Quando il cielo è fuoco, per l’effetto di un magnifico tramonto, lacrime di gioia scendono a zig zag lungo le guance dei poeti. Quando il mare è fuoco, soprattutto i naturalisti piangono per il naufragio del grande battello, mentre intere moltitudini di animali si ricoprono di petrolio nero e letale. Ma quando è la terra stessa, a ricoprirsi di fiamme, nessuno può più fingere che non stia succedendo nulla. Mentre lingue ardenti seguono le strade, s’inoltrano sui campi coltivati e si avvicinano alle comunità umane, circondandole in un cerchio di assoluta e imprescindibile devastazione. Il che vuole corrispondere, in secondaria linea d’analisi, a una situazione atmosferica particolarmente secca e calorosa, in cui le piante stesse di trasformano in materia pronta da ardere, per l’effetto di un sole particolarmente piromaniaco nel corso di determinate stagioni. Lo stesso tipo di clima, per inciso, che risulta in larga misura inadatto al prosperare degli insetti, creature che necessitano di umidità per sopravvivere, in misura mediamente assai maggiore dei vertebrati. Ed è probabilmente proprio per questo che nella percezione largamente data per scontata in America dei Lampyridae, esiste una sorta di linea di demarcazione mediana, per cui soltanto coloro che vivono ad est di un’ideale linea in grado di dividere verticalmente il continente, possono vedere la notte accendersi letteralmente di un milione di piccoli fuochi. Una giustificazione almeno in apparenza valida e ragionevolmente realistica in altri luoghi del mondo, benché determinate circostanze rilevanti localmente sembrino smentirne l’applicabilità eminente; quando si considera l’impressionante quantità di lucciole avvistate occasionalmente nelle notti dello Utah e del Wyoming, nonché la minore ma pur sempre presente popolazione dell’Arizona. Luoghi in grado di configurarsi, in determinati punti del proprio territorio, come simili a dei veri e propri deserti. Se le lucciole non temono simili particolari circostanze meteorologiche, a questo punto, diventa del tutto naturale chiedersi: dove sono i piccoli volatori sfolgoranti di Washington, Oregon e California? Caso vuole che da lì non siano mai spostati, da un tempo approssimativo di svariati milioni di anni. Mutando tuttavia in maniera significativa, per l’effetto della selezione naturale e conseguente mutazione delle proprie inerenti prerogative comportamentali.
Il fatto che in molti degli abitanti locali affermino di “non aver mai visto una lucciola” è d’altra parte riconducibile all’inerente caratteristica diffusa nella maggior parte delle specie locali, appartenenti alle sotto-famiglie Lucidotini, Pyropyga ed Ellychnia, all’interno delle quali non sono gli svolazzanti maschi ad emettere i caratteristici segnali lampeggianti bensì le femmine prive di ali, capaci di mantenere fino all’età adulta l’aspetto delle tipiche larve segmentate di questi coleotteri, e giungendo ad emettere appena un tenue lucore difficilmente visibile dall’occhio umano. Ma l’effettivo distinguo che occorre applicare, persino una volta modificate le aspettative in materia, è più che altro di natura relativa all’organizzazione cronologica dell’intera faccenda. Poiché simili insetti, persino nella caotica stagione degli accoppiamenti, non sono affatto soliti praticare le loro sfolgoranti danze dall’alto grado di sofisticazione successivamente all’ora del tramonto. Bensì durante le ore diurne già inondate d’energia fotonica assai più significativa ed incombente, tale da annientare ogni possibile principio d’avvistamento. Lasciando i pochi spettatori alquanto stupiti, quando si considera la ben nota gravità dell’inquinamento luminoso per simili specie d’insetti, tale da impedire il loro normale ciclo dell’esistenza caratterizzato da un copione particolarmente preciso. Almeno finché non si nota, scrutando da vicino un esemplare di queste lucciole di dimensioni particolarmente piccole e colorazione per lo più nera, con appena qualche nota di colore rossastro sui bordi, la determinante assenza di un vero e proprio fotoforo caudale, ovvero l’essenziale “lampada” delle proprie specie cognate. Questo per l’innato ritorno ad un diverso approccio biologico, frutto di precise scelte operate attraverso il trascorrere di molti secoli e millenni di cambiamento…
