Le tre illusioni ottiche del maggior ponte nella baia di San Francisco

“Guarda, stupisci, interrogati sullo stato di salute delle tue sinapsi.” Avrebbe potuto facilmente sussurrare a un’interlocutore prototipico l’altoparlante per i passeggeri del volo tra New York e l’area della Baia a bordo del quale si trovava Will Mandis verso la metà del mese scorso, momentaneamente intento a superare la sottile striscia di asfalto sospesa a bassa quota sopra le acque barbaglianti di un territorio dal nesso intellettivo chiaramente inesplorato. Ove le cose parevano rispondere a un tipo di regolamento del tutto nuovo: non era forse quello, perpendicolarmente situato sopra al valido passaggio, un altro volo aereo passeggeri diretto verso lo stesso scalo? E non si trovava forse esso, in un chiaro ed evidente stato d’immobilità sopra un tratto invariabile di un così vasto e strabiliante mare? Fermo, Bloccato, in stato di Arresto, allo Stop, Tranquillo, Sospeso. In maniera paragonabile alla situazione di un pilota di autobus il quale, avendo rilevato un guasto incline a compromettere la sicurezza dei passeggeri, avesse deciso di fermare il proprio mezzo a lato della strada per chiamare il soccorso stradale. Eppur difficilmente la gravità terrestre, nella maggior parte dei casi, tende a permettere quel tipo di soluzioni per i velivoli che necessitano di generare la propria portanza, essendo più pesanti dell’aria…
Diverse, nel frattempo, sono le tipologie di ponte costruite per unire punti contrapposti ai lati di un crepaccio, fiume, dirupo, tratto di mare; così come risultano possibili dei gradi di difficoltà variabili in base alle precise condizioni di ciascuna circostanza vigente. Ed è probabilmente questa la ragione, per cui associando la seconda più grande città della Costa Ovest al concetto di un’infrastruttura stradale di collegamento, l’immagine che sorge con preponderanza nella mente e nei motori di ricerca è quella delle rosse torri svettanti del Golden Gate, la sospesa meraviglia di metà secolo dell’architettura che avvicina la parte più estrema della penisola di San Francisco Bay al resto di quella metropoli dai grandi dislivelli, con la sua luce massima di 1.282 metri sui 2.737 di lunghezza totale. Quasi nulla del resto, in termini di mera distanza, rispetto a quella percorsa dai due trait d’union posizionati nella parte laterale della stessa lingua di terra, di cui il più significativo dei quali posto in essere già nel 1929, il San Mateo-Hayward Bridge, vanta ben 11 Km dall’inizio alla fine, con tuttavia appena 230 metri di distanza massima tra due dei suoi piloni in evidente (o relativo) stato di allineamento. Abbastanza, caso vuole, per riuscire a generare un soddisfacente effetto parallattico per chi volesse tentare, per esempio, di osservarne la prospettiva da un punto di vista sopraelevato. Il che costituisce a dire il vero anche il segreto di tale memetica sequenza d’immagini, in cui il secondo aereo “sembra” soltanto rimanere in quel particolare luogo perpendicolarmente al ponte, causa lo spostamento progressivo di colui che ne ha immortalato l’evidenza a beneficio dell’indefinita posterità internettiana. Niente venti contrari o strani fenomani ad opera di dischi volanti alieni, dunque! Eppur sovviene un’intrigante e secondaria domanda in merito all’intera questione. Non sembra in effetti, anche a voi, che il ponte contenuto nell’inquadratura abbia l’aspetto ragionevolmente approssimativo rispetto a quello di una colossale banana? Appare più che mai opportuno, a questo punto, offrire in merito una spiegazione…

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Così è stato riforgiato l’edificio dove nacque il commercio contemporaneo

