L’agguerrito uccello con due coltelli all’apice delle sue ali (e nessuna paura d’usarli)

A seguito di una giornata indistinguibile da tutte le altre, mi svegliai nel cuore della notte per il ripetuto trillo di una sveglia che nessuno aveva impostato. “Peep-Peep, Cackle; Peep-Peep, Cackle!” Lei si girò su un fianco risvegliandosi con occhi assonnati “Cara” Dissi allora: “Sai cosa significa questo rumore?” La sua espressione, a metà tra la piacevole sorpresa ed un latente terrore, costituì una risposta sufficiente anche prima che mimasse con il movimento delle labbra le tre sillabe: “Pi-vie-re.” Dopo un attimo d’esitazione, sorrisi di rimando. Oramai, il nostro destino era segnato. Alle cinque e mezza di mattina, svegliandoci col sole invernale di luglio, ci dirigemmo nel salone della nostra tranquillissima villetta a schiera nella periferia di Melbourne. E lui era lì, ovviamente. Quasi spalmato contro il vetro, maschera gialla e il corpo bianco, le ali marrone sollevate per sembrare più grande. Il becco semi-aperto, quasi come se stesse aspettando i padroni di casa, per annunciare l’inizio della sua battaglia. “Peep-Peep, Cackle, Cackle, Cackle!” Disse allora, nella lingua universale degli uccelli. Grosso modo traducibile nell’espressione umana: “Non ti avvicinare alle mie uova, fellone. O assaggerai la punta delle mie lame.” Scambiandoci uno sguardo rassegnato, andammo quindi a fare colazione. Ma un’ora dopo, dovendo uscire di casa per avviarci al lavoro, sapevamo già quello che ci aspettava. Il maschio della coppia, ancora una volta più coraggioso, saltellava drammaticamente da una parte all’altra schiamazzando e cercando di far sua l’illusione. Che avesse una zampa ferita, distogliendo idealmente l’attenzione dei “predatori” dal nido. Ma prima che potesse giungere al momento clou della commedia, un ulteriore grido giunse dalle nostre spalle, sulla cima del frassino in giardino. Era la sua consorte, che si preparava all’assalto omicida. Con un balzo agile, si aprì come un ombrello, precipitando all’indirizzo di coloro che vedeva come dei pericolosi nemici. Per poi deviare all’ultimo momento, grazie al semplice magnetismo dello sguardo. Senza attardarci oltre, tuttavia, balzammo nelle rispettive automobili. D’altra parte, sapevamo bene che una scena simile avrebbe accompagnato le nostre mattinate per il periodo dei prossimi tre o quattro mesi. Di nuovo…
Chiamato anche uccello-sveglia per il suono che produce e l’abitudine a cantare di notte, il masked lapwing o Vanellus miles è un uccello estremamente rappresentativo dell’Australia almeno quanto la gazza, il kookaburra o il chiassoso cacatua. Essenzialmente suddiviso in due sottospecie, quella nominata del settentrione continentale, la Nuova Guinea, le isole di Aru ed il V. m. novaehollandiae, della regione meridionale e le coste della Nuova Zelanda, esso appartiene nonostante la classificazione popolare di plover (piviere) alla famiglia dei caradriidi o pavoncelle, tra cui si distingue per il possesso dei vistosi bargigli giallo paglierino attorno al becco, oltre alla frequenza con cui invade ed occupa gli spazi appartenenti agli umani. Questo per la sua abitudine a fare il nido, tra tutte le alternative possibili, proprio a terra nel centro esatto di uno spiazzo, possibilmente con l’erba corta e mantenuta tale, al fine di poter accedere più facilmente alle risorse gastronomiche dei vermi che si aggirano sottoterra. Il che lo porta, di contro, ad essere perennemente vigile e comprensibilmente nervoso, ovvero mai realmente addormentato, pronto ad aggredire chiunque faccia anche soltanto il gesto di avvicinarsi alle sue quattro-cinque uova di colore blu a macchie scure. Un mansione per cui la natura, fortunatamente, sembrerebbe averlo “armato”…

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L’audace passatempo d’incontrare da vicino l’uccello più velenoso al mondo