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Risplendi magica farfalla sussurrante, che tutti si ostinano a chiamare pipistrello
Lo gnomo Ygor si appoggiò alla radice sporgente dell’albero, mentre saliva l’irto declivio per tornare verso il villaggio segreto. “Un pericolo, un pericolo e non c’è niente da dire” Mugugnò tra se e se, pensando alla concisa profezia del suo vecchio amico, il Loris Lento dello stagno in fondo alla radura gialla: “Un giorno una creatura proveniente dalla Luna ti morderà. E volerai lontano assieme ad essa, lasciando dietro ogni persona a te cara” Ma talvolta, occorre fare il giro delle trappole in orari strani, soprattutto quando si ode rapido il frinire di una cicala. Segno imprescindibile, che un artropode perduto sta aspettando di ricevere la misericordiosa liberazione… E non si può lasciare un insetto nobile, a soffrire dentro il cappio fino alle ore tarde della sera. Calcando giù il cappello consumato, la corta spada segnata d’emolinfa rassicurante al suo fianco, Ygor tese le sue orecchie a punta per meglio capire da dove venissero i suoni poco familiari di una notte d’autunno come questa: il sommesso parlottare della civetta delle palme; il sibilo della vipera dalle labbra bianche; il richiamo insistente del barbagianni delle erbe orientale. Ma soprattutto, un sommesso rumore di passi proveniente dal suo fianco destro, dietro un gruppo di funghi abbarbicati alla corteccia ruvida di un tronco particolarmente antico. Appena il tempo di girarsi, e lei era lì: spietata e terrificante. Alta poco più di lui, 4 cm di appariscente figura coperta da uno spettacolare mantello arancione e nero, la fata lo guardava con occhi desiderosi e la bocca leggermente aperta, canini bianchissimi che s’incontravano sul fondo vermiglio. “Vieni, vieni a me” Sembrava quasi pronunciare, coi movimenti economicamente eleganti delle sue gambe affusolate, tra cui pendeva un’impossibile coda a ventaglio. Ygor, d’un tratto perfettamente immobile, pensò per qualche attimo di tentare la fuga. Ma non è possibile cambiare il tuo destino, non più di quanto si possa resistere al morso di un vampiro, primo capitolo di un cambio d’esistenza radicale. La spada cadde rumorosamente a terra. “Loris mio, ti ringrazio. Tu l’avevi sempre saputo.” Due passi avanti, il secondo un po’ titubante. Prima che fosse lei a farsi avanti, mordace.
Non c’è metamorfosi, non c’è stregoneria, non c’è mistero. Se vogliamo usare termini di paragone razionali, nel discutere la singolare faccenda del Kerivoula picta o pipistrello dipinto, o ancora traducendo in maniera letterale dalla lingua bengalese, il solo ed unico “pipistrello farfalla”. Chiamato anche il singolo mammifero volante più magnifico al mondo, grazie al possesso di una splendida livrea creata in alternanza, formata da tonalità scure contrastanti inframezzate a pelo rosso, giallo, marrone o ogni altra possibile via di mezzo visibile nell’ampio catalogo delle livree animali. Una creatura piccola e divoratrice d’insetti, come ogni altro volatore notturno del genere tassonomico Vespertilionidae, risultando capace d’apportare un contributo indubbiamente positivo per la vita umana nella parte meridionale dell’Asia, notoriamente caratterizzata da una grande quantità di vettori patogeni proveniente da quel mondo di creature che ronzano dopo l’arrivo della sera. Il che, del resto, non è stato sufficiente a preservarne l’esistenza indisturbata nel procedere dei giorni, visto l’usuale carico di problematiche superstizioni fino all’epoca moderna, e successivamente a tutto questo l’esistenza problematica di un animale tenuto in considerazione particolarmente elevata, ma soltanto dopo che è stato ucciso, preservato ed esposto all’interno di una pratica cornice da esposizione. Proprio come una farfalla, una falena, uno scarabeo dalla schiena chitinosa troppo variopinta per poter continuare a vivere indisturbato. E finisce per essere soprattutto quella, la sua condanna…
Il paese in cui le trote nuotano tra i tronchi di antiche foreste pedemontane
