Rombo di moto tra gli umidi canyon dell’Arizona

Lake Powell Jetski

Primo ottobre 1956: il presidente Dwight D. Eisenhower, adagiato sulla sua sedia regolabile in pelle di caribù, osserva un oggetto di forma circolare che un attendente della White House gli ha portato qualche ora prima. Un vistoso filo nero è stato fatto passare, con suo massimo fastidio, tutto attorno alla pregiata scrivania di legno mahajua, importata direttamente dall’arcipelago delle Filippine. Che strano dispositivo da collegare alla rete telefonica, dentro all’ufficio dell’uomo più potente del mondo! Come una delle invenzioni del proverbiale Wile E. Coyote, personaggio dei cartoni animati, tale pulsante attiva una bomba. Eppure, non c’è un senso drammatico del momento, nel modo in cui il comandante in capo della nazione, con gesto attentamente calibrato, avvicina l’indice destro al detonatore, accanto ad un prezioso calamaio di vetro svedese. Piuttosto, Eisenhower pare stanco, ed ansioso di tornare al suo vero lavoro, mentre i due rappresentanti dello United States Bureau of Reclamation, ente federale dedito alla gestione delle risorse idriche, osservano con entusiasmo quasi palpabile. E forse, a guardarli un po’ meglio, un sorriso leggermente forzato. Alla fine *CLICK – Il dito raggiunge il bersaglio. Dalle rispettive poltrone Chesterfield, rivestite con cuoio di Yarwood e punzonate con vistosi bottoni di bronzo, i due eleganti visitatori balzano sul tappeto: “Congratulations, Mr. President, Congratulations indeed!” Già il meno giovane dei due, un certo Floyd o Freud (?) Gli porge la mano. È rigida e sudaticcia. Cosa è successo? A quasi 3500 chilometri di distanza, presso l’arido confine tra gli stati dello Utah e dell’Arizona, riecheggia l’eco della deflagrazione. Ove prima campeggiavano rocce preistoriche, ornate di antichi graffiti indiani, adesso scorre una piccola parte del Colorado River, il celebre fiume che passa per il Grand Canyon. Perché non si possa dire che ciò che la natura costruisce, l’uomo non può disfare. Affinché i centri urbani di questo distretto, piccoli ma numerosi, possano ricevere un valido apporto di energia elettrica, affidabile, pulita. Mo-der-na. Questi tunnel cavernosi non sono che l’impressionante inizio: nel giro di 10 anni, in questo preciso luogo sorgerà la diga del Glen Canyon. E dietro di essa, si estenderà un enorme lago artificiale. Il secondo più grande degli Stati Uniti, con i suoi circa 30.000 chilometri cubi d’acqua. Il suo nome, se non altro, offrirà un valido spunto di approfondimento.
John Wesley Powell era stato un comandante della guerra di secessione, geologo e scienziato, fermamente dedito all’abolizione della schiavitù. Durante la battaglia di Shiloh (1862) nel verdeggiante Tennessee, stava guidando verso la vittoria la sua compagnia di artiglieri nordisti, quando il colpo di un fucile di grosso calibro lo raggiunse nella parte bassa del braccio destro. L’arto venne amputato e di lì a poco la guerra finì. Eppure, il suo maggiore contributo al mondo doveva ancora venire. Nel 1969, assieme ad altri 9 uomini, partì dal Wyoming verso le regioni recondite del vecchio West. L’itinerario l’avrebbe portato, assieme al fratello disturbato di mente, lungo il corso dei fiumi Green e Colorado, con la finalità di raccogliere il maggior numero possibile di dati sulla regione. Il viaggio fu lungo e difficile. Tre membri della spedizione, presso le rapide successive al Grand Canyon, si ammutinarono e cercarono di tornare alla civiltà, soltanto per essere uccisi dagli indiani Shivwits. Il resto giunse a destinazione ormai all’estremo stremo delle forze, presso quella che sarebbe diventata l’odierna Salt Lake City; da allora questa appassionante vicenda, largamente nota al popolo americano, è stata commemorata in due modi: il film prodotto da Walt Disney, Dieci uomini coraggiosi (1960) ed un labirinto di strette fessure, che conducono, infallibili, fino ad un’ampia polla, dall’acqua limpida e il paesaggio incontaminato. Un centro turistico di primo piano, questo vasto e labirintico lago Powell.
Nonché divertente. Offre ogni sorta di intrattenimento, come una Rimini sospesa tra i diversi deserti del continente americano. Vi sono riserve di pesca, porticcioli, centri sportivi. Vi si pratica il nuoto, il wakeboarding e ci si tuffa dalle alte rocce a strapiombo, poste tutte attorno, senza incorrere in particolari pericoli accessori (niente squali né megalodonti). C’è inoltre la possibilità, per chi non ha carenze di intraprendenza e capacità di guida, di intraprendere un piccolo viaggio di esplorazione, in memoria e celebrazione di quell’uomo che qui rischiò la vita, dopo averla già rischiata altrove, finendo per dare il nome ad un tale bacino. Si comincia prendendo in affitto una moto d’acqua, come il qui presente Christian Yellott, nel suo video da oltre un milione di visualizzazioni. Il resto vien da se, al ritmico suono del propulsore…