Serpenti alati: tutti conoscono l’aspetto del potente Quetzalcoatl, Dio del quinto sole, gemello prezioso, spirito del vento sudamericano. Ma dall’altro lato del pianeta, nelle terre emerse della seconda isola più grande al mondo, c’è una ragione differente per guardare in alto e preoccuparsi di possibili animali tossici, capaci in linea teorica d’indisporre in modo significativo un elefante. Se soltanto tale pachiderma fuori sede, in un’impeto di carnivora imprudenza, tendesse la proboscide verticalmente verso il cielo. Cogliendo al volo la creatura di passaggio, ali, becco, coda e tutto il resto. “Ridicolo” mi sembra quasi di sentire gli aspiranti biologi dal coro: “Gli elefanti non mangiano gli uccelli! Ed anche se lo facessero, di sicuro questi ultimi non potrebbero arrecare alcun danno al più imponente sistema digerente posseduto da un animale dei nostri giorni.” Orbene son qui oggi per dirvi, che se in merito alla prima affermazione siete sulla strada giusta, nel caso della seconda i fatti vi sono nemici. Come già sapevano studiosi della filosofia naturale quali Aristotele, Filone di Alessandria, Lucrezio e Galeno; ciascuno dei quali, all’interno dei propri scritti, ebbe la ragione e sensibilità di citare la condizione medica da tempo nota come coturnismo: vomito, paralisi muscolare, insufficienza respiratoria e renale. Il tutto come conseguenza del consumo poco accorto, di quantità eccessive di quaglie selvatiche europee (Coturnix Coturnix) durante il periodo delle loro migrazioni primaverili. Quando transitando oltre le montagne che dividono i confini arbitrari delle nazioni, mangia ingenti quantità dei semi della pianta che i latini chiamavano Conium e i moderni, molto più semplicemente, cicuta. Il cui contenuto tossico, grazie al perfezionamento evolutivo, non può nuocere al volatile. Ma colpisce e annienta gli organi di colui che ne fagocita le carni avvelenate. Ora la quaglia, in circostanze normali ed al di fuori di quella stagione maledetta, risulta essere perfettamente commestibile ed invero anche apprezzata, come una versione occidentale del potenzialmente mortale pesce palla o fugu cucinato dai giapponesi. Ma se ora vi dicessi che ci sono uccelli, altrettanto immuni all’effetto di una particolare pietanza letale, che risultano pericolosi tutto l’anno? I cosiddetti Pitohui ed Ifriti dell’Indonesia. Ma soprattutto una particolare specie dei primi nota come P. dichrous, simile ad un merlo nero e marrone dalla cresta erettile e sbarazzina letteralmente intriso, fino alla radice delle proprie piume bicolori, della temutissima sostanza nota come BTX o per esteso batracotossina, un termine che viene dalla parola usata scientificamente per riferirsi alle cosiddette rane-freccia, usate per avvelenare le armi degli indigeni colombiani. Col che non voglio certamente affermare che il volatile in questione, un passeriforme della famiglia degli orioli del Vecchio Mondo non più lungo di 22-23 cm, sia solito ghermire e fagocitare l’orribile anfibio che raggiunge una percentuale significativa della sua dimensione totale. La soluzione è molto più semplice, ed al tempo stesso inaspettata, di così. Trattandosi effettivamente di un rarissimo caso di convergenza evolutiva tra classi distinte, avvicinate dall’inclinazione a fare un singolo boccone (avvelenato) di un insetto della famiglia Melyridae, rappresentato nel caso della Nuova Guinea dal diversificato genere degli scarabei Choresine. L’origine, nonché una zampettante concentrazione, del Male…

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La corona di piume dorate sul solenne sovrano del gruismo d’Uganda

