L’imprenditrice del Settecento che plasmò l’immagine del Neoclassicismo inglese

Chi può realmente affermare, tra generazioni di filosofi, poeti ed eroi, di aver visto coi propri occhi il volto della splendida Anfitrite? Ninfa in armatura, fiera combattente e potente moglie del dio Poseidone, futura madre dell’infinita progenie antropomorfa dei mari. Eppure tutti conoscono gli effetti della sua presenza. Il modo in cui, soltanto lei, aveva la capacità di placare il suo volubile consorte, ponendo fine alle tempeste in grado di distruggere una nave in mare, o spazzare dalle coste i moli dei pescatori. E così impassibile la ritroviamo, assieme ad altri volti di divinità, sopra gli archi della villa di Lyme Regis, nel Dorset Inglese, appartenuta ad una donna destinata a condividere il suo stesso fato: attraversare le alterne vie dell’esistenza materiale senza nessun tipo di ritratto, anacronistica fotografia o descrizione oggettiva del proprio aspetto. Benché pochi, tra i connazionali della stessa epoca, avrebbero potuto dubitare della sua importanza. Sto parlando, per essere chiari, di Eleanor Coade nata nel 1733 ad Exeter, figlia di mercanti di lana di religione battista e nipote omonima di un’altro grande personaggio femminile del mondo degli affari, la vedova capace di condurre per 25 anni l’industria tessile in origine fondata dal suo defunto marito. Un destino questo, d’investire le risorse economiche di famiglia, che anche lei avrebbe seguito a partire dalla metà degli anni ’60 del XVIII secolo, acquistando una fabbrica di lino e iniziando a farsi chiamare Mrs pur non essendo sposata, come era l’usanza per le donne in affari di quel tempo distante. Per poi compiere, alla tenera età di 36 anni, il passo che avrebbe costituito la maggior fortuna della sua vita: acquistare a cifra di liquidazione la fabbrica di pietra artificiale di un certo Daniel Pincot, mercante londinese del quartiere Lambeth, ormai da qualche mese prossima al fallimento. Come molte altre compagnie del resto, impegnate nella ricerca di quello che avrebbe dovuto costituire il Santo Graal dell’architettura di epoca Georgiana: un modo affidabile, funzionale ancorché durevole, per riprodurre nella fredda brughiera inglese lo scintillante candore dei marmi estratti dalle cave d’Europa, mediante l’impiego dei metodi appartenenti a quel campo ancora largamente misterioso che era la chimica dell’era pre-Moderna. Pietra artificiale, in altri termini, creata sulla base di alterne misture usate per la creazione di oggetti che erano soliti rivelarsi, a seconda dei casi, troppo fragili, oppure spaccarsi col caldo e ancora subire le conseguenze d’infiltrazioni d’acqua a seguito delle piogge, finendo sbriciolate nel giro di un anno o due. O almeno, questo era il destino di molte delle statue, sculture, decorazioni o bassorilievi creati con simili materiali, ma non dei suoi. Questo perché Mrs. Coade, con metodi e in circostanze per lo più misteriose, era riuscita a far produrre una particolare mistura affine al grés ceramico, talmente efficace da poter rivaleggiare con la stessa espressione a noi contemporanea di un simile concetto. Denominata ufficialmente con il grecismo quasi mistico di Lithodipyra (letteralmente: pietra bruciata due volte) ma chiamata da tutti semplicemente “Coade Stone” il principale prodotto della sua fabbrica iniziò quindi a fare la sua comparsa lungo le strade di Londra e nel resto del paese, annoverando tra i propri estimatori personalità del calibro di Sir William Chambers, Robert Adam, James Wyatt, Samuel Wyatt, tutti architetti destinati a lasciare un segno incancellabile nella storia tangibile d’Inghilterra. Non è tuttavia facile comprendere a posteriori, l’effettiva composizione di un materiale a base ceramica, per i processi metamorfici a cui vanno incontro i suoi singoli componenti durante il processo di cottura. Ragion per cui saremmo rimasti, per svariati secoli dopo la chiusura della singola fabbrica capace di produrla, ragionevolmente incerti sull’effettiva composizione di una simile simil-pietra. Almeno finché a partire dal 2015, allo scultore e restauratore Philip Thomason non venne in mente di provare a ricrearla…

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Da Nuova Delhi, la soluzione sostenibile di un condizionatore di terracotta