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Porto a spasso il pappagallo con la moto

Macaw Bike 2

Quest’uomo comprende la reale potenzialità dell’orgoglioso e variopinto Ara ararauna, il tipico ornamento di un salotto degli amanti degli uccelli, sopra trespoli monumentali e circondati dallo sterco. Novanta centimetri di lunghezza. Oltre un metro di apertura alare. Eppure, tutto quello che può fare è dire il nome del padrone? Chiedere un bramato e piccolo croccantino? Da sgranocchiare, pian pianino, con quel becco ricurvo in grado di sollevare facilmente una valigia bella piena? Piuttosto che imbarcarla e andare in viaggio, come niente fosse, oltre le regioni del domestico languìre… Per giungere alla fine, sui limiti dell’orizzonte. Tra i pietrosi monti di una campagna del Mediterraneo, a pochi metri dell’asfalto e innanzi ai fari di un veloce motociclo, da cui si ode quel richiamo un po’ insistente: “Halŏ? Halŏ?” Non è un videogioco ma un destino di scoperta. Per segnare il tempo della scena o della scienza: è in fondo questo, uno stupendo esperimento. Che dimostra come, ebbene si, è possibile portarsi in giro il proprio uccello prediletto. Senza l’uso del guinzaglio, né di differenti imbracature. Purché ci s’ingegni per volare, pressapoco come lui.
Siamo presso la spiaggia di Kolimbithres, nel bel mezzo del barbagliante Mar Egeo, presso l’isola di Paros. Tra le Cicladi, probabilmente la migliore. E l’autore del video, nonché proprietario del protagonista, si fa definire su Internet con l’handle Waterskyzone. Un nome che suggerisce una passione importante per lo sci d’acqua, benché qui messa in secondo piano, brevemente, a vantaggio di un indimenticabile giretto su due ruote. In sella assieme a Vito, il pappagallo. La vista di un uccello tropicale come questo, per una volta libero di vagheggiare per l’aere sconfinato, susciterebbe normalmente l’immagine di ombrose foreste presso l’equatore e ricche di alberi con accoglienti cavità. Presso cui nidificare, ben lontani dagli umani. Perché è piuttosto raro, per non dire inaudito, che una simile creatura possa un dì tornare libera, una volta assaporata la comodità del vivere dentro una casa. Di essere serviti e riveriti, come un raro gioiello, privo di altro senso che la propria mirabile esistenza. Le ali, allora, si riducono ad un manto di nebbiosa sussistenza. Mentre l’occhio tondeggiante, attento al minimo dettaglio, scruta occasionalmente oltre i pannelli delle porte a vetro, verso il mare o il mondo assai distante. È questo il nostro stesso fato, oltre a quello delle bestie nella casa, se si perde la voglia di rischiare, mettendo in discussione i quotidiani presupposti.
L’evidenza è un torvo consigliere: può sembrare, raggiungendo la maturità, che portare fuori casa il pappagallo, come fosse un Fido quattrozampe, sia un rischio immeritevole di considerazione. Che certamente, un grosso gatto se lo mangerebbe. O un falco se lo prenderebbe, una faina, una formicaleone lo risucchierebbe. E quanto spesso si odono qui a Roma, i versi dei raminghi che si annidano, sperduti, tra gli alberi di Villa Borghese…Ma sono liberi, per le loro penne, addirittura!

