali nere, per risorgere d’argento
“Che cosa intendi, 751 Kg?” Notte carica d’aspettativa, quella del 3 giugno 1934, presso le campagne tedesche dove ancora oggi scorre la sottile striscia d’asfalto definita, con considerevole ottimismo, l’ormai leggendario circuito del Nürburgring Nordschleife: oltre 22 Km di “anello settentrionale” all’ombra dell’omonimo castello, dove illuminato dalla luna, il direttore sportivo della Mercedes-Benz Alfred Neubauer si accarezzava pensieroso il mento, rispondendo al capo meccanico della sua scuderia: “Non è possibile che Herr Nibel abbia sbagliato i conti. Se così fosse, all’alba saremo squalificati!” I due scambiarono uno sguardo carico di sottintesi. Era l’apice di un anno estremamente combattuto, primariamente con la grande scuderia rivale della Auto Union, conglomerato dai quattro anelli che un giorno (ma questo, loro non potevano saperlo) avrebbe finito per passare in eredità al singolo membro della August Horch Automobilwerke GmbH, oggi nota più semplicemente come Audi. In tal modo i principali antagonisti di una tale possibilità, a quell’ora tarda di quello specifico momento in bilico tra le due guerre, si affrettarono a pesare nuovamente la vettura, fiammante ancorché convenzionale monoposto W25 dall’iconica colorazione bianca. A quei tempi per lo più privi di sponsor, naturalmente, il colore aveva un’importanza primaria nelle corse d’automobili, con ciascun paese associato, convenzionalmente, a una specifica tonalità: l’Italia rossa, l’Inghilterra verde, la Francia blu e la Germania, per l’appunto, candida come la neve dei monti Wetterstein, nell’area delle Alpi Calcaree Nordtirolesi. Almeno, così recita l’aneddoto, fino a quella notte fatale. Quando Neubauer, privo di altre idee, diede l’epocale ordine: “C’è una sola possibilità: prendete i raschietti e togliete attentamente la vernice, fino all’ultimo dettaglio delle cromature. In verità vi dico: all’alba questa macchina verrà scoccata dalla corda del nostro arco. A costo di venire soprannominata la Freccia d’Argento”
Quasi un secolo dopo, c’è una stanza nell’avveniristica struttura del museo sulla storia della Mercedes a Stoccarda, in cui una serie d’automobili sono montate su una curva parabolica, piuttosto che orizzontalmente. Proprio qui figura quella stessa W25, o una identica, assieme ad una serie di veicoli, tutti dello stesso identico colore. Con alla testa di una tale straordinaria carovana, qualcosa che non sembra neanche appartenere a questo mondo: uno strano veicolo a sei ruote, altrimenti descrivibile come l’ibridazione tra un pesce ed un aereo, con doppia coda aerodinamica, un corpo lungo e flessuoso e addirittura un paio di piccole ali. Fu perciò con chiaro piglio metaforico, che all’epoca Adolf Hitler in persona ebbe l’idea di definirla Schwarzer Vogel, o Uccello Nero. Ma forse sarà meglio cominciare dal principio. Ovvero dalla raramente citata battuta di caccia, risalente al più che mai remoto 1925, in occasione della quale il giovane politico e futuro führer della Germania venne presentato dal suo autista ad un vecchio amico di nome Hans Stuck von Villiez, abile con il fucile almeno quanto al volante del suo furgone, con cui effettuava le consegne a tempo record del latte dalla propria stessa fattoria presso Monaco di Baviera, emulando nella propria fantasia le imprese dei contrabbandieri di alcolici nei distanti Stati Uniti, poco prima di farne una professione. E proprio questo fu l’inizio di una lunga e solida amicizia, tanto che nel 1933, con Hitler cancellerie e Stuck ormai diventato un pilota di una certa fama grazie ai successi motoristici conseguiti al volante della Mercedes SSK (W06) il primo si ricordò del secondo, affrettandosi a presentarlo per quello che sarebbe rimasto, anche negli anni del successivo conflitto globale, il suo principale referente in materia di motori e tecnologia: nientemeno che il controverso, ammirato e spesso discusso Ferdinand Porsche. Perciò e soltanto naturale che dall’unione tra la mente di un pilota ambiziosa e quella di un leggendario ingegnere, potesse nascere qualcosa di assolutamente straordinario. Soprattutto quando si considera la massima aspirazione del terzo personaggio di questa storia, che in un modo o nell’altro sarebbe rimasta al centro dei suoi pensieri per l’intero ventennio successivo: mettere “al primo posto”, come si usa dire anche oggi, la sua “beneamata” Germania. In tutti i campi, incluso quello tecnologico e motoristico e in un particolare campo sopra qualsiasi altro: la massima velocità che fosse mai stata raggiunta da un’automobile su strada. E quale favolosa strada, questo strano triumvirato avrebbe scelto d’impiegare…