L’astronomica battaglia combattuta nei cieli medievali di Norimberga

Lo stimato stampatore Hans Glaser tirò a se la leva della pressa, azionando il meccanismo a vite che permise di sollevare la piastra coi caratteri mobili e l’illustrazione intagliata nel legno. Dopo un giro completo della sua officina, finalizzato a far passare i 15 minuti di rito, sollevò orgogliosamente il prototipo del suo nuovo Breites Blatt edizione di Aprile 1561, grossomodo quello che oggi chiameremmo un foglio di giornale quotidiano. L’effetto era notevole: dietro e attorno l’immagine espressiva di un Sole pensieroso, campeggiavano le precise forme di cui aveva sentito parlare gli abitanti del principale centro abitato commerciale della Bavaria, quella stessa Norimberga che fino a 10 anni prima, era stato il centro dei disordini e la guerra civile per la rivoluzione protestante contro il governo cattolico di Carlo V. Più volte assediata e bombardata, come lo sarebbe stato ancora in quattro secoli dopo in maniera ancor più tragica e devastante. Ciò detto, prevedibilmente, ai suoi abitanti ormai poco importava del passato (e non potevano conoscere il futuro) ponendo al centro dell’attenzione pubblica un diverso tipo di conflitto, almeno in apparenza totalmente privo di precedenti: quella che lui aveva scelto di chiamare nel breve articolo, assecondando il consenso del pubblico coinvolto, ein sehr erschröcklich gesicht an der Soñ, ovvero “l’orribile apparizione comparso sopra il Sole” ma che oggi conosciamo soprattutto con il nome che Carl Jung, secondo psicologo del mondo e discepolo dello stesso Sigmund Freud, oltre che noto occultista e seguace delle pseudoscienze, scelse di attribuirgli nel 1958: la battaglia degli UFO di Norimberga.
Il che in effetti, se si sceglie di prendere sul serio la descrizione prodotta dalla nostra principale ed unica fonte coéva in materia, appare quanto mai giustificato, vista la presenza, in aggiunta alle due mezzelune rivolte verso il terreno, poste come ornamenti dietro alla testa dell’astro principale, sfere, croci e strani oggetti cilindrici, che pare si sarebbero “rincorsi” e “scacciati vicendevolmente” da una parte all’altra della volta celeste, fino alla comparsa di una gigantesca “freccia nera triangolare” rivolta verso occidente, seguìta da uno schianto poderoso udito poco fuori i confini della città. Quasi come se durante l’acceso scontro, qualcuno o qualcosa avesse finito per avere la peggio, precipitando rovinosamente nel bel mezzo della campagna tedesca! Uomini verdi, rettili antropomorfi, cavallette alte quanto una persona? Difficile capirlo, visto come all’epoca per ovvie ragioni, l’intero accadimento venne attribuito al “Desiderio Divino di far breccia nel cuore degli uomini” e preso ad esempio dallo stesso Glaser del tipo di visioni surreali che dovremmo idealmente accettare e prendere per cose buone & giuste, piuttosto che interrogarci sulla loro effettiva natura. Approccio non particolarmente scientifico, in un secolo che pur essendo uscito dalla cosiddetta epoca tenebrosa, era ancora ben lontano dall’acquisizione del Metodo destinato a portare, negli anni successivi, al drammatico ed imprescindibile avanzamento della tecnologia umana. Il che in maniera posteriore, avrebbe immancabilmente portato a porsi l’imprescindibile interrogativo: ammesso e non concesso che il buon Jung stesse basando la propria idea su una serie di preconcetti particolarmente soggettivi, restando quindi ben lontano della verità, che cosa, esattamente, accadde in quel fatidico giorno della primavera di metà del XVI secolo nell’entroterra d’Europa?

