Geniale scienziata trova un modo per creare la plastica dai fichi d’India

Immaginate le possibilità offerte da un materiale straordinariamente resistente all’usura, impervio alla forza degli elementi, totalmente non permeabile e del tutto incapace di contaminare il cibo. Non c’è bisogno di fare particolari sforzi, dato che già esiste: si tratta della plastica, uno dei miracoli tecnologici del XX secolo, capace d’indurre significativi cambiamenti nella struttura e metodologie operative della società umana. Provate a pensare adesso solamente per un attimo al destino di quest’ultima, in un’epoca durante cui simili sostanze, estremamente economiche e immediate da produrre, dovessero risultare al tempo stesso difficili da riciclare, smaltire o far sparire in altro modo dal ciclo ricorsivo della natura. Di nuovo, a entrare in gioco non sarà la vostra fantasia, bensì il senso critico di chi è capace di guardarsi intorno ed osservare il mondo per quello che realmente è. Sulla base di dove siamo, e la direzione verso cui ci sta portando la deriva degli irrimediabili eventi. È stato calcolato, a tal proposito, come la quantità di plastica prodotta a partire dagli anni ’50 abbia raggiunto le 8.300 tonnellate complessive, di cui soltanto il 9% è stato riutilizzato, mentre la rimanente parte è finita negli oceani, sottoterra, nelle discariche o bruciato, con conseguente contributo all’accumulo di gas venefici nell’atmosfera del nostro pianeta. Il che sottintende ormai da molto tempo, nell’opinione di molti, la ricerca di un valido approccio per contenere, o quanto meno ridurre la rapidità peggiorativa del problema.
Un proposito, questo, alla base del progetto di ricerca autogestito indetto nel corso del 2018 dalla Prof.ssa Sandra Pascoe, ricercatrice di Biotecnologia presso l’Università del Valle de Atemajac a Zapoata, Messico, capace di coinvolgere una buona parte dei suoi studenti ed alcuni colleghi, per la creazione di un nuovo materiale che sia al tempo stesso economico e in qualche modo meno “perfetto” dei polimeri attualmente in uso, svanendo se lasciato esposto alle intemperie o l’acqua nel giro di pochi giorni o al massimo qualche settimana. Idea nata, originariamente, grazie all’osservazione della naturale viscosità di una sostanza tutt’altro che rara nel suo paese d’appartenenza: il cosiddetto succo di nopal, ovvero l’estratto commestibile di piante appartenenti al genere Opuntia, comunemente identificate in Italia con il termine omnicomprensivo di fico d’India. E questo nonostante si tratti, effettivamente, di un tipo di piante provenienti proprio dal continente americano, già coltivata in modo sistematico dalla civiltà degli Aztechi. La specie più comune dell’O. ficus-indica in particolare è nota per la sua capacità, spesso problematica, di crescere pressoché dovunque in Messico e l’intera parte meridionale degli Stati Uniti, invadendo spietatamente parchi pubblici, giardini e i dintorni urbani, causando non pochi problemi a chiunque ami fare scampagnate, particolarmente se accompagnato dal proprio incauto amico a quattro zampe, l’imprudente cane. Ed ecco la ragione per cui negli scorsi mesi, proprio i cladodi (foglie carnose/spinose) di tale pianta sono stati sistematicamente spremuti e messi ad asciugare nel laboratorio dell’università, prima di essere modificati tramite l’aggiunta di vari tipi di sostanze e additivi, finché stanchi di attendere un risultato che sembrava non avvicinarsi, le plurime menti coinvolte sono prevedibilmente passate ad altro. Tutte ma non lei, la Prof.ssa Pascoe , che lungi dal lasciar sfuggire il fulmine dell’intuizione di partenza, ha continuato stolidamente ad impegnarsi verso il raggiungimento di quella bottiglia metaforica capace d’intrappolarlo per il misurabile vantaggio di tutti. Finché al suo ritorno dopo la manciata di giorni previsti per mettere alla prova l’ennesima miscela, non è andata a sollevare ancora una volta il grumo disposto sul suo tavolo. Per vederlo rimaner compatto, seguendo con modalità indivisa il ben preciso movimento indotto dalla sua mano…

