Nella traduzione in lingua inglese della terminologia agricola indonesiana, il termine watermaster (ahli air) si riferisce a un’importante figura professionale incaricata di sovrintendere all’irrigazione e la distribuzione delle acque d’irrigazione incaricata, come un giudice civile, di allontanare ogni possibile accenno d’iniquità. Ma basta spostarsi lievemente più a settentrione, presso l’arcipelago delle Filippine, per andare incontro a un riconoscimento pressoché istantaneo di questo termine direttamente riferito a un particolare tipo di macchinario, prodotto da un’azienda finlandese e successivamente venduto nei paesi dove maggiormente poteva risolvere annose questioni d’urbanistica e mantenimento del territorio. Fin da quando i popoli di provenienza austronesiana ebbero l’opportunità di colonizzare la verdeggiante isola di Mindanao, attorno al 1500 a.C, i loro insediamenti ebbero a che fare con le periodiche inondazioni del Rio Grande di un tale terra emersa, incline a straripare causa l’ingombro stagionale causato dai giacinti d’acqua (Pontederia crassipes) tutt’ora inclini a causare, successivamente alla sfioritura, un potenziale disagio capace di coinvolgere una quantità stimata di 6.000 famiglie. Ipotesi inerentemente meno incline a concretizzarsi, tanto più il governo opera nel raccoglimento del suddetto materiale vegetale e la conseguente dragaggio dei fondali, mediante l’applicazione operativa di sistemi tecnologici moderni. E cosa, meglio della macchina prodotta a partire dal 1986 presso gli stabilimenti della Watermec, azienda facente parte del conglomerato nord-europeo LMCE Lannen Group, potrebbe mai contribuire al laborioso sforzo necessario al fine di corroborare un tale sforzo collettivamente utile al benessere di un intero paese?
Come un Transformer sceso dal suo camion di trasporto (perché momentaneamente troppo pigro per assumere la forma antropomorfa) Watermaster è il dispositivo tutto-in-uno che risulta in grado di operare fuori e dentro l’acqua fino a una profondità di 6 metri, mediante l’impiego di un possente braccio idraulico, per rimuovere piante, detriti o il fango stesso, al fine di ripristinare lo stato primigenio di una condizione soggetta a progressivo peggioramento. Poiché l’impatto antropogenico sull’impronta idrica del paesaggio, causa la costruzione di ponti, viadotti ed altre infrastrutture (dighe, persino!) non può essere certo d’aiuto al naturale scorrimento dei fiumi, rendendo una simile tipologia d’interventi niente meno che auspicabili per un ottimale “scorrere” dei giorni presenti & futuri, possibilmente medianti l’impiego di sistemi versatili almeno quanto questo. Punto fermo di un simile sistema operativo, per l’appunto, risulta essere la sua (quasi) totale indipendenza: nessun tipo di rimorchio, gru o sistema di traino dovrà essere impiegato per far raggiungere alla draga l’oggetto della sua professione, grazie all’insolita inclusione nel progetto di partenza di quelle che potremmo definire, a tutti gli effetti, una doppia coppia d’insolite zampe. Costituite nella parte frontale dagli stabilizzatori a forma di disco volante posti al termine di un lungo snodo idraulico, concepiti per poggiare sul fondale durante le manovre operative, così come la coppia di pali estensibili e direzionabili localizzati posteriormente alla cabina di guida, altrettanto utili nel sollevare o spingere in avanti l’intrigante mostro meccanico strusciando sullo scafo rinforzato, verso le accoglienti acque per cui trova il suo più saliente ambiente d’impiego. Con un moto deambulatorio tutt’altro che veloce o regolare, la draga motorizzata raggiunge quindi l’argine ed in breve tempo, riesce ad abbassare se stessa fino ad un contesto idoneo di galleggiamento. Situazione in cui, senza nessuna propensione al compromesso, può passare al sistema propulsivo di una praticissima, e ben più situazionale elica intubata…