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La diabolica spirale del più strano fossile americano

Quando l’arco della nostra esistenza si sarà compiuto, dopo l’annichilimento climatico, il collasso della civiltà, l’espletamento dello spazio cronologico occupato dagli umani sarà giunto a compimento, cosa potremo realisticamente dire di aver lasciato ai posteri di un’altra genesi o distante provenienza? Cemento, vetro, plastica e altri materiali. Ma anche e soprattutto, l’eminente sussistenza di un pregresso ingegno; tutto quello che con grande dedizione al mondo che ci è un tempo appartenuto, abbiamo edificato, un pezzo dopo l’altro, le alte torri, lunghe strade. Le profonde gallerie. Ciò che il sole non illumina, ma testimonia come, fuori e dentro le diverse situazioni, fin da tempo immemore l’umano ha posseduto il dono di nascondere se stesso. Eppur non siamo, in tutto questo, soli.
L’ha scoperto, nel remoto 1893, la figura di paleontologo e geologo Erwin H. Barbour, laureatosi a Yale soltanto due anni prima di venire assunto, con sua gran soddisfazione, per il ruolo di capo-dipartimento dell’Università del Nebraska. Una mansione cui scelse immediatamente di far seguito, al sopraggiungere di ciascun fine settimana, con massicce spedizioni di ricerca, condotte assieme ai suoi studenti, nell’intero territorio dello stato. E non passò parecchio tempo, caso vuole, prima che il museo soggetto alle sue cure si arricchisse d’infiniti fossili di provenienza nota. Ed alcuni la cui esplicita natura, almeno in un primissimo momento, restò largamente misteriosa. Daemonelix: la spirale del demonio. Un’oggetto la cui logica del nome sembrò subito rispondere a un bisogno lungamente dimostrato, di attribuir la mano di Lucifero a qualsiasi cosa fosse in grado di sfuggire a quelle logiche per noi del tutto date per scontate. In parole povere un oggetto solido e profondamente conficcato nel terreno, alto fino a 3 metri, dalla forma del tutto paragonabile a quella di un segmento del DNA umano. Fatta eccezione per l’ultimo e più profondo tratto, posto ad estendersi di lato in senso orizzontale all’apparente fine di costituir la “firma” dell’arcano Belzebù. Così che ben presto, continuando ad esplorare con la sua piccozza e vanga l’area attorno ad Harrison, Nebraska, occupata dai letti prosciugati di una vasta serie di laghi preistorici d’acqua dolce risalenti al Miocene (20 milioni d’anni fa) lo scienziato ritrovò svariati esempi totalmente fuori dal contesto, ai quali dedicò una serie di pubblicazioni per proporre la sua opinione al mondo accademico coévo. Spugne, spugne di lago; strano ma vero? Dopo tutto, se simili formazioni dalle dimensioni paragonabili a quelle di un’albero potevano essere il diretto segno di un qualche tipo d’essere vivente, le alternative apparivano decisamente ridotte. L’uomo continuò dunque, nel corso della sua intera carriera, a tentare vie d’approccio alternative al problema, finché nel 1895 sembrò pensare che dovesse trattarsi di antichi sistemi di radici di una qualche pianta largamente dimenticata, causa il ritrovamento di materiale di origine vegetale al loro interno. Una possibile interpretazione alternativa, nel frattempo, giunse dal collega di Filadelfia Edward Drinker Cope, il quale sembrò pensare da subito che le spirali dovessero essere un qualche tipo di ichnofossile, ovvero residui non diretti del prodotto fatto & finito, piuttosto che il corpo stesso, della creatura di cui costituivano indelebile testimonianza. L’attenzione del mondo scientifico, quindi, si spostò sui resti pietrificati di un primitivo mammifero, ritrovato spesso in prossimità di alcuni dei fossili meglio conservati della regione…

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Cose come una cascata che si arrampica sulla muraglia delle isole Faroe