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Lo Zen e l’arte di risolvere teoremi col gesso supremo

Situazione ricorrente nell’immaginario delle storie dei film d’arti marziali: il giovane guerriero si allontana dalla civiltà, per sfuggire alla crudele vendetta dei nemici del suo maestro, padre o signore. Per lunghi anni, a partire da quel fatidico momento, sopravvive spaccando legna, coltivando i frutti della terra e andando a caccia di conigli nella foresta. Ed è proprio nel coltivare il perfezionamento di un simile stile di vita, che diventa, progressivamente, il più perfetto degli spadaccini. Strane, indirette connessioni. Che attribuiscono alle attività più umili e mondane, il potere che permette di approcciarsi a una profonda, e duratura strada verso l’Illuminazione. Così come il professore di matematica, che approfondisce il significato più mistico e profondo dei suoi amici numeri, raggiunge il nesso al centro di quel nugolo di dati, ovvero la perfetta dimostrazione della tesi, di fronte al pubblico temporaneamente invisibile dei suoi studenti.
Ma sussiste nel contempo, in tutto questo, un certo quantitativo di abilità, sopratutto nel riempire quella liscia superficie nera dell’esatta quantità che fuoriesce, volta per volta, dai precisi conti frutto di un’intera carriera nel cifrario supremo che governa il regno dei concetti. Utilizzando, niente meno, che dei semplici gessetti. Ecco dunque, la ragione per cui ogni strumento utile a mantenere la propria concentrazione diventa, quasi subito, essenziale. Quanto lo tsuba che mantiene solida l’impugnatura della spada, così come l’acciaio hagane, ripiegato più e più volte su se stesso nella forgia infuocata di un fabbro di fama. Senza invocazioni alle Divine entità che risiedono nelle cose di tutti i giorni, è davvero possibile raggiungere lo stato ultimo dell’Eccellenza? Secondo l’opinione di molti creativi ed artigiani giapponesi, non proprio. Ed almeno giudicare dai risultati raggiunti attraverso gli oltre 50 anni di attività della sua azienda, a pieno titolo rientra in questo insieme Takayasu Watanabe ovvero l’uomo, pensionato dal 2015, che dall’immediato dopo guerra seppe fare del suo mestiere un’arte. E di quell’arte, una leggenda.
Immagino abbiate capito a questo punto ciò di cui stiamo parlando: niente più che semplice carbonato di calcio, risultante attraverso le epoche dalla disgregazione di scheletri e conchiglie, attentamente raccolto tramite metodologie industriali e poi spedito, come ingrediente principale, alla fabbrica di quel marchio celebre per molte generazioni, identificato caso vuole con il termine Hagoromo la connotazione della serie più ricca, Fulltouch. Ora si può fare molto, per custodire e amplificare una leggenda, senza entrare nel particolare di “che cosa”, esattamente, accresca i meriti di uno specifico quantum procedurale. Ma è senz’altro futile, a quel modo, perciò lasciate che vi ricordi brevemente le svariate problematiche degli anni della scuola: il rumore prodotto dallo scrivere sopra l’iconica lastra d’ardesia, con uno strumento che fa polvere, si sbriciola e disgrega. Che si spacca per mandare la punta delle vostre dita contro quella superficie liscia stridente, producendo un suono assai difficile da trascurare. E adesso immaginate quella stessa situazione d’incertezza, moltiplicata per i vasti spazi ricoperti per l’attività d’insegnamento di particolari branche della matematica, con continue interruzioni per sostituire l’attrezzo. C’è davvero da meravigliarsi, se i professori di una simile materia hanno fatto sempre tutto il possibile, per mandare avanti il nastro di un tale tiritera con il giusto acquisto, passando subito alla parte interessante della lezione?