Era il 1911 in Kazakistan quando il topo delle betulle discese nuovamente dalle propaggini della catena montuosa Tian Shan, ormai ricoperta di un impenetrabile strato di candida neve. Come ogni stagione invernale, preoccupato di spostarsi presso regioni forse più affollate dai predatori, ma proprio per questo capaci di offrire una maggiore quantità di fonti di cibo ed opportunità di sopravvivenza. Mentre innanzi a lui poteva udire, quindi, il familiare suono del fiume, notò qualcosa all’orizzonte che pareva capovolgere le sue consuete aspettative di roditore: il cielo che sembrava estendersi, in maniera anomala, fin sotto il livello dei suoi piccoli piedi prensili. Permettendo in questo modo agli alberi, senza nessuna soluzione di continuità apparente, d’interrompere la progressione naturale di chioma e radici, chioma e radici in senso prospettico basato sulle più assolute logiche dell’universo. Ma comparire soltanto come una serie di punte aguzze in ordine discontinuo, simili ad altrettanti arpioni conficcati nel corpo di una balena. Non che il piccolo visitatore, preoccupato a questo punto sul corso delle sue prossime azioni, avesse mai visto quella megattera azzurra (B. musculus) cui qualcuno aveva dato ironicamente il suo nome (musculus=topolino) né del resto fosse pronto a riconoscere istintivamente l’aspetto di un’intero schieramento di una flotta in battaglia, improvvisamente fatta inabissare da un possente vortice della natura. In una voragine di appena 400 metri di lunghezza per 30 di profondità, nel suo punto centrale. E tutto questo in grado di manifestarsi all’improvviso per un mero concatenarsi di causa ed effetto, tale da modificare ciò che era possibile, o persino probabile, in questa terra di confine priva d’interferenze dettate dall’ostinata e imprescindibile presenza degli umani. Poiché i mutamenti paesaggistici possono avvenire attraverso il lento trascorrere d’intere Ere geologiche, grazie all’effetto degli agenti atmosferici o l’erosione chimica di rocce lungo il corso di un fiume. Oppure nel giro di pochissimo tempo, generalmente grazie all’intervento più o meno appropriato di coloro che pretendono di controllare il corso della natura… Salvo casi eccezionali, come quello del relativamente insolito e di certo memorabile lago di Kaindy.
Immaginate dunque un improvviso rombo di tuono, seguito dal più orribile e continuativo dei tremori: “Terremoto, allarme, terremoto!” Grida qualcuno. Siete parte di una tribù seminomade delle steppe, accampatosi come ogni inverno presso le verdeggianti valli del fiume Chon-Kemin. Con repentino senso d’autoconservazione, lasciate immediatamente la vostra yurta, per correre nel centro dell’insediamento privo di strutture in grado di cadere sopra la vostra testa. Per lanciare un gran sospiro di sollievo, proprio mentre qualcosa di nero, ed enorme, inizia a profilarsi minacciosamente all’orizzonte. Sto parlando, per la cronaca, dell’intero fronte di una frana in grado di spazzare via tutto quello che avete di più caro al mondo. La massa imponente di pietre s’ingrandisce, vi sovrasta, quindi continua verso la sua strada. Essa non può e non deve fermarsi, finché avrà pagato il suo tributo imprescindibile alla gravità. Siete ancora vivi? Se così fosse, oltre a ringraziare il Grande Spirito delle steppe, c’è soltanto una cosa che potete fare. Scrutare in basso, per apprendere lo stato inusitato della situazione. Poiché la sotto, non c’è più un corso d’acqua che prosegue ininterrotto fino al lago di Balkhash, uno dei più vasti di tutta l’Asia. Bensì una diga, alta e invalicabile, nata nel giro di pochi attimi ma destinata a durare un grande numero di generazioni. Circa 452 persone, nel complesso, erano morte nel corso di quei pochi attimi di puro ed assoluto terrore. Mentre qualcosa di nuovo, avrebbe preso forma dalle tenebre quantistiche dell’esistenza. Quando al cadere delle piogge, l’acqua avrebbe iniziato progressivamente a straripare da quei precisi argini che in tanto tempo, era riuscita a tratteggiare…
Come il volo dei dinosauri sopravvive, nell’antica strategia di fuga del chukar