Europa
Fortemente inarrestabile: un’altra macchina che taglia via le cime delle montagne
Dopo il diciannovesimo anno di dure battaglie, l’andamento della guerra iniziò una progressiva inversione di tendenza. I coloni dell’Impero di Alpha Centauri, che sin da principio non si erano fatti particolari problemi a rispedire al mittente interi asteroidi grandi quanto le antiche navi-arca, che molte generazioni prima avevano permesso all’uomo di disseminare se stesso nel cosmo come un virus, stavano iniziando a perdere sanguinosamente terreno. Grazie alle vittorie ottenute nel settore perduto, sotto il comando di ammiragli veterani, ma anche e soprattutto all’opera di un sol uomo: Kaizer Boyd, dalla cabina di comando del suo mecha grande quanto un grattacielo. 5.600 tonnellate di acciaio, secondo le cronache (nonostante il nome ufficiale della Federazione sembrasse riconoscergliene appena 5 migliaia) per 160 metri di lunghezza e 40 di altezza. Talmente imponente che una volta fatto sbarcare dall’orbita di un pianeta conteso, arrestando a malapena la sua caduta grazie all’uso di retro-reattori eiettabili una volta raggiunta la superficie, poteva muoversi soltanto grazie a un metodo ben collaudato, mentre agitava in giro la terribile proboscide scavatrice. Niente ruote, né cingoli o altri sistemi inerentemente condannati a sprofondare in qualsiasi luogo non fosse come 55 Cancri, il pianeta fatto interamente di diamante: bensì, saltelli sul suo singolo piede colossale, in maniera non dissimile da uno yokai monocolo delle leggende folkloristiche giapponesi. A un ritmo di sicuro non velocissimo, mantenendo ad ogni modo la certezza di raggiungere il suo fine ultimo in ciascuna circostanza: il raggiungimento e conseguente invasione armata, delle capitali sotterranee difese strenuamente dagli spaziali, le cui armi non potevano semplicemente penetrarne la corazza forgiata nelle rinomate fabbriche di Marte.
Di sicuro in un’ipotetica storia fantastica di guerre future, l’enorme scavatore RK 5000.0/R10 costruito e gestito dal vasto conglomerato ČEZ’ (České Energetické Závody) sotto l’etichetta PRODECO, avrebbe avuto un ruolo assolutamente di primo piano. Grazie all’imponenza tale da farne uno dei costrutti semoventi più grandi che abbiano mai calcato la terra ferma, ma anche quelli maggiormente in grado di pesare, in più di un modo, sull’ambiente naturale d’impiego. Operativo sin dai primi anni ’80 presso la Miniera di Lignite dell’Esercito (Lom Československé armády o più brevemente, Lom ČSA) situata nella parte settentrionale della regione di Boemia. e così efficientemente rappresentata grazie allo strumento digitale del time-lapse, nella ripresa caricata come unico contenuto sul canale YouTube di Ibra Ibrahimovič, un probabile (?) filmmaker locale. Oggetto controllato nella realtà dei fatti da 6 membri dell’equipaggio e fatto lavorare grazie a un insolito sistema ibrido sia idraulico che alimentato elettricamente. Ed è in effetti facile notare a quest’ultimo proposito, la presenza del veicolo dotato dell’ingombrante bobina di cavo, appartenente assai probabilmente alle una delle serie della PRODECO SchRs o ZPDH, esso stesso già più grande di qualsiasi autocarro abbia calcato, a memoria d’uomo, le strade asfaltate europee. Mentre gli stessi camion da miniera incaricati di raccogliere il materiale, essi stessi non più “piccoli” di 300-400 tonnellate, non appaiono dissimili da puri e semplici giocattoli di un bambino. Ma è il surreale movimento della nave madre, accelerato fino a 300 volte a seconda della scena, a rimanere maggiormente impresso allo spettatore, mentre il ciclopico implemento si solleva, compie un passo in avanti e quindi scende nuovamente a terra, con un suono ritmico simile a un peana tribale. L’unica metodologia possibile, nei fatti, perché possa estendere la sua portata verso nuovi territori di conquista…