Gioia, orgoglio ed entusiasmo sono i sentimenti che traspaiono nello spezzone in cui Megan, guardiana dello zoo di Columbus (Ohio) mostra il risultato di tante ore di condivisione dei momenti con la sua fedele amica Maybelline, un magnifico esemplare di gru coronata grigia proveniente dall’Africa Orientale. E sarebbe assai difficile negargliene il diritto. Quanto spesso capita, d’altronde, di poter conoscere direttamente una creatura straordinaria al pari di un favoloso unicorno, ippogrifo o inimmaginabile chimera dei bestiari medievali? A un tale punto appare fuori dal comune, questo uccello disegnato dal pennello di un pittore consumato, la livrea perfettamente armonica in un susseguirsi di colori contrastanti: bianco, nero, grigio, rosso sulla gola ed il marrone sulle ali. Fino all’ornamento letterale frutto di un sentito vezzo dell’evoluzione, consistente nella cresta di uno sfolgorante tonalità giallo dorato. Oh, invitato d’onore nella grande festa dedicata all’alba di una nuova Era! Oh, perfetto paradigma di cosa può essere o talvolta diventare la Natura! Quando l’ora è “giusta” e i materiali del tutto “adeguati” a compiere il miracolo del tutto inusitato dell’esistenza. Una visione degna di comparire al tempo stesso in un libro d’arte, ed il catalogo dei più tangibili volatili di questo mondo. La vera e incontrastata protagonista della scena, quando la corrispondente umana di quei mistici momenti allunga il braccio in senso parallelo al suolo, un gesto concordato tra le due per dare inizio all’agile balzo, che porterà l’uccello guardarla dall’alto in basso, prima di procedere a nutrirsi col becchime che costituisce la sua ricompensa finale. Eppure, il tutto con un’iperborea grazia o attenta ed innegabile delicatezza, di un paio di zampe lunghe e flessibili come quelle di una cavalletta gigante, sollevate ed appoggiate delicatamente sopra l’arto facente funzioni di un pratico trespolo nel sottobosco. Questo perché la Balearica regulorum, assieme alla specie consorella tanto simile della B. pavonina o gru nera coronata, costituisce il raro esempio di un volatile alto un metro e di 3,5 Kg di peso, che ancora nonostante tutto preferisce soggiornare lungamente sopra i rami degli arbusti più imponenti, al fine di riuscire a sorvegliare ed elevarsi dal pericolo costante dei suoi molti predatori. All’interno di quel vasto areale, capace di estendersi dalla Repubblica Democratica del Congo, fino all’Uganda, il Kenya ed il Sudafrica, dove il territorio tende a sovrapporsi a quello della controparte dal piumaggio più scuro. Oggetto di una lunga disquisizione tassonomica, in merito al fatto che le due potessero costituire a conti fatti mere variazioni della stessa discendenza, se non fosse per gli aspetti più profondi rilevati grazie agli strumenti dell’odierna analisi genetica di laboratorio. Una via d’accesso confluente alla più diretta osservazione di questi esseri, per carpir le implicazioni di un conveniente approccio alla vita, l’Universo e tutto il resto…

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Perché nella Nuova Caledonia i parrocchetti hanno le “corna”

L’acqua di un color turchese barbagliante, il sole che rimbalza sulle forme placide ondeggianti, di un oceano privo di confini apparenti. Oltre la prua del piccolo catamarano, innanzi ad una spiaggia chiara come l’alba, il profilo ben riconoscibile di un filare di araucaria, gli alberi simili a colonne o che ricordano i cipressi lungo un viale. Ma a spezzare la monotonia e la calma, finisce per manifestarsi un qualcosa di altrettanto verde, ma perfettamente contrastante per quanto concerne la livrea della sua testa nera e l’ornamento rosso intenso che la sovrasta. Sul finir del pomeriggio, in una tiepida vacanza estiva, un singolo volatile si staglia contro il cielo. Quindi, tre, quattro, tutti alla ricerca di un qualcosa che possa fornirgli secondo la loro metrica, svago, o nutrimento. Svago e nutrimento: questo guida l’ali dell’Eunymphicus cornutus, o il pappagallo cornuto dalla coppia di vistose propaggini sovra-nucali. Portatore di quel simbolo apparentemente acuminato, piuttosto comune in altri ambiti del mondo animale, cui corrisponde un ruolo di potere. Ma che serve soprattutto come arma per combattere, proteggendo il proprio diritto a esistere e riuscire a riprodursi in un’ambiente competitivo. Unicamente quando accompagnate, tali corna, da una massa sufficiente a far valere le proprie ragioni. Ed è poi soprattutto per questo, che una simile caratteristica nelle modalità che siamo soliti associargli, non può appartenere in alcun modo al mondo dei pennuti, dove il peso addizionale agirebbe come problematica zavorra, oltre a risultare totalmente inutile nel corso di un tipico combattimento aereo. Ecco perché la versione qui apprezzabile di un simile implemento, in quello che potremmo facilmente definire il pappagallo più raro e distintivo del Pacifico, assume qui la forma certamente atipica di un paio di penne, approssimazione del concetto di una cresta che non può mai essere abbassata lungo il collo dell’animale. E prima di procedere all’interno della nostra narrazione, sarà opportuno definire le precise dimensioni di questa sgargiante creatura, che in qualità di appartenente alla famiglia dei Psittaculidae o pappagalli d’Oceania dalla coda larga, raramente supera i 32 cm di lunghezza sia nel maschio che nella femmina, i quali risultano del resto alquanto indistinguibili l’uno dall’altro. Mentre s’inseguono, con fare irruento e imprevedibile, tra i limpidi recessi di uno degli ultimi arcipelaghi rimasti ragionevolmente incontaminati nel nostro mondo. Fino a posarsi, da solo o in compagnia, sopra un albero di lavanda o d’alchelengio, da cui cominciare a prelevare frutta con voracità instancabile, al punto che pochi di loro possono spogliare totalmente un albero. Per poi provvedere, svolazzando intorno all’aere, all’appropriata disseminazione dei suoi legnosi figli a venire. Un importante ruolo assolto dagli uccelli, categoria entro cui figura a pieno titolo la variopinta sagoma del pappagallo…

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