L’alto corno celtico da guerra

John Kenny

Niente cementa lo spirito di corpo di un’armata quanto la lunga ombra di un’insegna: stemmi, vessilli, pregni e forti emblemi sopra un palo. Per questo, quando nell’Era Classica, al suono di tamburi e trombe battagliere, i popoli marciavano oltre i propri confini deputati, c’era sempre almeno un attendente, prossimo al supremo generale, che non portava lancia, spada o mazza ed altre cose similmente contundenti. Ma un qualcosa di ben più terribile e meraviglioso, un utile segno di riconoscimento. Lo strumento psicologico del comandante. Che fosse ben visibile dagli alleati e dai nemici al tempo stesso, affinché i primi ne fossero rincuorati, ed i secondi, quanto meno, intimoriti. Il che dava una seconda dimensione ad ogni tipo di battaglia o di tremendo scontro tra diverse civiltà. Quasi come se sopra la mischia dei soldati, fra tanti fendenti e sangue arroventato, ci fosse una guerra tra figure mitiche di belve o di animali, che si agitavano, girando vorticosamente e si scontravano finché alla fine, senza colpo ferire, l’una prevalesse sopra l’altra, ormai priva del suo portatore, mani umane ed insignificanti. Ogni trionfo era passeggero. Col proseguir dei secoli, alla fine, tutto è destinato a scomparire. Così cadeva nella polvere, dimenticato infine, ogni prezioso simbolo, non importa quanto sacro ed involato sopra i mille campi di battaglia.
Considera l’Europa della tarda Età del Ferro, diciamo intorno al 250 a.C. E pensa a tutti quei popoli, distanti e variegati, che si facevano la guerra tra di loro. Tra cui l’unione politica era impossibile, vista l’ottica del vivere tribale. Eppure ancor distante all’orizzonte, decisamente ben lontana, era la venuta di legioni e centurioni, poi acquedotti, templi di mattoni. Allora, già le genti coltivavano le arti e la filosofia, e si riconoscevano in un corpus di gestualità, usanze e costumi che oggi definiamo con un solo termine, benché si estendesse dalle propaggini occidentali della Spagna fino alla Romania, e su in alto, nelle odierne Inghilterra, Scozia e Irlanda: erano costoro i Celti, molti popoli distinti eppure, con molto in comune tra di loro. Il culto rituale della natura, associato ad un particolare pantheon di divinità. L’abilità in campo metallurgico, nella costruzione di gioielli, armi ed altri manufatti. Nonché un certo modo, primitivo ed entusiastico, di far la guerra, quando necessaria. Il che di certo non gli fu d’aiuto, quando giunse presso il settentrione l’ultimo nemico, Roma invicta, la sua disciplina e tutto quello che portava insieme a se. È facile da ammirare: l’aquila romana, in metallo dorato, con il drappo rosso e il numero della legione. Quanto spesso viene trascurato, invece, il gran cinghiale-mostro simbolo dei celti. Che sulla prima, aveva un gran vantaggio: sapeva emettere un potente verso.

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I fiori sono fuori, eccoti una palla d’origami