Superbe, gigantesche, ponderose creature, alte almeno quanto un pachiderma e non più agili di lui; questo continua ad essere, con l’aiuto d’innumerevoli illustrazioni e narrazioni popolari, l’interpretazione universalmente data per buona di quelle robuste presenze che un tempo dominavano la Terra. Il che potrà anche essere formalmente corretto, in una lunga serie di casi lungamente vissuti e svaniti attraverso un periodo di quasi 200 milioni di anni, ma non arriva neanche lontanamente a incorporare l’intera vasta portata della questione. Dove per ogni membro ed esponente della cosiddetta megafauna, ciascun incubo di denti, grossi muscoli e una coda irta d’aculei devastanti, uno svelto e scaltro corridore, dai sensi acuti ed affilati dal bisogno, percorreva le distese in cerca di un rifugio valido a poter sopravvivere un altro giorno. Tutti quegli erbivori e non solo, la cui dimensione oltre che l’aspetto poteva essere ricondotto vagamente agli odierni uccelli con la loro andatura dondolante, come gli oviraptosauridi e terizinosauri. Tacchini da guerra se vogliamo, ma del tutto privi di un aspetto che dovremmo definire assolutamente primario nella descrizione di quel pennuto: la presenza di un pur sempre pratico, sebbene poco utilizzabile paio d’ali. Così attraverso il trascorrere degli eoni, i loro discendenti come il deinoico, l’achillobator e ovviamente, il velociraptor, avrebbero iniziato a guadagnare un qualcosa di essenzialmente riconducibile ad un folto manto di piume. Ma nessuno aveva mai capito, essenzialmente, in quale maniera avessero imparato il segreto del volo, ovvero quale tipo di pressione evolutiva potesse indurre a sollevarsi da terra, dimenticando ogni potere residuo posseduto dal principio universale della gravità. Almeno finché al biologo Kenneth P. Dial dell’università del Montana non venne in mente d’osservare più da vicino, ed in maniera estremamente approfondita, l’essere più simile che ancora abbiamo a dimostrare chiara discendenza da una simile ed antica genìa: la graziosa e amata coturnice orientale, ovvero quella che viene chiamata su scala internazionale con il nome scientificamente onomatopeico di Alectoris chukar. Stiamo qui parlando di un fasianide originario della zona Paleartica con vasta diffusione in India e Pakistan, Iran, Turchia e parte dell’Est Europa, ma favorito dai cacciatori di mezzo mondo, per la sua facilità ad adattarsi ai climi non nativi ed un’innata fiducia nei confronti degli umani. Completamente all’opposto rispetto al comportamento schivo e riservato della nostrana Alectoris graeca, del resto esteriormente distinguibile soltanto per la presenza di un ulteriore piccolo trattino nero a concludere la linea che circonda gli occhi, il becco e il collo di entrambi. Eppure dotato fin dal momento della nascita, cionondimeno, di un potente meccanismo di sopravvivenza che potremmo ricondurre alla più chiara ed assoluta origine del volo. Identificato da un acronimo moderno che pare quasi derivare dal regno tecnologico dell’aeronautica umana: sto parlando del WAIR, o Wing-assisted incline running, locuzione che potremmo tradurre come “Corsa in salita con l’assistenza delle ali”. Questo erbivoro e spazzino opportunista di semi, frutta caduta ed altre fonti di cibo esclusivamente vegetali (sebbene non disdegni di andare in cerca di spazzatura negli ambienti urbani) appartiene in fatti a quel particolare gruppo di volatili che, pur essendo capaci di spiccare il volo mediante l’uso delle proprie corte e tondeggianti ali, preferisce mettersi in salvo da potenziali situazioni di pericolo semplicemente sfruttando le sue zampe rosse e potenti, correndo via veloce del sottobosco. E se possibile, lungo la superficie quasi verticale dei tronchi. Capite di cosa sto parlando? Qui siamo di fronte a una creatura il cui estinto, soprattutto quando recentemente fuoriuscita dall’uovo e il nido dei suoi genitori, generalmente costruito come un buco nel terreno nascosto tra felci o cespugli, possiede un istinto innato ad arrampicarsi, nonostante l’assenza di appositi artigli, arti prensili o altri ausili concessi dall’evoluzione. Ma un qualcosa, se vogliamo, di ancor più efficiente a tale scopo: la capacità di far muovere lo strumento aerodinamico delle sue ali. Prima ancora di annullare completamente la spinta verso il basso posseduta da qualsiasi entità materiale, ma riducendola abbastanza da poter correre in maniera quasi verticale. Un po’ come fatto da Neo di Matrix, in uno dei film più rappresentativi del passaggio di secolo tra gli anni ’90 e il 2000…