Da qualche tempo, i visitatori occasionali della fabbrica Deki Electronics nei dintorni di Noida, zona industriale dell’Uttar Pradesh, non possono fare a meno di provare un attimo di straniamento alla presa visione di quello che potrebbe sembrare a tutti gli effetti l’oggetto fuori luogo di un nido di vespe giganti. Con un centinaio di cellette o tubuli che dir si voglia, in ordine apparentemente casuale, e il chiaro contenuto di altrettante future piccole e fameliche larve. Mentre persino il posizionamento risulta in grado di alimentare un qualche tipo di ragionevole sospetto: proprio innanzi al gruppo elettrogeno funzionante a diesel, dalla parte verso cui le emanazioni di calore da parte di quest’ultimo, precedentemente, agivano come una sorta di supplizio estivo nei confronti di chiunque fosse sufficientemente sfortunato da poter passare di lì. Ondate perfette per favorire l’incubazione delle uova dell’eventuale insetto preistorico, pronto a sollevarsi in volo e completare un quadro che noialtri europei avremmo avuto ottime ragioni per definire “dantesco”. Ma altresì allo stesso tempo, supremamente utili a produrre un altro tipo di reazione, dalle conseguenze decisamente più tangibili nonché immediate: causare l’evaporazione sistematica di una certa quantità d’acqua, fatta risalire ad arte in cima alla struttura grazie all’apposita disposizione di una pompa. Poiché proprio questa, nei fatti, costituisce l’idea alla base dell’ultima invenzione di Monish Siripurapu, artista e architetto fondatore dello studio Ant (formica) di New Delhi, il cui apparente amore per l’intero ordine degli imenotteri sembrerebbe rispecchiarsi nel desiderio di lavorare sempre con la massima dedizione, allo scopo di creare un mondo che risulti definibile, in qualche modo, migliore.
Come nel caso di un gruppo di operai che, grazie al suo Beehive (alveare) da oggi potranno beneficiare di un continuo processo di raffreddamento dell’aria, senza gravare in alcun modo sul costo mensile della bolletta della luce del proprio già oberato datore di lavoro. Troppo facile, troppo bello, in un mondo in cui ad ogni azione corrisponde una reazione, e nulla può essere prodotto senza un’accurato instradamento delle forze in gioco? Strana concatenazione d’idee. Laddove è proprio a causa delle pur sempre valide leggi della termodinamica, che una simile installazione può riuscire ad assolvere allo scopo per cui è stata messa assieme dal suo creatore. Quando l’aria calda, prodotta in quantità notevole dal gruppo elettrogeno, si scontra con la piccola cascata di Siripurapu traversale ai tubuli di terracotta, per poi proseguire al di là di essi e in direzione della fabbrica surriscaldata. Ma non prima d’aver sperimentato un fondamentale processo di cambiamento.
Nei fatti, lo stesso prodotto dall’interscambio di stato tra i fluidi prodotto, con notevole dispendio d’energia, dai metodi di condizionamento dell’aria maggiormente utilizzati oggigiorno. Senz’altro tipo di spesa, rispetto a quella sottintesa dal bisogno di pompare qualche litro d’acqua ogni ora. Con un approccio alla questione identificato scientificamente col binomio di “refrigerazione evaporativa”….

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Cartoline da un pianeta dove il sale può spostare le montagne

Quanti drammi e quanti sforzi, quante tragiche battaglie! Nel rincorrersi dei secoli attraverso il corso della storia: continente, Eurasia, zona, Medio Oriente, nazione, Iran. Ciro e Dario, le loro satrapìe, ambizioni di conquista e prove tecniche di un grande Impero; quindi la venuta del Macedone con le sue armate dalle implacabili sarisse ed infine, il corso tormentato di una lunga guerra moderna ed ahimé, contemporanea, soltanto per riuscire a controllare i pozzi di petrolio di una ricca eredità sotterranea. Eppure, è mai possibile? A tal punto essere presi, dal profondo desiderio del tipo di ricchezza che deriva da una simile risorsa, da dimenticarsi il tipo di conflitti che da un tempo assai più lungo, in quegli stessi luoghi, sono stati combattuti sotto-terra. Poiché dove affiora la ricchezza del profondo, che sia liquida, gassosa o in ogni caso fluida, dev’esserci per forza qualche cosa di non permeabile a riuscire a trattenerla. E quel qualcosa, molto spesso, è il sale (NaCl).
Tra tutte le gemme che derivano dalle occasioni di contatto tra diversi componenti minerali, forse la più candida e perfetta, così solida e immutabile, quindi capace di restare suddivisa in singoli granelli indipendenti. Il che comporta, come è noto, la creazione di un ammasso stratiforme che possiede il nome di diapiro. Un po’ come, se vogliamo, la gustosa farcitura di una torta (salata?) che inevitabilmente, per le leggi della fisica, non può che SPINGERE in direzione chiaramente contro-gravitazionale. A ben pensarci, niente di tanto strano: come in mare, come al lago, per quel principio di galleggiamento che permette il galleggiamento di un tappo di sughero, dove ciò che ha densità minore, per suo conto, non può fare a meno di galleggiare. Ma ora immaginate questo stesso identico processo, per le infinite tonnellate di materiali che compongono l’intera zona di contatto tra due placche continentali, quella arabica e le terre emerse tra il Mar Caspio e il Golfo Persico più a meridione. Perfetto: avete appena visualizzato la catena montuosa di Zagros.
Le chiamano cupole benché tecnicamente, non siano che una delle tante possibili espressioni della cosiddetta tettonica salina, tramite la quale molto spesso, le distese derivanti dalle ancestrali evaporiti di un mare ormai prosciugato da incalcolabili generazioni affiorano, perforano ed iniziano a riversarsi in superficie. Creando quelle insolite caratteristiche del paesaggio che ricordano fiumi, ghiacciai e persino cascate. Mutevoli ma persistenti. Almeno finché un’affamata capra, per una ragione o per l’altra, dovesse finire per passare da queste parti…

