Il tacchino sacro che ruggisce come una moto

All’interno di un’area di 130.000 chilometri quadrati che si affaccia sul Mar dei Caraibi, tra i confini dello stato peninsulare noto come Yucatàn, può capitare di assistere a uno spettacolo naturale estremamente rappresentativo di questo particolare contesto geografico e ambientale. Così stranamente memorabile da non lasciare in alcun modo sorpresi che per l’antica civiltà dei Maya, rappresentasse per quanto ci è dato di capire un motivo di timore reverenziale, portando il suo protagonista a un ruolo di primo piano nel loro complesso sistema di divinità. Chalchiuhtotolin, erano soliti chiamarlo, che oltre ad avere un suono onomatopeico significa “tacchino di giada”, in riferimento alla particolare livrea ingioiellata di una creatura il cui aspetto generale, anche lontano dalla stagione degli accoppiamenti, risulta ancora drammaticamente affascinante. Ma è soltanto verso la fine di febbraio, quando i gruppi sociali di fino una ventina di esemplari che caratterizzano il Meleagris ocellata iniziano a dividersi, con i grossi maschi di fino a 5 Kg di peso avviati singolarmente per la propria strada, che questo fasianide del Nuovo Mondo riesce ad esprimere il suo massimo potenziale. Allora può capitare riuscire a sentirlo, prima ancora di scorgere un riflesso cangiante tra i folti cespugli delle Chiapas, mentre emerge ed in un solo movimento apre la grande coda, caratterizzata da una profusione di figure circolari che sono gli “occhi” da cui prende il nome scientifico e la sua corrispondenza nella lingua comune. Lungi dall’accontentarsi semplicemente di questo, tuttavia, l’insolita creatura inizia quindi il rituale della danza usata per attrarre e conquistare una potenziale partner, nel corso della quale batte a terra le ali ed emette a più riprese il suo particolare glogottìo, profondamente diverso da quello dei parenti nordamericani. In un crescendo al tempo stesso stridulo e melodioso, il cui ritmo ricorda da vicino quello di un piccolo motore in corso d’avviamento.
Una notazione a cui è importante dare rilevanza, per riuscire a comprendere a pieno il ruolo di questi animali nei vasti imperi delle civiltà pre-colombiane, sono i ritrovamenti archeologici dei loro scheletri, avvenuti all’interno di sepolcri e tombe sacerdotali. Dal che è stato desunto, e riconfermato in numerosi studi tra cui l’ultimo risalente a gennaio di quest’anno (Diversity of management strategies in Mesoamercan Turkeys […]Aurelie Mann et al.) che simili volatili non fossero soltanto, né con particolare frequenza, addomesticati con lo scopo di finire serviti nel corso di un pranzo o una cena. Bensì tenuti in alta considerazione come animali domestici e talvolta, persino sacrificati assieme al loro padrone per accompagnare il suo spirito nell’aldilà. Il che, incidentalmente, costituiva un grande onore per le culture native di questi luoghi, in cui la morte per il bene altrui veniva considerato l’unico modo per cancellare il naturale egoismo di ogni essere vivente, offrendo una piccola possibilità di sfuggire al crudele destino di una non-vita senza luci o alcun barlume di speranza. Persino in tale contesto inusitato, tuttavia, il tacchino ocellato trovava una posizione particolare, essendo direttamente considerato un nahual (forma animale terrena, o se vogliamo usare un termine del linguaggio globalizzato, avatar) del dio Tezcatlipoca, nume tutelare di ogni forma  di malattia infettiva e pestilenza. In altri termini, l’araldo stesso della fine di un’intera civiltà, come determinato dai microbi europei trasportati fin quaggiù dalla venuta dei conquistadores europei.

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Svelata l’origine dell’uccello più Inaccessibile al mondo