Brütsch Mopetta, l’invenzione retrofuturista di un ovetto a motore
L’uomo ricco e di successo guardò fuori dalla sua finestra, osservando la strana carovana con l’accenno insopprimibile di un sorriso. Georg von Opel, nipote e figlio dei due imprenditori che avevano fondato, e poi venduto, l’omonima compagnia produttrice d’automobili, si fermò quindi per un attimo cercando di frenare l’ironia, mentre l’ospite da lui stesso invitato fermava la massiccia Mercedes W-120 col suo rimorchio monoasse contenente una minuscola convertibile facilmente riconoscibile come la Pfeil (Freccia) oltre a quelle che sembravano due cabine da sidecar sul tetto, seguìta da una 170 V, anch’essa oberata dallo stesso carico ed un motorino nel portabagagli. Egon Brütsch, in quel fatidico 1957, aveva esattamente 53 anni eppure non sembrava dimostrarne più di 30, mentre con la forza ricevuta in dono dall’entusiasmo scaricava, una dopo l’altra, le due minuscole vetture sul tetto della “nave madre”, per poi fare cenno alla seconda auto il luogo del parcheggio ideale. Vettura dalla quale scese la ragazza della pubblicità in persona, probabilmente facente anche funzioni di segretaria ed aiutante di quello che avrebbe potuto definirsi, per un transitorio momento, l’inventore più famoso di tutta la Germania Occidentale. I due, mentre Georg iniziava la lunga discesa della sua grande villa in Assia, finirono quindi di disporre il campionario nel suo giardino, aspettando con aria nervosa l’attimo e il momento della verità. Percependo l’attimo di svolta, ed il possibile inizio, di una rivoluzione motoristica che avrebbe potuto coinvolgere l’intera Europa. E fu allora che il portone della villa, con un movimento repentino, si spalancò ad offrire una speranza per il domani.
Non esistono registrazioni del primo, probabile incontro tra l’unico erede di una cifra pari a 20 milioni di lire alla metà del secolo, oltre che praticante della disciplina del canottaggio in cerca di validi progetti da finanziare ed il quasi coetaneo, ex pilota sportivo di motociclette e automobili preparate da lui stesso, figlio di un facoltoso capitalista produttore di calze da donna a Stoccarda, che aveva scelto d’impegnare l’eredita paterna per coltivare le sue due più grandi passioni, l’innovazione tecnologica e i motori. Attivo a partire da soli tre anni prima, con una serie di tre innovative micro-auto con il corpo in plastica e fibra di vetro, Egon aveva acquisito il culmine della sua fama durante la scorsa Fiera della Motocicletta di Francoforte (IFMA) al centro della quale aveva scelto di esporre, nel suo stand relativamente piccolo, un’espressione completamente nuova del concetto di automobile. Il “piccolo motoscafo”, come aveva scelto di ribattezzarlo la stampa causa l’improbabile promessa di farne un anfibio, con la sola posizione di guida, un’elegante forma bombata e il singolo faro anteriore, simile a un potente occhio di Polifemo. La seconda analogia più diffusa, inevitabilmente, fu quella con l’unico veicolo comparabile ad aver conseguito un successo internazionale venendo prodotta su licenza da BMW, la Iso Isetta di Bresso, in Lombardia. E fu così che l’emulo tedesco scelse di chiamare la sua vettura, seguendo una delle più proficue vie del marketing, Mopetta, collocata ad arte nel punto più alto dell’allestimento in fiera. Proprio perché risultava, allo stato attuale, ancora priva di meccanica interna, telaio, ruote e soprattutto, un motore. Entro pochi mesi tuttavia, cavalcando l’onda di un successo di pubblico e copertura mediatica da lui stesso insperati, l’intraprendente creativo aveva già trovato alcune soluzioni percorribili verso l’effettiva commercializzazione futura. Tutto quello che gli mancava, a quel punto, era un investitore…
Chi ha clonato l’esercito di gamberi che ha invaso questo cimitero in Belgio?
