Domande da luna park: in che modo frenano le torri a caduta libera? E cosa può andare storto?

L’idea che la durata del divertimento debba essere direttamente proporzionale al tempo d’attesa per accedervi è sostanzialmente messa in dubbio dall’esperimento sociale collettivo dei luna park. Luoghi dove la gente si mette in fila, per potersi mettere in fila, aspettando il proprio turno al fine di pagare, ancora e ancora, con il solo fine di sperimentare pochi attimi di esaltazione del cervello rettile che dice: “Cadi! Cadi! Morirai!” Ed è ancor più sorprendente come nel momento stesso in cui ciò sta per verificarsi, debba essere l’angustia stessa di non sapere quanto ci vorrà prima che la gravità terrestre possa prenderci nella sua morsa, a costituire una parte imprescindibile dell’esperienza. Prendete per esempio l’attrazione moderna spesso identificata con il termine in lingua inglese di drop tower (letteralmente: “torre di caduta”) un infernale strumento inventato per tutti quei casi in cui l’impronta strutturale di un’intera montagna russa molto semplicemente non potrebbe trovare collocazione nel piano regolatore del parco giochi, sublimandone l’esperienza fondamentale in due soli gesti consequenziali l’uno all’altro: salire, scendere. O forse sarebbe meglio identificarne un terzo: il tempo prolungato ad infinitum della sosta sulla sommità distante, mentre i piedi scalciano nervosamente all’indirizzo delle plurime formiche sottostanti. Per non chiamarle con il loro vero nome di… Formiche? In taluni esempi quell’attesa, d’altra parte, viene veicolata e messa a frutto dalla coreografia stessa dell’attrazione, un metodo perfettamente rappresentato dai 120 metri del Lex Luthor Drop of Doom di Valencia (California) in cui un discorso minaccioso con la voce registrata del cattivo di Superman ha il compito di far entrare nella parte il pubblico seduto nella scomoda elevata circostanza. Prima che l’attesa termini, e la terra torni più vicina in un singolo battito di ciglio. Ma poiché come afferma un saggio proverbio, non è la caduta a ucciderti bensì l’impatto con il suolo, il fato delle sconvolte vittime è spesso quello di pagare il costo del biglietto per sperimentare nuovamente quei pochi secondi di esaltazione. Dopo tutto, nei ricordi, la ricompensa supera il più delle volte il significativo investimento trascorso nella serpeggiante macchina per la processazione dei clienti.
Attendere vuol dire, d’altra parte, avere il tempo per pensare. E non è insolito che interi gruppi dei partecipanti al grande gioco, non potendo fare altro che osservare gli altri, inizino ad interrogarsi sul funzionamento e la natura della torre antistante. Che cosa l’alimenta, quanto spesso viene ispezionata, come fa a salire, a scendere e soprattutto, a fermarsi. Perché senz’altro può succedere, e sarà successo almeno in qualche caso, che la corrente vada via durante il corso di un “giro”. Eppure non si è udita la notizia, di sicuro effetto, relativa a 16 persone che raggiungono la terra senza requie, per transustanziare il gruppo collettivo delle proprie anime all’altro mondo. Questo perché il funzionamento della tipica torre di caduta libera prevede l’utilizzo di un tipico sistema ingegneristico fail-safe, ovvero capace di fallire in sicurezza, compensando in questo modo l’indesiderabile tendenza all’annichilimento delle vite umane. Come osservabile da una presa in esame maggiormente approfondita di almeno due, dei suoi possibili meccanismi di funzionamento…

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La maestosa bellezza ed il celato terrore delle cascate Murchison d’Uganda