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L’unica “mucca” che genera isotopi radioattivi a comando

L’aspetto tangibile di un bovino non comporta in genere l’utilizzo di un barattolo trasparente al fine di contenere l’intero animale, a meno che il defunto mammifero non sia recentemente passato per un forno crematorio fuoriuscendo dal quale, per quanto ci è permesso di capire, sarebbe alquanto infruttuoso sottoporlo a un comune processo di mungitura. Ma neanche questo specifico isotopo del torio, a voler essere sinceri, uno dei più comuni elementi radioattivi nonché il principale carburante utilizzato nei moderni generatori nucleari, si presenta il più delle volte come un fluido indistinguibile dall’acqua, tanto risulta liquido e trasparente. Certo: qui siamo nel regno dell’avveniristico e del possibile, ovvero tra le alte mura dell’Oak Ridge Laboratory dell’Università del Tennessee. Un luogo che sta agli scienziati che s’interessano di energia atomica, come le riconoscibili rocce del parco di Vasquez in California per i cinefili, comparse in innumerevoli pellicole di fantascienza a partire dal celebre episodio di Star Trek. E c’è una sorta di paradossale equilibrio, nel trovarci proprio qui, dove venne condotto fino alle sue più terribili conseguenze il progetto Manhattan per la costruzione della prima bomba atomica, ad osservare un processo il cui scopo è diametralmente opposto: prolungare, per quanto possibile, la vita delle persone.
In un potenziale Purgatorio di radiazioni che tuttavia conduce al Paradiso, all’interno del quale il nostro traghettatore, ancora una volta, è niente meno che il Prof. Poliakoff, lo spettinato chimico dell’Università di Nottingham che gestisce l’incredibile serie divulgativa The Periodic Table of Videos, uno degli angoli più scientificamente interessanti di tutta YouTube. E si capisce ben presto che il suo fanciullesco entusiasmo, stavolta, appare quanto mai giustificato: la “mucca” del torio è dopo tutto, un processo che potremmo arrivare a definire quasi miracoloso nella cura che potrebbe un giorno offrirci nei confronti della più grave e incurabile afflizione del mondo moderno: il cancro che attacca i tessuti umani. Il sistema ruota attorno, per entrare nel vivo della questione, a una terapia sperimentale sottoposta a trial clinici con risultati notevoli negli ultimi tre anni, che consiste nell’effettuare la radioterapia con un materiale particolarmente raro e in conseguenza di questo, prezioso: l’actinium-225, presente in natura nella quantità di circa 0,2 milligrammi per ogni tonnellata del già costoso uranio. Questo specifico isotopo, che prende il nome dal termine greco che vuol dire “splendore” (ακτίς) proprio perché per tutto il corso della sua mezza-vita di appena 10 giorni emette un tenue lucore azzurro, possiede infatti la capacità di emettere il tipo di particelle radioattive classificate con la lettera alfa, nei fatti composte da due protoni e altrettanti neutroni. Per un peso complessivo in grado di renderle assai meno volatili e nel contempo, molto più efficaci nell’attaccare ogni tipo di cellula, incluse quelle colpite dalla mutazione potenzialmente letale del cancro. Ecco dunque per sommi capi, come funziona la cura: si prende un particolare anticorpo o una proteina, creati in laboratorio per attaccare lo specifico tipo di malattia del paziente, quindi lo si abbina al potente actinium, che per i processi organici del corpo viene portato proprio nel punto dove se ne ha maggiormente bisogno. Quindi nel corso dei pochi giorni attraverso cui quest’ultimo si dissolve, il cancro viene letteralmente bombardato dalle particelle alfa e si spera, in conseguenza di questo, costretto ad arretrare…Se non addirittura debellato.
Ma la domanda effettivamente da porsi è: in quale maniera è stato possibile sottoporre circa 100 pazienti l’anno a questo complessa terapia almeno a partire dal 2016, se l’actinium-225 continua ad essere una delle sostanze più rare della Terra? La risposta, come potrete facilmente immaginare giunti a questo punto, è nella mungitura condotta diligentemente ogni giorno (o quasi) da alcuni dei più precisi tecnici del laboratorio di Oak Ridge…