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L’unica “mucca” che genera isotopi radioattivi a comando

L’aspetto tangibile di un bovino non comporta in genere l’utilizzo di un barattolo trasparente al fine di contenere l’intero animale, a meno che il defunto mammifero non sia recentemente passato per un forno crematorio fuoriuscendo dal quale, per quanto ci è permesso di capire, sarebbe alquanto infruttuoso sottoporlo a un comune processo di mungitura. Ma neanche questo specifico isotopo del torio, a voler essere sinceri, uno dei più comuni elementi radioattivi nonché il principale carburante utilizzato nei moderni generatori nucleari, si presenta il più delle volte come un fluido indistinguibile dall’acqua, tanto risulta liquido e trasparente. Certo: qui siamo nel regno dell’avveniristico e del possibile, ovvero tra le alte mura dell’Oak Ridge Laboratory dell’Università del Tennessee. Un luogo che sta agli scienziati che s’interessano di energia atomica, come le riconoscibili rocce del parco di Vasquez in California per i cinefili, comparse in innumerevoli pellicole di fantascienza a partire dal celebre episodio di Star Trek. E c’è una sorta di paradossale equilibrio, nel trovarci proprio qui, dove venne condotto fino alle sue più terribili conseguenze il progetto Manhattan per la costruzione della prima bomba atomica, ad osservare un processo il cui scopo è diametralmente opposto: prolungare, per quanto possibile, la vita delle persone.
In un potenziale Purgatorio di radiazioni che tuttavia conduce al Paradiso, all’interno del quale il nostro traghettatore, ancora una volta, è niente meno che il Prof. Poliakoff, lo spettinato chimico dell’Università di Nottingham che gestisce l’incredibile serie divulgativa The Periodic Table of Videos, uno degli angoli più scientificamente interessanti di tutta YouTube. E si capisce ben presto che il suo fanciullesco entusiasmo, stavolta, appare quanto mai giustificato: la “mucca” del torio è dopo tutto, un processo che potremmo arrivare a definire quasi miracoloso nella cura che potrebbe un giorno offrirci nei confronti della più grave e incurabile afflizione del mondo moderno: il cancro che attacca i tessuti umani. Il sistema ruota attorno, per entrare nel vivo della questione, a una terapia sperimentale sottoposta a trial clinici con risultati notevoli negli ultimi tre anni, che consiste nell’effettuare la radioterapia con un materiale particolarmente raro e in conseguenza di questo, prezioso: l’actinium-225, presente in natura nella quantità di circa 0,2 milligrammi per ogni tonnellata del già costoso uranio. Questo specifico isotopo, che prende il nome dal termine greco che vuol dire “splendore” (ακτίς) proprio perché per tutto il corso della sua mezza-vita di appena 10 giorni emette un tenue lucore azzurro, possiede infatti la capacità di emettere il tipo di particelle radioattive classificate con la lettera alfa, nei fatti composte da due protoni e altrettanti neutroni. Per un peso complessivo in grado di renderle assai meno volatili e nel contempo, molto più efficaci nell’attaccare ogni tipo di cellula, incluse quelle colpite dalla mutazione potenzialmente letale del cancro. Ecco dunque per sommi capi, come funziona la cura: si prende un particolare anticorpo o una proteina, creati in laboratorio per attaccare lo specifico tipo di malattia del paziente, quindi lo si abbina al potente actinium, che per i processi organici del corpo viene portato proprio nel punto dove se ne ha maggiormente bisogno. Quindi nel corso dei pochi giorni attraverso cui quest’ultimo si dissolve, il cancro viene letteralmente bombardato dalle particelle alfa e si spera, in conseguenza di questo, costretto ad arretrare…Se non addirittura debellato.
Ma la domanda effettivamente da porsi è: in quale maniera è stato possibile sottoporre circa 100 pazienti l’anno a questo complessa terapia almeno a partire dal 2016, se l’actinium-225 continua ad essere una delle sostanze più rare della Terra? La risposta, come potrete facilmente immaginare giunti a questo punto, è nella mungitura condotta diligentemente ogni giorno (o quasi) da alcuni dei più precisi tecnici del laboratorio di Oak Ridge…

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