Mentre venivano trasportati dalla placida corrente nella primavera del 1861, navigando oltre la regione di Gondokoro alla ricerca della fonte del Nilo Bianco, la coppia di esploratori Samuel e Florence Baker si trovò improvvisamente a udire un suono minaccioso. Come una mandria di bufali che provenendo da lontano, si avvicinava a una velocità crescente, infondendo nel terreno un senso di tremore ed instabilità che risultava percepibile persino dallo scafo di quel natante. Fermamente intenzionati a ritornare sani e salvi nella natìa Inghilterra, per poter narrare innanzi alla Regina l’enorme portata delle loro scoperte, i due scrutarono preoccupati l’orizzonte. E fu così che per un tempo sorprendentemente lungo, mancarono di notare il rischio serpeggiante che iniziava a palesarsi nel fiume stesso. Acque progressivamente più agitate, sovrapposte da uno strato d’increspature in un continuo stato di mutamento. Mentre gli argini iniziavano, in maniera progressiva, ad innalzarsi. Possibile che poco più avanti fosse situata una sezione di rapide, di cui nessuno degli abitanti indigeni, forse in mancanza delle giuste domande, si era preoccupato di metterli in guardia? Lui guardò a quel punto all’indirizzo l’amata consorte, esperta cavallerizza, cacciatrice, conoscitrice delle lingue Turca ed Arabo che si era totalmente rifiutata d’aspettarlo pazientemente in patria. Per cogliere all’interno dei suoi occhi la stessa improvvisa, acutissima realizzazione: “Ca…Cascate! All’erta!” Da un momento all’altro, senza soluzione di continuità, era giunto il momento d’impugnare i remi. E maneggiandoli con impeto tutt’altro che Vittoriano, pregare intensamente all’indirizzo di uno Spirito superiore.
I coniugi Baker ovviamente, accorgendosi per tempo del pericolo, sarebbero riusciti a scampare il disastro di quelle che essi stessi avrebbero in seguito battezzato cascate Murchison, in onore del presidente della Società Geologica di Londra. Un fato tutt’altro che scontato per coloro che si trovano a raggiungere tutt’ora, per imprudenza o un’eccessiva dose di coraggio, la particolare sezione fluviale del più lungo e celebre tra i fiumi della cosiddetta Africa Nera, dove i toponimi sembrano tendere immancabilmente ad allinearsi con gli appellativi della famiglia reale inglese (Lago Victoria, fiume Albert etc…) fatta eccezione per questo, altrettanto ripetuto in un’alta quantità di contesti geografici differenti: il Calderone del Diavolo. E mai un’associazione avrebbe mai potuto essere più corretta, vista la strettoia della gola ampia meno di 7 metri, in cui l’intero flusso di uno dei principali affluenti del corso d’acqua più lungo della Terra s’insinua prima di effettuare un salto di “appena” 43 metri, reso riflettente alla luce solare alla sommità da alcune intrusioni mineralogiche di scisti pelitici. Trasformandosi nell’evidente dimostrazione pratica e sfolgorante della nozione scientifica denominata principio di Bernoulli, per cui all’aumentare della pressione di un fluido non può fare a meno di subire un incremento anche la sua velocità complessiva. Il che consentiva allora come adesso, essenzialmente, al tale caratteristica del paesaggio di lasciar passare una quantità stimata di 300 metri cubi d’acqua al secondo fino all’ampio bacino sottostante. Sotto lo sguardo, stranamente disinteressato, d’ippopotami e coccodrilli.

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Una festa dalla Cina che dimostra lo splendore pirotecnico del ferro fuso

La testa e la coda, l’alfa e l’omega, la cima e le radici. Non sempre chi pronuncia le fatidiche parole: “Buona fine e buon principio” riesce a realizzare il presupposto conflittuale contenuto in una simile prerogativa, il senso battagliero e fondamentalmente disarmonico che viene generato dall’incontro tra due fasi tanto differenti di un processo in corso di realizzazione. Come quello, per l’appunto, del procedere degli anni ovvero il capodanno, ricorrenza che prevede per l’appunto l’utilizzo di una simile tipologia di auguri. Una costante logica nel senso espresso, se non nelle parole, attraverso l’ampia pletora delle culture e dei linguaggi che si affollano attraverso gli ampi angoli geografici di questo mondo. Come non riesce ad esserlo, di contro, l’effettiva scheggia del continuum presso cui si giunge all’epoca del cambiamento, intesa come il velo cronologico tra l’una e l’altra circostanza; vedi tutto il caso dell’Estremo Oriente, in cui il concludersi di un ciclo stagionale viene individuato tradizionalmente grazie alle fasi lunari, trovandosi per questo in una data variabile tra il 21 gennaio ed il 20 febbraio al conteggio gregoriano dei mesi. Casistica in corrispondenza della quale da ormai almeno 500 anni, nel villaggio non distante da Pechino di Nuanquan, prefettura di Zhangjiakou, tende compiersi un’epica e spettacolare battaglia. Cui non possono mancare di partecipare tre diverse fazioni: un gruppo di fabbri protetti da pelli di pecora e cappelli a tesa larga, il muro di mattoni refrattari dell’antica fortezza cittadina, e un enorme crogiolo di metallo liquefatto, fumante e riscaldato al calor rosso, che potrebbe vagamente ricordare il nucleo di una stella catturata per il pubblico divertimento. Una configurazione già piuttosto stravagante, ancor prima che al palesarsi di un segnale non troppo evidente, gli uomini guidati dal riconosciuto capomastro immergano le loro armi, degli enormi cucchiai in radice di salice, all’interno di quel brodo fiammeggiante. Estraendone copiosi globuli infuocati e poi gettandoli con enfasi devastatrice all’indirizzo di quella parete, che immediatamente li respinge producendo una deflagrazione, causa il significativo differenziale di temperatura offerto dalla propria impenetrabile superficie. Ciò che ne deriva, in base alla pregressa cognizione dei locali, è la rigogliosa chioma dell’albero o fiore di fuoco, metaforicamente rappresentata da un pericoloso diramarsi di scintille luminose, tali da bruciare, ustionare, purificare il male mentre scacciano gli spiriti persistenti dai drammatici e sgradevoli episodi dell’anno trascorso. Il “Colpo ai fiori dell’albero” (打树花- Dǎ shù huā) una soluzione molto… Drastica, e per certi versi irragionevole a un problema filosofico che fin troppo ben conosciamo. Ma che proprio per questo, appare caratterizzata da quel grano d’innegabile eredità culturale, che può essere individuato come patrimonio intangibile della Cina e il resto umanità intera, con tanto di riconoscimento da parte dell’UNESCO, assieme ai tradizionali ritagli di carta originari di questa regione. Tutto bene dunque, purché non capiti un piromane, prima o poi, ad occuparsi della problematica dicotomia apparente…