Niagara, Salto Angel, Victoria. Ci sono vari modi d’iniziare un anno bisestile come il 2020 e questo qui è senz’altro, tra tutte le alternative, uno dei più surreali. Il quarantunenne Samy Jacobsen, dell’isola faroese di Suðuroy, si trovava a passeggiare in un mattino uggioso presso la parte meridionale della sua isola, con l’intenzione di provare la fotocamera del nuovo cellulare; quando giunto presso il familiare scoglio alto 470 metri di Beinisvørð, lo ha ritrovato in qualche modo differente. Quasi come sulla sagoma riconoscibile, stagliata contro il vuoto in movimento dell’Oceano, qualcosa d’insolito e luminescente stesse “danzando”, spirito delle acque o l’espressione di un antico Dio? Serpe senza testa e senza nome, adagiatasi sulla montagna, che seguendo il suo profilo minacciava di allungarsi fino all’infinito. Era infatti fatta di quella sostanza stessa che ci da la vita, il liquido ricco d’idrogeno ed ossigeno, che veniva risucchiato verso il cielo nuvoloso dalla forza stessa della tempesta. Corroborato da una simile visione, ed avendola per sempre intrappolata nella sua memoria ed il sensore digitale, fu tempo a quel punto di cercar riscontro. “Mai visto nulla di simile” concordò, parafrasando, sua sorella ed effettiva proprietaria del nuovo iPhone Helen Waag, assieme alla quale egli avrebbe quindi deciso d’inviare la straordinaria occorrenza a più canali di notizie meteorologiche locali & non, oltre a pubblicarla sulla pagina Facebook di lei. Così che verso la fine della prima settimana di questo gennaio, il grande pubblico l’avrebbe conosciuto, accompagnato dal parere dell’esperto meteorologo Greg Dewhurst del Met Office del Regno Unito, riassumibile nell’espressione singolare “Incredibile, magnifico. Trattasi senz’altro dell’esempio tipico di un waterspout, modificato dalle caratteristiche notevoli del paesaggio.”
Già perché provate a immaginare, nella vostra mente, l’effetto di un flusso d’aria calda che si forma all’altezza della superficie del mare, causa la temperatura di quest’ultima, per iniziare a risalire con notevole energia verso le nubi soprastanti. Se non che i venti arrivati di traverso, soprattutto nelle acque gelide del Mare del Nord, iniziano ad imprimervi una potente rotazione, in buona sostanza comparabile a quella che caratterizza i temibili tornado dell’entroterra americano. Affinché il mero spostarsi della nube sovrastante, immancabilmente, contribuisca a far traslare lungo l’asse orizzontale tale orribile costrutto della natura, verso dei recessi che siano auspicabilmente privi di persone. Ed in effetti simili fenomeni, come potrete facilmente immaginare, possono portare a conseguenze relativamente gravi (benché tendano a disperdersi una volta sulla costa) ed è stata una fortuna, questa volta, che la roccia definita un tempo come “Protettore delle Isole Faroe” sia bastata ad arrestare un tale viaggio verso l’autodistruzione. Mantenendo in bilico, per più di un qualche straordinario minuto, la visione senza tempo e senza nome di un qualcosa che mai prima d’allora, macchinario umano aveva ricevuto l’occasione di registrare. Affinché Internet, come suo solito, spalancasse le sue fauci immense, per accogliere quel documento a beneficio di noi tutti…

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Non è verme, non è seppia, non è un incubo venuto dal Pianeta Nove