“Preso, finalmente!” Sembra quasi di udire ancora tra i ventosi promontori, situati a picco sul mare, dell’isola il cui nome contiene una dichiarazione programmatica d’intenti. Inaccessibile, anche nei fatti a causa della sua particolare posizione geografica, le condizioni meteorologiche e la natura delle coste non propriamente favorevoli all’approdo. A parlare, fu il biologo e naturalista Martin Stervander dell’Università di Lund in Svezia, rivolgendo l’esclamazione all’indirizzo dell’invisibile mist net alias “rete giapponese”, usata in tutto il mondo dai suoi colleghi per catturare esemplari di uccelli di vario tipo. Il che dovrebbe convenzionalmente indicare, il più delle volte, creature volanti. Ragione per cui l’apparato presenta delle apposite tasche situate a diverse altezze della sua estensione, in cui le creature in questione possano ricadere senza riportare alcun tipo di danno prima di essere esaminate con tutte le perizie del caso. Ma poiché la sua missione, in quel particolare caso, assumeva connotazioni assolutamente diverse dalle aspettative usuali, persino una simile impresa aveva richiesto uno sforzo maggiore del previsto. E ad agitarsi tra le maglie della trappola, coadiuvata da un registratore con il verso di un pigolante invasore del territorio, un coraggioso piccolo uccello, la cui funzione ecologica locale potrebbe essere paragonata a quella di un topo. Il che significa, in altri termini, che il rallo denominato Atlantisia rogersi (o semplicemente “dell’isola Inaccessibile”) non può assolutamente volare, passando piuttosto le sue giornate nascosto tra l’erba, andando a caccia d’insetti, vermi e altri artropodi, del tutto inermi dinnanzi ai suoi temibili 15 cm di altezza.
Creaturina marrone scuro che, per le implicazioni inerenti della sua stessa esistenza, ha costituito fin dall’epoca della sua prima descrizione scientifica un enigma assolutamente non trascurabile. Com’era effettivamente possibile, si chiesero nel 1922 i membri della spedizione Shackleton–Rowett, prima dei tempi moderni a passare da queste parti, che una creatura non volatile né tanto meno migratoria fosse riuscita a giungere fino a questa particolare isola dell’arcipelago Tristan da Cunha, nel mezzo del nulla a 2.432 Km di oceano da Città del Capo, e 3.486 dall’arcipelago delle Falklands a largo dell’America meridionale? La prima ipotesi è contenuta nel nome stesso Atlantisia, costituendo un chiaro riferimento all’esistenza di antichi paesi sprofondati per l’avanzare di una singola, devastante onda di marea. Dovete considerare che all’inizio del secolo, prima che l’ipotesi di di Alfred Wegener sulla deriva dei continenti fosse realmente accettata dalla comunità scientifica, si credeva che l’esistenza di specie animali simili agli angoli opposti del pianeta fosse essenzialmente dovuta alla presenza pregressa di antiche nazioni che avrebbero svolto la funzione di ponti di terra, come Lemuria, Mu e per l’appunto Atlantide, notoriamente citata da Platone nei dialoghi Timeo e Crizia nel IV secolo a.C. L’evidenza provava, tuttavia, che se davvero l’esistenza del rallo si era svolta in totale isolamento per un periodo misurabile in molti milioni di anni, la sua divergenza evolutiva e genetica da altre specie isolane dell’Atlantico avrebbe dovuto essere maggiore, inducendo gli scienziati a teorizzare un’ipotesi alternativa: gli antenati dell’A. rogertsi (appellativo derivante dal reverendo H. M. C. Rogers, che spedì il primo campione dell’uccello al Museo Naturale di Londra affinché potesse essere analizzato) si presentavano con un aspetto e capacità notevolmente diverse, essendo riusciti a giungere fin quaggiù sulla forza delle loro stesse ali a partire dalle terre emerse più vicine, ovvero quelle del Vecchio Continente. Ma se ci spostiamo in avanti di qualche generazione, fino all’epoca di Internet e dei cellulari con navigatore satellitare, possiamo facilmente renderci conto di come non tutti fossero convinti da quest’idea. Nella coerente formazione di un gruppo di opinionisti all’interno del quale figurava, per l’appunto, anche l’intraprendente svedese Stervander, al punto da ritrovarlo quaggiù nel settembre del 2011, armato di rete giapponese e gli altri attrezzi utilizzabili per catturare un uccello-topo. Ma non lasciatevi trarre in inganno: il suo studio è stato pubblicato soltanto all’inizio di questo novembre 2018 sulla rivista Molecular Phylogenetics and Evolution. Una cosa, per lo meno, è sicura: questo tipo di studi richiedono tempi piuttosto lunghi…

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L’eleganza dell’uccello che calpesta i serpenti del Serengeti