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L’esploratore degli iperspazi cittadini

Rob Whitworth

Avete mai sperimentato l’emozione trascinante del flow-motion? Case, palazzi, monumenti e chiese. Li vedrete che scorrono nel vento, persi tra i colori di un vertiginoso vortice visuale. Sarete il vento, oppure il falco. Che con l’occhio attento scorgerà i pur minimi dettagli, senza avere mai bisogno di fermarsi. Ma piuttosto che ghermire piccoli mammiferi, i vostri artigli capteranno le meraviglie di una splendida città: Barcellona, capoluogo della Catalogna, gemma della Spagna e dell’Europa. Il video, intitolato “Barcelona GO!” è stato realizzato su commissione dell’ente del turismo catalano, assieme ad altri quattro di diversi artisti internazionali. Sono tutti disponibili a questo indirizzo. È una sequenza, questa, che si realizza nel miracolo della tecnologia. Una miriade di approcci differenti, nonché apparecchiature, unite assieme come fossero i soldati di un’armata scesa in campo. Per combattere la rigida struttura dei momenti. Si comincia e si prosegue con Gaudì, ovviamente. I due edifici variopinti sull’ingresso del Parco Güell, l’incredibile città-giardino creata sul modello inglese, presso una collina a nord della città, che si spalancano, grazie all’effetto della prospettiva, verso i palazzi e le strade dell’agglomerato urbano. Qui, seguendo una ragazza che cammina a ritmo accelerato, giungiamo presse le imponenti porte della Sagrada Família, la celebre cattedrale in cui s’incontrano il neo-gotico ed il modernismo dell’architetto di Tarragona. Scende, dunque, la notte. La città cambia colore, in un dedalo di suoni e il vocìo soffuso della gente, che improvvisamente si trasforma in roboanti note: perché siamo giunti, senza soluzione di continuità, dentro al Gran Teater del Liceu, qui rappresentato tramite un generoso apporto di computer graphic. Quasi come se quel regno della messinscena, la finzione nobile della cultura, dovesse presagire all’utilizzo della virtualizzazione tridimensionale.
Il termine in lingua inglese d’apertura, l’unione del concetto di “flusso” all’ormai noto “movimento dell’inquadratura” normalmente rallentato (slow-motion) è in effetti un neologismo. L’ha inventato Rob Whitworth, l’inglese autore della memorabile sequenza, per descriverne il particolare meccanismo di funzionamento. Non è questa l’attività passiva del fotografo paesaggista, posizionato in cima ad un palazzo, che dal suo trespolo cattura le passioni della gente. Né, semplicemente, il gesto dell’esploratore avventuroso, che vaga per le strade, telecamera alla mano. Questi due principi, lui li include entrambi, mescolandoli alla perfezione e con un forte apporto d’originalità. L’hanno infatti descritto, presso la stazione radio americana National Public Radio, tramite questa affascinante dicitura: “Ciò che Cézanne fece per le mele, Whitworth lo fa con il traffico urbano.” (cit. Robert Krulwich) E c’è in effetti un che di pittorico, nella sua opera, benché l’intento del paragone fosse, assai probabilmente, evidenziare la scelta del soggetto: un àmbito importante, eppure spesso trascurato. Come il frutto di Isaac Newton. Per una questione di accessibilità stavolta, piuttosto che d’intenzione, visto quanto sia complesso riassumere un vasto centro abitato in due minuti o poco più. Forse, nessuno c’era mai riuscito prima. Che ne dite, del suo tentativo? Ai posteri l’ardua sequenza. (Noi, intanto, guardiamoci anche gli altri video).