Voglio, voglio, voglio. Devo avere: questo, il verme segmentato nelle tenebre dell’Universo, sin dall’epoca della sua nascita continuava a cogitare, nei suoi gangli contrapposti ed all’interno dei sedici cuori. Le setole deambulatorie distribuite lungo gli appena 9 cm del suo corpo, intente ad agitarsi con sinuosa successione, l’una dopo l’altra, mentre gli arti simili a tentacoli sulla nuca, ricoperti di organi sensoriali, si protendevano verticalmente verso il “cielo” in mezzo a cui fluttuava, alla ricerca dell’unica soddisfazione che gli fosse noto: un’altra particella di muco, l’escrezione di esseri sacrali, o il cadavere di un gamberetto transitato a miglior vita… Prima di precipitare verso un’esercito di bocche in attesa. Finché un giorno, quel silenzio senza fine venne rotto da un’insolita presenza, cubitale: enorme oggetto, l’astronave dei Terrestri, giunta fino a un tale luogo per lo scopo di seguir la scienza, fino alle più estreme, ancorché crudeli, conseguenze. E fu allora, con terribile risucchio, che il suo mondo venne messo sottosopra e poco dopo, terminato nella formalina. Poiché come si usa dire qui da noi “Conosciamo le profondità marine meno delle stelle fisse ad anni luce di distanza.” E neanche di quelle, nonostante tutto, le capiamo davvero!
Già: qual’è il punto più distante dalla nostra stella che sia logico chiamare ancora, a tutti gli effetti, parte del Sistema Solare? Senza inoltrarci eccessivamente in una simile questione, potremmo scegliere di dare seguito al parere di chi consideri tale definizione applicabile, in linea di principio, soltanto ad oggetti al di sopra di una certa dimensione. Poiché trattasi, nei fatti, di un insieme di “pianeti” e in quanto tale, dipendente da una simile definizione implicita, tanto sfuggente da aver visto declassare il caro Plutone a un semplice ETNO (ovvero Oggetto Estremo “al di là” di Nettuno) e nei fatti, probabilmente, il più grande della collezione. Ma proprio approcciandoci a questi ultimi, l’astronomo curioso non può fare a meno d’interrogarsi sulla maniera in cui le diverse orbite coinvolte sembrino in qualche maniera convergere ed intersecarsi, lungo il tragitto di un qualcosa che potremmo definire un vero e proprio mistero gravitazionale. Il cui nome, in date cerchie, risulta essere Nibiru: l’entità cataclismica, la Nemesi crudele della Terra, ad essa stranamente identica, nonché potenziale responsabile di una scampata distruzione qualche annetto fa. Almeno, secondo l’opinione di un certo numero di sedicenti profeti. Ma cose cosmiche possono trovarsi a contatto anche in regioni oltre la semplice materia! E qualche volta, se le condizioni sono giuste, esseri viventi possono riuscire a transitare lungo l’apertura dei portali, palesandosi d’un tratto all’altro lato.
Seguendo linee di ragionamento in qualche punto compatibili con tale ipotesi potrebbero aver reagito, almeno nei primissimi istanti, gli scienziati coinvolti nel progetto Census of Marine Zooplankton (CMarZ) quando nel 2007 si trovarono al cospetto di una tale…Cosa. Proprio al centro dell’inquadratura del loro ROV (batiscafo radiocomandato) ad oltre 2000 metri di profondità nel bacino afotico (privo di luce) del mare di Celebes, situato grossomodo tra le Filippine e l’Indonesia. Un sistema di profonde depressioni, suddivise da barriere territoriali invalicabili per gli esseri della zona bentica, ovvero abituati a vivere a stretto contatto con il fondale. Tra cui figurano, sopra qualsiasi altro, numerose specie di policheti, vermi segmentati, biologicamente simili agli anellidi di terra, per cui l’evoluzione ha tuttavia costituito una chiave d’accesso verso l’acquisizione di particolari “poteri”. Ciò che nessuno aveva prima d’allora sospettato, tuttavia, era che essi potessero in qualche maniera sollevarsi dalle sabbie senza nome, grazie a un lungo processo di trasformazione e adattamento, in fondo al quale si sarebbero trovati con 50 notopodia (arti a forma di spatola). Più che sufficienti, tutti assieme, a farne sollevare questa varietà dal suolo. E portarla a mezza altezza, proprio in mezzo al cupo nulla. Per intercettare, con gradito anticipo, gli scarti che costituiscono per essa il “cibo”…

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