Provate ad immaginare un’aquila senza la capacità di piombare dall’alto sulle sue prede, per afferrarle mediante l’impiego di forti e affilatissimi artigli. Che cosa resta? Un uccello di grosse dimensioni e scaltro, agile nei movimenti. Dal becco impietoso e la vista particolarmente acuta. Ora poiché una simile creatura, che nei fatti esiste veramente, non è il prodotto di una mistica stregoneria, essa deriva da una linea ereditaria di millenni, che l’hanno portata a sviluppare altre caratteristiche di primaria rilevanza: di cui la prima, e la seconda, sono zampe lunghe come quelle di una cicogna, ma molto più spesse, forti e muscolose. Siamo nell’Africa subsahariana, in un vasto areale che si estende dalla Mauritania al Capo di Buona Speranza, benché l’uccello segretario (Sagittarius serpentarius) non abbia propensioni migratorie nonostante l’abilità nel volo, né una particolare capacità di diffondere la propria stirpe alla nascita delle nuove generazioni. Esso semplicemente esiste, con enfasi invidiabile, grazie ai particolari adattamenti di cui dispone per la vita nelle vaste pianure aride o la vera e propria savana. Si potrebbe, essenzialmente, affermare che il suo ruolo ecologico corrisponda a quello del roadrunner (Geococcyx) dell’entroterra americano o il pavone (Pavo/Afropavo) d’Asia, nutrendosi primariamente d’insetti e piccole creature che camminano, strisciano oppure scavano nel sottobosco. Con una significativa differenza, che in effetti finisce per cambiare molte cose: la necessità di riuscire a gestire i serpenti. Perché il tipico rettile strisciante, come principale metodo di autodifesa, sfrutta il suo stesso corpo lungo e sinuoso, la cui morfologia rende inerentemente complesso qualunque tentativo di ghermirlo e farlo a pezzi prima che riesca a colpire almeno la prima volta. Il che nei fatti, può anche risultare sufficiente a spuntarla grazie allo strumento del veleno; ci vorrebbe un approccio totalmente diverso. Sarebbe necessario un metodo d’attacco che consenta di tenere ogni punto debole a distanza.
E come le popolazioni di questi luoghi fin da tempo immemore, ma anche il suo primo osservatore occidentale Vosmaer, A. (Arnout) nel 1769 ebbero di volta in volta modo di osservare, il cosiddetto “uccello cacciatore” (in arabo saqr-et-tair) di grazia guerriera ne ha da vendere, così come di quel tipo di prudenza animale che permette a chi caccia per sopravvivere di spuntarla nei suoi più difficili scontri. Così che il nome scientifico sopracitato, che fa riferimento alla figura classica dell’arciere, non è che una metafora per il passo attento e cadenzato dell’animale, nel frequente momento in cui dovesse ritrovarsi a combattere per la sua vita, in un’altra giornata nell’impietoso territorio dell’Africa nera. Se pure visto da lontano, risulta innegabile la sua capacità di presentare una figura maestosa; alto fino ad 1,3 metri, con una massa complessiva di fino a 5 kg e una strana coda portata dritta e parallela al suolo, che contribuisce a renderlo il più lungo (oltre che alto) nell’intero ordine degli accipitriformi che include, per l’appunto, la grande maggioranza degli uccelli rapaci. Ma ciò che colpisce maggiormente l’occhio e la fantasia dell’osservatore, finisce quasi sempre per essere la suggestiva cresta piumata posta dietro alla testa, vagamente simile a quella dell’aquila delle Filippine, il cui aspetto ha finito per giustificare ulteriormente la traslitterazione delle sue metafore preferite. Questo perché, nell’opinione dei primi naturalisti, avrebbero ricordato i pennini del segretario portati dietro l’orecchio, o in alternativa una vera e propria faretra piena di dardi da scoccare all’indirizzo del proprio nemico. E quando viene il momento, altrettanto straordinarie risultano essere le sue movenze, con veloci e precisi balzi, seguiti dall’attacco fulmineo vibrato mediante l’impiego delle straordinarie zampe. È un approccio al combattimento che secondo recenti studi, potrebbe corrispondere nei fatti a quello impiegato dagli uccelli preistorici cosiddetti “del terrore” (fam. Phorusrhacidae) la cui enorme presenza, rapidità e ferocia riusciva a rendere i più temuti predatori del tardo Giurassico, nonché nemici di molte delle specie più celebri di dinosauro: ergersi sopra la preda e colpire, colpire ancora con una forza di fino a quattro volte superiore al proprio peso corporeo. Essenzialmente, sarebbe come se un essere umano potesse veicolare la propria aggressività con una pressione di due quintali e mezzo. Abbastanza per eliminare, con un po’ di fortuna, alcuni dei più pericolosi serpenti del pianeta Terra.