Kusudama

Ci sono innumerevoli modi, da un’estremità all’altra dell’umana civilizzazione, per comunicare un senso di profonda gratitudine. Baci, abbracci, schiere di regali. A volte basta un gesto, purché sia molto significativo. Qualche altra, invece, occorre rinunciare a qualche cosa. Dimostrare con l’impegno e la giusta dose di abnegazione che si, le cose materiali contano davvero. Ma lui/lei/l’animale, per te, vale quanto il palazzo dell’Imperatore. Pure se tu quest’ultimo, non sai nemmeno immaginartelo!
C’era un tempo un giovane di nome Karoku, che viveva con sua madre in una piccola capanna, in mezzo alle montagne del Chūbu, in bilico tra il Kantō ed il Kansai. I due tiravano a campare faticosamente, ma lavorando in modo onesto. Raccoglievano il carbone da miniere improvvisate, tra le rocce affioranti della cordigliera. Un giorno, risparmiati un po’ di soldi, la donna chiamò a se suo figlio, e disse: “Figlio, recati al villaggio. Con queste sei monete, comprami un tatami“. Faceva freddo ma naturalmente, poiché era un giovane gentile & rispettoso, lui assentì. Indossato il cappotto di paglia ed uscito di casa, camminò a lungo sul sentiero accidentato. Tra gli alberi piegati dalla neve, in mezzo al sibilo del vento. Quando a un tratto vide qualche cosa di tremendamente inaspettato lì, fra le fronde in mezzo all’ombra. Una splendida tsuruka o gru della Manciuria, l’uccello dalla testa rossa, le lunghe zampe, il collo nero e le ali bianche; bloccata, senza un grammo di speranza, nella trappola di un cacciatore. Così pianse disperato, finché non ebbe la sua idea migliore. Karoku, infatti, conosceva il proprietario della trappola. Un uomo burbero, ma giusto, e un vecchio amico di famiglia. Recatosi presso l’abitazione di quest’ultimo, gli chiese di liberare quel magnifico animale. “Perché mai dovrei farlo, piccoletto? Quella bestia l’ho catturata e adesso è mia. Hur, hur, hur…” Signore, disse lui. Prendi queste tre monete e libera la gru. Fu così che il potere del denaro, ancora una volta, si dimostrò determinante. La gru fu libera e felice, volò via. Ma giunto presso il villaggio, Karoku non poté comprare il tatami per la madre, che dovette accontentarsi invece di una ciotola di riso. Nonostante questo lei capì, perché suo figlio, l’aveva tirato su bene. E l’amore per la natura è cosa giusta, in ogni paese del creato.
Passarono i giorni, fra dure picconate e scomode notti, sopra letti ormai del tutto consumati. Finché una sera… Karoku era sul portico della capanna, a guardare lo splendore della Luna. E con sua sorpresa, quella illuminò una splendida fanciulla! Camminava sul sentiero, tra la neve, sorridendo. Lentamente, giunse fino a lui e gli chiese: “Sono molto stanca, posso passare la notte qui con voi?” Dopo un attimo di smarrimento e superato il senso di vergogna per la sua umile dimora, lui accettò. Passò una notte silenziosa. Una mattina di lavoro. Un pomeriggio di piacevoli conversazioni. Lui, stranamente, quella ragazza sembrava già conoscerla da un’intera vita. Quindi a cena, all’improvviso, lei esclamò: “Signora, vorrei sposare vostro figlio!” Ciò colse, naturalmente, tutti quanti di sorpresa. Chi era questa donna, da dove proveniva? Perché voleva unirsi a una famiglia tanto derelitta? Ma Karoku, che già sapeva tutto il necessario, fu subito d’accordo e disse: ordunque, si. Saremo marito e moglie (a quei tempi, a quanto pare, bastava l’intenzione).

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Con il drago sulla punta di una sola pennellata

Hitofude Ryuu 3

Hitofude Ryuu, il suo nome soffia in mezzo al vento, una volta sola e può bastare. Hai mai visto, durante un temporale estivo, la punta di una coda che spariva tra le nubi? Hai notato il ghigno feroce della belva dietro a un fulmine distante? E ci hai fatto caso, quella volta del febbraio scorso, quando le corna d’oro sono emerse per una attimo dal fiume Tevere, ingrossato dalla furia dei terribili elementi, pienamente sufficienti, un tempo, a straripare…Se l’hai visto, lo ricordi. Ed hai tentato di ritrarlo, almeno nove volte. La prima per la testa di cammello. La seconda per gli occhi da demonio. La terza per il ventre simile ad un ostrica. La quarta per le scaglie, come quelle della carpa. Cinque: gli artigli d’aquila. Sei, le zampe di una tigre! Sette, coda di serpente. Otto le orecchie di una mucca, però prive di capacità uditive. Perché tutto quello che il Dragone percepisce, di quel Cosmo che riesce a malapena a contenerlo, lo acquisisce dal suo palco cranico ramificato in cheratina, il più strano degli organi di senso. Preso in prestito dai cervi di foreste rigogliose, eppure differente.
L’hai disegnato. Così, di certo, senza un pregno rituale o l’esperienza. Tali approcci, d’altra parte, non si adattano al sentire dei moderni; hai preso il foglio, la matita. Forse, un pennarello e ci hai provato, bene o male… Il mistico signore del mondo naturale, questo è chiaro, ha molte forme. Ci sono draghi che strisciano nel mondo sotterraneo ed altri che nuotano fra i flutti dell’Oceano. Ce n’é uno, addirittura, che cammina sulla terra, come un millepiedi. E nei bestiari medievali d’Europa, fondati su credenze tipiche della cristianità di allora, il gran serpente era grassoccio, addirittura, un po’ sgraziato. Una penosa manifestazione del crudele satanasso, da trafiggere con spada e lancia ed alabarda.
Nella Cina del taoismo è sempre stato differente. Nel paese in cui il saggio diceva: “Conosci te stesso e il tuo nemico, vincerai cento battaglie” queste creature incomparabili venivano intagliate nella giada, messe sopra un piedistallo ed ammirate. Erano da sempre state considerate, fin dal primo giorno della loro concezione, come la massima espressione dello Yang, principio luminoso. Contrapposto alle feconde tenebre dello Yin, fatte d’ali di Fenice, nel frattempo. C’era dunque, un solo modo di ritrarre questo Dio. Perché di ciò si tratta, non abbiate dubbi. Con suprema reverenza. Stupore, tremori e un senso di tremenda responsabilità. Ben sapendo che se ti dimentichi quel fenomeno del Cielo e non riesci a riprodurlo, poco ma sicuro: Lui, non tornerà da te.