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Uomo inventa il più potente forno solare della Thailandia

Ogni giorno quel dannato autobus passava all’incrocio Kloom Sakae di Nong Sano, nella provincia di Phetchaburi. Dove Sila Sutharat, ormai da un lungo periodo di 20 anni, gestiva il più rinomato e amato chiosco locale per la vendita di polli cotti alla brace. Un mestiere sereno e onesto, per la maggior parte del tempo… Escluso l’attimo cruciale e reiterato, verso metà mattina, in cui il riflesso direzionato dal parabrezza del mezzo infernale si configurava nella maniera perfetta per incrociare la direzione naturale del suo sguardo, causandogli uno spiacevole quanto persistente senso di accecamento. In un primo esteso periodo, il cuoco di strada aveva tentato di evitare una simile esperienza, spostandosi in maniera preventiva per offrire la sua schiena al punto d’origine del problema. Ma ogni giorno l’autobus passava in un orario leggermente differente, ragione per cui egli finiva, sistematicamente, per lavorare in una posizione scomoda per dei periodi sempre più estesi, finendo per restare lo stesso colpito in un’ampia varietà di occasioni. Cento, mille volte dovette limitarsi a sfogare la propria frustrazione con imprecazioni sommesse o semplicemente immaginate, al fine di non disturbare i suoi clienti. Finché ad un certo punto, da questo Purgatorio delle cose semplici non ebbe l’occasione di formarsi un’idea: “E se io trovassi il modo di trasformare questa mia vulnerabilità in un punto di forza?” Come un lottatore di judo, che veicola la spinta del suo avversario in una presa da cui è impossibile fuggire; come Highlander, che decapita il nemico immortale perché “Dovrà restarne soltanto uno”; come Mega-Man, che assorbe il power-up lasciato dal potente boss al termine di un livello.
Con la ragionevole ed altrettanto pragmatica distinzione, tipica del mondo materiale, per cui l’espressione di una tale iniziativa tende a svolgersi dall’interno verso l’esterno, piuttosto che il contrario. Così lui, zaino in spalla, dev’essersi probabilmente recato presso un fornitore locale di cornici a giorno. E poi un vetraio, o forse essersi procurato presso qualche fabbrica delle grandi lastre a specchio, da tagliare con cautela in tanti pezzettini rettangolari. Unendo quindi le due cose, le ha montate su una complessa struttura di metallo parabolica non dissimile da quella usata in svariate possibili opere d’arte moderne. E sarebbe stato perdonato un qualsivoglia passante che, conoscendo il dramma quotidiano di quest’uomo sereno e onesto, avesse pensato che qualcosa di sinistro fosse scattato in lui, per costruire la più fedele corrispondenza asiatica del leggendario specchio ustore di Archimede usato durante l’assedio di Siracusa per bruciare le navi dei Romani (212 a.C.) e indossare una maschera da saldatore per proteggersi gli occhi da tutta la sua potenza spropositata. E pensa che efficacia avrebbe avuto quel riflettore, contro l’inconsapevole, incolpevole rappresentante del trasporto pubblico urbano! Se non che verso l’orario della presunta resa dei conti, con il Sole già ben alto in cielo, piuttosto che puntare l’arma impropria contro la strada Sutharat la orienta attentamente verso il punto che era stato, fin dall’inizio, al centro dei suoi pensieri: la griglia con il pollo da servire ai suoi clienti. Senza fuoco, senza inganno, poco alla volta la genialità del suo progetto appare più che mai evidente. Mentre un sottile fil di fumo, appena tratteggiato in questo giorno senza vento, inizia a sollevarsi dalla coscia di volatile succosa e palesemente cruda. Si ma ancora per QUANTO, sotto la possenza di un raggio artificiale capace di raggiungere superare abbondantemente i 300 gradi?

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