Stanotte, che notte! L’interfaccia brulicante tra i due mondi si è fatta sottile, fino al punto di permettere ai visitatori dell’intercapedine di farsi coraggiosi e crescere di numero, ancora e ancora. Una notte che precipita la situazione, in modo progressivo e inarrestabile, verso l’unanime sostituzione dei Viventi. Poiché pace in Terra, ovvero sotto-terra, può essere concessa a chi ha per lungo tempo combattuto contro l’entropia dei giorni, col fucile e con l’elmetto dato in concessione dalla sua esigente patria, ispiratrice di un conflitto che non può essere dimenticato. Ma a proposito di queste ossa, che dire…
Non che il cimitero storico di Schoonselhof della città di Anversa, ultimo luogo di residenza per 1.557 soldati del Commonwealth periti nel corso del secondo conflitto mondiale, risulti essere in modo apprezzabile del tutto abbandonato e/o silenzioso. Per lo meno da quando, come riportato all’inizio della scorsa settimana sulle pagine del Bruxelles Times, un diverso tipo di visitatore è stato rilevato occupare i suoi prati, le sue pozzanghere, i fontanili ed i ruscelli temporanei risultanti dalle piogge di questi strani giorni. Corazzato e attento ad ogni minimo dettaglio, come reso chiaro dalle lunghe antenne, e molto rapido sopra le dieci zampe, proprio come ci si aspetterebbe dal perfetto gambero dei pantani o Procambarus fallax, 15 centimetri di crostaceo dalle origini americane, invasivo ed adattabile a ogni tipo di situazione climatica. Una volta che gli esperti si sono interessati alla questione, tuttavia, la terribile verità è immediatamente apparsa chiara sotto gli occhi di tutti: poiché graziosamente marmorizzata nei colori bianco e nero, con riflessi azzurri, era la livrea dei piccoli animali. Al punto da far sospettare, verso la più rapida conferma, del trattarsi nella realtà dei fatti di una versione assai più problematica di quella stessa creatura: il P. fallax f. virginalis, più comunemente detto in lingua teutonica marmorkrebs. Idioma preferito scelto proprio per la sua esclusiva provenienza, dall’epoca della scoperta e classificazione verso la metà degli anni ’90, dalla terra di Germania ed in particolare gli specchi d’acqua di città e dintorni, dove qualcuno aveva avuto la disattenzione di liberarsene facendo spazio dentro dentro l’acqua del suo acquario casalingo. Una storia classica, se vogliamo, di creature che una volta riprodotte in numero eccessivo nonostante l’assenza di un partner, devono essere smaltite ma nessuno sembra averne il “cuore”. Passo semplice e spontaneo, verso il primo cursus dell’Apocalisse incipiente: poiché forse non tutti sapevano, oppure gli importava più di tanto di considerare, la maniera in cui l’animale in questione fosse in grado di riprodursi. Non tramite lo sperma conservato dai suoi precedenti incontri, come avviene in molte specie simili, bensì vendo appreso, essenzialmente, il metodo per fecondare con successo le sue stesse uova.
Ora esistono diversi approcci biologici per effettuare la partenogenesi, non tutti altrettanto capaci di produrre un perfetto clone del singolo, autonomo genitore. Quello messo a frutto dal marmorkrebs, tuttavia, rientra a pieno titolo in questa ideale categoria, sfruttando l’artificio della partenogenesi apomittica, per cui la cellula-uovo non sviluppa mai la divisione maturativa (meiosi) con conseguente mantenimento del numero di cromosomi fino ai successivi passaggio fino all’età adulta.
Il che dota queste creature tutte di sesso femminile e non più lunghe di 10-15 centimetri di un genoma sensibilmente più lungo e complesso rispetto a quello degli umani; nonché triploide, una condizione affine a quella del banano commerciale, che viene fatto riprodurre tramite l’applicazione del sistema della talea. Ora valutate, per un attimo soltanto, le implicazioni di una simile realtà; ovvero la maniera in cui tutto ciò possa essere inerentemente ricondotto ad una singola, irrimediabile anomalia.