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Guidare l’auto tra le onde dell’Oceano Atlantico

The Atlantic Road

Lasciate che vi parli di Atlanterhavsveien, la via asfaltata che s’inoltra nel mare impetuoso diventando una parte inscindibile di esso. Non vi passa sopra, come il Golden Gate. Ne sotto, alla maniera pavida del tunnel della Manica. Come avrebbero potuto, tali sottomesse soluzioni, soddisfare i discendenti dei dimoranti asgardiani? C’è un solo contegno per percorrere, volante stretto fra le mani, il sottile nastro d’asfalto che si estende tra le piccole comunità di  Kristiansund e Molde, ben visibile dai fiordi sul finire dell’Europa…Il coraggio dei vichinghi, l’entusiasmo degli esploratori dalla rossa barba e i baffi a treccia. Ho sognato, questa notte, della strada norvegese affine al ponte mitologico di Bifröst. Lasciate che vi parli della mia esperienza.
Casa-lavoro, quasi come tutti i giorni. Stavo guidando l’argentea Bugatti Veyron che effettivamente tengo nel garage, verso una mezzanotte stranamente luminosa, sul tragitto che conduce fino a Yggdrasill, l’albero del mondo. È molto facile da ricordare, tale strada. Basta prendere l’uscita 45 dell’A90, il familiare raccordo anulare, per poi procedere lievemente di traverso, tra le regioni del sensibile, oltre la quinta o sesta dimensione. Ciò sottintende qualche giro in più, passando una seconda volta per il Via. Procedura conveniente, questa, al fine di ridurre le distanze (lo stradario non vi aiuterà). Di renderle, soprattutto, rilevanti. Nel regno della fantasia, spariscono i confini e i tratti della noia, le semplici autostrade. Restano soltanto attimi di meraviglia. Colline verdeggianti e strabilianti lungomare. Fino al passo dello Stelvio, il secondo valico automobilistico più alto d’Europa, edificato per il volere dell’imperatore Francesco I d’Austria, con la vista sulle verdeggianti Alpi Retiche, il ricordo sempre netto delle grandi glorie del ciclismo. E da qui alla Romania del Transfăgărășan, la serpeggiante via costruita in tempi di guerra, quasi in verticale, scavata con il sangue, col sudore e con la dinamite, che costò la vita a 40 giovani soldati del regime. Per poi diventare, dopo oltre 30 anni, una meta turistica di chi ama fare esperienze di guida fuori dal comune; merito delle peripezie dei tre protagonisti Top Gear, se vogliamo. E che dire della Silvrettastrasse, in Austria, o della Route Napoleon sulla Riviera Francese, che lui percorse nel 1815 ritornando dall’esilio… Racconti per un altro giorno, un’altra notte di guida senza posa. Non erano di passaggio per Yggdrasill. Dopo qualche ora, sul volgere dell’alba sono giunto dunque nel profondo Nord. Oltre la Finlandia e la Svezia, fino al gelo della notte piena d’opportunità.
Terra di antiche rocce, in cui l’erba cresce tra la neve della primavera, forte, nonostante tutto, senza dubbi o esitazioni. Qui, senza mai frenare, il potente motore tedesco che ruggiva alle mie spalle, ho risalito la Trollstigen, o scalinata dei troll. L’impervio passo montano che divide Åndalsnes in Rauma da Valldal in Norddal, dalla cui vetta, se si è fortunati, quando l’aria è molto rarefatta, già si scorge l’acqua della Fine, oltre cui vivono soltanto le balene soffiatrici. Se non fosse per il titolo e la mia premessa, potreste già pensare che il viaggio tra le strade più memorabili d’Europa, per quest’oggi, fosse terminato. Ma così non fu: mancava il culmine finale.

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