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Finché non giunsero alla forgia di Damasco

Forgiare un martello
Torbjörn Åhman forgia un martello da forgia del peso di circa un Kg e mezzo

Ogni forma di tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magia. E come Arthur C. Clarke, l’autore di Odissea nello Spazio, ben sapeva questa cosa il Grande Yǔ, semi-mitico fondatore dell’antichissima dinastia cinese degli Xia (XXI-XVI secolo a.C.) e primo fabbro fonditore nella storia dell’umanità. Non a caso, tra i suoi molti titoli spiccavano traforatore delle montagne e il minatore felice che bonifica la terra. Secondo la fondamentale opera Memorie di uno storico, scritta dagli studiosi Sima Tan e Sima Qian durante il regno molto successivo dell’imperatore Wu (140 – 87 a.C.) questo grande civilizzatore aveva ricevuto in forma di tributo, dalle nove province del suo regno, altrettanti carichi di un prezioso metallo: il bronzo, fondamento delle arcaiche civiltà. Non contento di impiegarlo solamente per forgiarne umili spade o zappe, l’eroico governante fece dunque portare una significativa parte del materiale all’interno della sua officina personale. E proprio in tale luogo, lavorando giorno e notte per un tempo imprecisato, ne trasse nove enormi calderoni a tripode, riccamente decorati, ciascuno del peso di 30.000 Jin (7 tonnellate e mezzo). L’aspetto maggiormente affascinante di questi giganteschi oggetti rituali, destinati a diventare il modello dell’intera produzione bronzea della Cina antica, era il modo in cui presentassero dei fregi geometrici, e figure di draghi o altri esseri mitologici, non semplicemente realizzati a bassorilievo. Bensì tratteggiate in tre dimensioni, attraverso l’incorporamento sulla superficie metallica di una diversa qualità di metallo, con caratteristiche e colorazione in assoluto contrasto. È soltanto naturale, in un mondo che si perde tra le nebbie occulte della storia, identificare in un tale maestro dell’ingegneria il principio ultimo della divinità.
Nell’antichità d’Occidente, tuttavia, non siamo mai stati governati da un grande forgiatore. La civiltà greca, tra i suoi molti immortali, celebrava l’epica opera del dio Efesto, figlio di Ares del conflitto armato, e di Era, la personificazione femminile della Terra stessa. Egli aveva costruito, nella sua fucina sotto l’isola di Lemnos, ogni sorta di stupenda meraviglia: il carro del Sole, l’arco di Apollo, i sandali di Ermes, addirittura lo scudo del grande Zeus, ovvero la mitica Egida in grado di scatenare di tempeste. E inoltre riforniva di armamenti, fin dall’epoca della guerra di Troia, i principali semi-dei e tutti gli altri eroi dei piccoli e insignificanti umani. Era un genio e un fenomenale inventore, in grado di costruire, secondo alcune tradizioni, figure antropomorfe nel metallo e nella pietra, in grado di muoversi e parlare, veri e propri robot dei primordi, anticipatori dell’androide asimoviano. Ma anche un bruto sregolato, che venne cacciato dall’Olimpo dopo aver tentato di stuprare la sapiente Atena, precipitando lungo una catena fin dentro le viscere del mondo. Si parla sempre del creatore e dei suoi maggiori successi e fallimenti, dimenticandosi le umili origini del suo mestiere. Prima del primo fabbro dell’intero universo, non esistevano nemmeno gli strumenti del mestiere: nessun incudine o tenaglia, soltanto il fuoco eterno e periglioso. Persino il martello, con cui battere insistentemente il canto ritmico della tecnologia, era soltanto un aleatorio sogno nella mente dei sapienti.

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