L’impietoso trascorrere degli anni può erodere persino le montagne. Figuriamoci d’altronde i ponti, le strade, i palazzi edificati dalle mere civilizzazioni del nostro mondo. Eppure ciò che non ci aspetteremmo normalmente, è che il simbolo stesso di un ambiente cittadino, il luogo che più d’ogni altro aveva il compito di restargli associato nella memoria dei viaggiatori, possa essere lasciato totalmente a se stesso, fino al punto di veder crollare il soffitto frantumando i pregevoli rivestimenti del pavimento, destinati ad essere coperti dal guano dei tipici pennuti urbani. Piccioni che conoscono, laddove ad altri può mancare, l’istintivo senso di essere in presenza di qualcosa di Grande, la residenza un tempo principale del carattere ed il senso dell’intera città di Anversa. “Benvenuti nella Borsa (o Handelsbeurs)” avremmo dunque potuto esclamare in un qualsiasi momento degli ultimi 20 anni. Ma difficilmente sareste rimasti particolarmente colpiti, dallo stato del suo vasto ambiente. Per come l’amministrazione cittadina, tra la sostanziale indifferenza del pubblico, l’aveva lasciata scivolare lentamente verso uno stato di squallore e deperimento. Là, dove dal XVI secolo volta i mercanti medievali avevano scoperto la convenienza di un luogo costruito appositamente per condurre gli affari. E proprio là, dove nel corso delle generazioni si erano susseguiti validi artigiani e decoratori, per offrire un’immagine pregevole della raffinatezza di una delle principali città d’Olanda. Nonché la prima ad aver razionalizzato, come in molti si sarebbero affrettati ad imitarla, la convenzione istituita nella vicina Bruges, secondo cui gli affari dovessero essere condotti in un territorio neutrale, comune e privato al tempo stesso. Che ivi era stato individuato, per convenzione, nella taverna cittadina di Van der Beurze. Come fare dunque per creare un luogo degno d’ospitare i commercianti provenienti da tutta Europa, incluse le repubbliche marinare di Genova e Venezia con le loro pregevoli merci del distante Oriente… L’idea venne a qualcuno con il potere di realizzarla nell’anno 1515, quando lungo il corso del fiume Scheldt venne costruito un edificio con quattro portici che circondavano una piazza centrale, ed una torre campanaria utilizzata per segnalare l’apertura dei commerci. Era questa la Vecchia Borsa (Oeude Beurs) destinata ad essere giudicata eccessivamente angusta nell’anno 1531, quando per volere del Sacro Romano Imperatore Carlo V ed al cospetto del magistrato cittadino ne venne costruita una versione più grande nella parte sud-est del centro cittadino, presso un terreno acquistato dalla famiglia Immerseele. Progettato dall’architetto Domien de Waghemakere, il nuovo edificio imitava la struttura generale di quello precedente, con una significativa rivisitazione dei colonnati costruiti questa volta in stile Neo-Gotico, ed archi trilobati ornati con numerose repliche dello stemma cittadino. Questo fu l’inizio, in un certo senso, dell’epoca d’oro di Anversa. Che non sarebbe stata priva, d’altra parte, della propria dose d’imprescindibili incidenti…

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Assos e il segreto dei sarcofagi che divoravano le spoglie mortali

Sarkos: carne + fàgos: divorare! L’utilizzo continuativo di un termine composito non può necessariamente sottintendere la comprensione istintiva della sua etimologia, specialmente quando esso proviene dal greco antico, una lingua più distante dai moderni idiomi di quanto possa dirsi quella degli antichi Romani. Pur trovando la sua principale giustificazione, dinnanzi agli occhi dei filologi e gli altri studiosi del linguaggio, da un particolare brano in latino facente parte dell’opera di Plinio il Vecchio, Naturalis historia. Nel cui ventisettesimo capitolo, egli fa menzione di un particolare materiale proveniente dalle cave della Troade, la penisola che costeggia lo stretto dei Dardanelli giungendo quindi ad affacciarsi sul Mar Egeo. Ove sorgeva un tempo una città splendente, fondata da coloni della vicina isola di Lesbo, che si erano trasferiti sulla terraferma tra l’XI ed il X secolo a.C. Soltanto per scoprire, ed in seguito trarre un significativo giovamento, dalle locali e profonde cave di steatite, pietra di origine vulcanica simile al basalto utilizzabile in un’ampia gamma di applicazioni. Di cui una, soprattutto, sarebbe stata destinata a rimanere negli annali: la costruzione di tombe, intese come scatole entro cui deporre le spoglie dei propri defunti, affinché le loro anime potessero essere liberate. Ciò di cui Plinio parla nel 77 d.C, riportando probabilmente una nozione facente parte del senso comune della sua epoca, relativa al modo in cui i suddetti sarcofagi sembravano in qualche maniera accelerare la decomposizione delle salme, trasformandole in scheletri completamente scarnificati entro un periodo di appena 40 giorni; contro le decadi, o persino secoli comunemente necessari al fine di raggiungere il coronamento di tale processo. Ma qual era, esattamente, la ragione di questo strano fenomeno e perché veniva giudicato desiderabile a quei tempi? Molte sono state le ricerche compiute in materia, negli estensivi scavi archeologici condotti presso questo sito diventato prosperoso in età Ellenistica beneficiando delle riforme effettuate sul finire del IV sec. da Ermia di Atarneo, schiavo eunuco al servizio di Eubulo, banchiere della Bitinia. Nonché allievo del celebre Platone, avendo ricevuto da lui un’educazione che l’avrebbe indotto a incoraggiare la venuta di studiosi e sapienti tra le proprie mura cittadina, inclusa la figura fondamentale di Aristotele, un suo vecchio compagno di studi. Il quale a sua volta, proprio ad Assos avrebbe fondato la sua prima scuola, essendo destinato ad annoverare tra i propri allievi Alessandro Magno in persona…