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Per tornare salvi dal subcontinente, non avvicinarti all’orso labiato indiano

Nulla riesce a esprimere il concetto della calma prima della tempesta, che una scena di siffatto tenore: il gran felino giallo a strisce nere, accovacciato in mezzo all’erba, che sorveglia di soppiatto una creatura scura, dalla corta coda che sia agita mentre appare intenta a emettere un particolare tipo di rumore. Non così diverso da un aspirapolvere industriale, motivato da un bisogno ragionevolmente allineato con tale strumento dell’ambiente umano. Fatta eccezione per un PICCOLO dettaglio: l’aspirazione elettiva di formiche, piuttosto che soltanto polvere del cosmo trasandato e dismesso. Un mezzo passo alla volta, dunque, l’imponente tigre si avvicina all’orso nero con la testa a terra, confidando in una valida riuscita dell’agguato tante volte messo in pratica nel corso della sua lunga esistenza predatoria. Se nonché qualcosa, come un vago presentimento, porta la presunta preda a sollevarsi. Voltandosi di scatto per mostrare, agli occhi dell’aspirante Shere Khan, la forma chiara di una V sul petto, segno iconico e fin troppo ben riconoscibile tra chiunque abbia tentato di disturbarlo. Quel mirmecofago rabbioso, in un simile momento fatale, si solleva allora sulle zampe posteriori. Lasciando all’attaccante il compito di un chiaro calcolo dei rischi e delle ricompense. Il quale con un ringhio soffuso, decide di voltarsi e ritornare dìndi si era palesata prima del configurarsi di tale incontro. Strano. Imprevedibile. Sorprendente. Che cosa può riuscire a spaventare il felino più grande, aggressivo e pericoloso al mondo? Ancora una volta, è la letteratura a venirci in aiuto. Con la descrizione effettuata da Rudyard Kipling del suo amato personaggio, l’allegro danzatore Baloo. Un orso si, ma non del tipo che il film disneyano avrebbe potuto indurvi a pensare.
Poiché togli il Libro della Giungla da quel vago tipo di ambientazione “selvatica” cui viene tipicamente associato, o il setting fantasy-africano dell’ultima incarnazione cinematografica in live-action, e tutto quello che resta nella concezione originaria dell’autore si colloca perfettamente in una particolare regione dell’India orientale. Dove i plantigradi di certo esistono, ma sensibilmente più piccoli del tipico orso bruno europeo o nordamericano, riuscendo a raggiungere in media gli 80-150 kg di peso. Creature il cui nome scientifico Melursus ursinus vuole costituire un diretto riferimento alla loro ben nota passione per il miele d’api, benché la dieta tenda ad includere anche grandi quantità viventi di un diverso tipo d’imenottero, famoso per lo scavo d’intricate gallerie sotterranee al fine di ospitare le proprie comunità prive di ali. Formiche risucchiate grazie all’uso del suo labbro superiore grande e muscoloso, privo d’incisivi sottostanti al fine di formare un miglior tipo d’imbuto, mentre giunge a risucchiare anche parecchie migliaia d’insetti nel corso di una singola nottata di lavoro, prima di tornare sulla cima del suo albero a dormire. Ma poiché la legge di quel bioma, la fitta giungla asiatica, costituisce un luogo inospitale e spietato, può pur sempre capitargli di trovarsi allo scoperto mentre sopraggiunge l’ora del pasto per un grande felino del doppio del suo peso, ragione valida al fine di sfoderare il paio di canini acuminati di cui l’evoluzione ha mantenuto la presenza. Assieme alla particolare caratteristica fisica, da cui deriva l’altro nome assegnatogli dalla cultura generalista: sloth bear, l’orso bradipo dalle zampe sovradimensionate, ciascuna dotata di cinque artigli acuminati e ricurvi che non sfigurerebbero in un film dell’orrore. Tali da suscitare un certo tipo di esitazone, anche nell’aggressore più sfegatato…

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