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La Nuova Zelanda ha votato: l’uccello dell’anno è il piccione ubriaco

Come la terra fantastica che al cinema ne ha tratto l’ispirazione (benché sia comprensibile dubitare, tutto considerato, che Tolkien avesse in mente la Nuova Zelanda) il paese composto da due grandi isole e 600 più piccole verso i confini Sud-Est d’Oceania possiede i suoi popoli, le sue leggende, le sue regole totalmente diverse dal resto del mondo. È l’usanza ad esempio, tra i suoi recessi più o meno urbani, che tra la primavera di settembre e ottobre si cammini sempre con un occhio rivolto verso l’alto, agli alberi che sovrastano il proprio sentiero. Questo perché tra i loro rami, molto spesso, può trovarsi un nido di Gymnorhina tibicen, la temutissima gazza australiana, i cui genitori sono soliti piombare in picchiata e attaccare gli umani, temendo per il benessere della propria prole. Il pericolo di cui meno si parla, tuttavia, perché indubbiamente meno frequente, è quello di essere colpiti da un diverso e più variopinto uccello, a causa di una ragione totalmente diversa: la mera perdita dell’equilibrio. “Attenti al kereru appeso per le zampe, crede di essere un pipistrello!” grida allora qualcuno. Il pacifico, persino bonario colombo dei boschi (o colombaccio) il cui nome latino recita Hemiphaga novaeseelandiae sin da quando il nipote di Napoleone in persona, il naturalista francese Charles Lucien Bonaparte, ne ricevette un campione nel corso dei suoi viaggi in Italia e negli Stati Uniti. Eppur non avendo mai visitato il suo habitat naturale, neppure questo uomo di scienza avrebbe potuto comprendere il fondamentale problema del solo ed unico piccone di Nuova Zelanda: la sua tendenza ad alzare il gomito, nonostante neppure quella parte del corpo, sostituita da un paio di variopinte ali.
In fondo, bisognerebbe fare il possibile per capirlo. Non è particolarmente facile farsi strada nei cieli e ricevere pezzi di pane dagli umani, quando si è circondati da alcune delle specie più caratteristiche e riconoscibili del mondo intero: pappagalli iridescenti guidati dal chiassoso quanto candido cacatua. La risata penetrare dell’adorabile kookaburra. E sulla terra magnifiche creature a rischio d’estinzione ma prive di capacità aviarie come kea, kakapo e takahe. Così che, attraverso i secoli, questa particolare genìa di messaggeri della pace (di non-biblica memoria) ha continuato a sopravvivere grazie a una dieta ereditata dai propri antenati, composta al 99% di frutta. Ma fattori come il mutamento climatico, la progressiva riduzione delle specie endemiche e l’abbondanza dovuta alla tutela del patrimonio vegetale, hanno accresciuto in maniera esponenziale le loro possibili fonti di nutrimento. Con il risultato che la frutta in eccesso, rimasta troppo a lungo sotto il sole, inizia spontaneamente a fermentare. E soltanto per questo, il povero kereru dovrebbe smettere di mangiarla? Rinunciare al gusto inconfondibile della più naturale, per quanto aspra approssimazione di un buon bicchiere sidro?
Il risultato di tutto questo, ritengo, è ormai sotto gli occhi di tutti. Tanto che lo stesso ente di protezione naturalistico Forest & Bird, scrivendo una nota a margine di questa beneamata specie, è arrivato a definirlo “Goffo, ubriaco, ingordo e appariscente” in un contesto il quale, tuttavia, appariva funzionale ad allontanare le connotazioni apparentemente negative di almeno tre dei termini scelti. La notizia si è infatti diffusa, rapidamente, attraverso la blogosfera: come ogni anno, la suddetta associazione aveva annunciato il vincitore dell’annuale iniziativa finalizzata ad eleggere l’uccello migliore degli ultimi dodici mesi. Evento abbastanza prestigioso, in patria, da motivare almeno un notorio tentativo di hacking pregresso, eseguito da un disonesto fautore della garzetta facciabianca. Mentre il popolo ancora una volta, come accade sempre più spesso di questi ultimi tempi, aveva democraticamente eletto il più improbabile dei partecipanti…

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