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Il dolce del capodanno persiano creato con un singolo ingrediente

Tra tutti i requisiti necessari per giungere al coronamento di una pietanza elaborata, l’impegno è l’unica imprescindibile concessione da parte di colui o colei che ne amministra la preparazione. Non particolari ingredienti. né strumenti avanzati; negare tale assioma sarebbe, in altri termini, come affermare che la componente umana risulti inerentemente secondaria nei processi creativi. Significherebbe considerare il valore di un prodotto artificiale alla stregua di quanto proviene dalle mani e l’ingegno delle madri o nonne, che secondo la tradizionale organizzazione dei compiti nelle culture di matrice zoroastriana vantavano l’esclusiva gestione della cucina, in modo particolare nelle circostanze di particolari o imprescindibili ricorrenze del calendario. Momenti come il Nowruz o nuovo anno equinoziale, corrispondente ad un giorno variabile del mese di marzo secondo le nostre convenzioni nonché data corrispondente all’inizio del mutamento di stagione in base al clima centro-asiatico e del Caucaso europeo. Quando ciascuna famiglia dell’Iran contemporaneo, in base ad un’usanza abbastanza antica da rendere complesso ricostruirne l’origine, espone su di un tavolo i cosiddetti haft sin o “sette vassoi” o particolari offerte, ciascuna identificata con un termine che inizia con la lettera س (“S”): Sabzeh (grano), Senjed (oleastro), Serkeh (aceto), Seeb (mela), Seer (aglio) Somargh (anacardiacea) ed infine l’immancabile Samanu, una sorta di… Pietanza di color marrone, simile ad una purea semi-densa dal profumo particolarmente riconoscibile? Quale sarebbe, esattamente, l’origine di una tale sostanza?
Caso vuole che la sua preparazione, al tempo stesso semplice e laboriosa, costituisca un caposaldo nella cucina stagionale di questo e molti altri paesi, inclusa la Russia meridionale. E che nonostante risulti letteralmente sconosciuto come piatto nell’Europa Occidentale, tale piatto vanti un gusto notoriamente appetitoso apprezzato anche dai bambini, giungendo ad essere considerato letteralmente irrinunciabile per ogni riunione di famiglia che possa dirsi effettivamente priva di difetti. Il che potrebbe forse lasciare momentaneamente basiti, quando si viene a conoscenza della sua effettiva origine: il samanu, o samanak in lingua persiana, səməni halvası in azero, sumalak in uzbeco è semplicemente grano, fatto crescere, passato, filtrato ed infine cotto a fuoco lento. Fino all’ottenimento di un gusto naturalmente dolce ed alquanto memorabile, benché la sua produzione contemporanea tenda ad includere anche una certa quantità di farina o zucchero, onde adattarlo ai palati meno sensibili del mondo moderno. Che non sembrerebbero aver perso, d’altra parte, il piacere che tende normalmente a derivare dalla sua preparazione…

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