Persino in quel momento, ubriaco fradicio, quell’uomo aveva l’alone. Un tiepido lucòre, d’esperienza e savoir faire, quel senso del luogo e delle circostanze che i britannici, dall’altra parte del Canale, amavano chiamare smart-ness. Ma Adalbert sapeva molto bene che quella sera, finalmente, avrebbe avuto la vendetta tanto attesa. “Shick!” Singhiozzò René Dreyfus, premiato pilota francese da corsa poco meno che trent’enne, con alle spalle già una carriera di trionfi a Monaco, Rheims, Firenze, in Belgio, a Tripoli e in Nord Africa, al volante di auto che il cinematografo avrebbe chiamato, senz’ombra di dubbio, da sogno. “P-Poker alla texana, che cosa vuoi dire?” D’un tratto, il sommesso vociare della grande sala dell’Aviation Club de France, senz’altro la sala da gioco più alla moda di tutti gli Champs Elysees, sembrò calare di un tono. “Oh, vecchio amico mio! Ero certo che tu lo conoscessi già. Non dici sempre che vorresti aprire un locale a New York?” Ovviamente, nessuno avrebbe mai potuto dubitare della buona fede di Adalbert Bodé, famoso viveur della città delle luci, uomo dai molti pregi ed ancor più misteri, venuto dalla Svizzera per bucare il cuore delle fanciulle e dei loro mariti. Del resto la sua inflessione strascicata, lo sguardo vacuo e l’eccessivo entusiasmo provavano, in tutto e per tutto, uno stato d’inebriatura almeno pari a quello della controparte. “Guarda. È…È…Facilissimo. Si mettono tre carte sul tavolo, così. Poi, ciascuno ne prende due, coperte.” A quel punto, già stava iniziando a formarsi un capannello attorno al tavolo delle due celebrità nazionali. Di certo non molti, nella Parigi del 1934, già conoscevano le regole di quello che sarebbe diventato, di lì a una trentina d’anni, il gioco più amato dai migliori casinò di Las Vegas. “Ce l’hai? Le hai guardate? Perfetto. Ora immagina che stiamo già giocando. A questo punto, faremmo le nostre puntate. Poi si prende un’altra carta, così…” Ci fu un leggero tremolìo delle grandi lampade in sala, progettate per rispondere al gusto del nascente Art Decò. “E la si mette accanto alle altre. Lo vedi? Adesso sono tre. Ma in realtà, sarebbe più giusto dire, CINQUE. Perché formano, con quelle che io ho in mano, e tu hai mano, un’unica mano.” Qualcuno ridacchiò tra il pubblico, il pilota Dreyfus aggrottò le sue sopracciglia. “Si, proprio così. Lo scopo del gioco è formare delle serie vincenti, come nella versione più classica. Ma una certa quantità di carte sono in comune, e scoperte. Dopo il primo giro di puntate, si aggiunge una quarta carta sul tavolo. Così alla fine, ogni giocatore ne avrà un totale di SEI. Non è divertente?” Mormorio d’approvazione diffuso. “Shick!” Fece Dreyfus “C-Carino. Ehi, ma tu sei davvero u-ubriaco?!” Adalbert ridacchiò in modo sciocco. Quindi si versò il quarto bicchiere dello champagne più a buon prezzo di uno dei bar più cari del quartiere più rinomato, della città più famosa. “Certo!” Le labbra ritirate a mostrare i denti. Un lieve risucchio d’aria, perfettamente udibile dall’altro lato del tavolo: “Certo, che lo sono.” La folla, compreso che il momento non era ancora arrivato, si allontanò momentaneamente. Restando, comunque, fin troppo pronta a testimoniare…
E così, la serata trascorse tranquilla, almeno per il paio d’orette a venire. I due uomini parlarono a lungo di vari argomenti, della ferrovia della Pennsylvania, che recentemente aveva esteso i suoi binari fino alle propaggini meridionali dei Grandi Laghi del Nord. E del progetto ancor più ambizioso, fortemente voluto dallo zar Nicola II, di ultimare una via ferrata da Mosca a Vladivostok, attraverso la sperduta Siberia “Ah, quei russi! Non ce la f-faranno mai!” Esclamò il francese. In ultima analisi, pareva essersi ripreso un po’ dalla sbronza. Quindi, l’argomento passò alle gare d’automobili, ed alla breve rivalità intercorsa tra i due, quando Adalbert, prima di trasferirsi a Parigi, correva da privato nei campionati della Côte d’Azur. “Così, sei venuto in Bugatti. È l’auto che credo?” Dreyfus battè la mano sul tavolo: “Lo sai benissimo! Shick! Certo che si. La Tipo 22 del ’25, quella che avevo la sera. La sera di…” A questo punto, la gestualità si fece concitata. Adalbert gli fece cenno di fermarsi. Troppe persone, ancora, stavano prestando orecchio alla loro conversazione. Ma nello stesso tempo, la sua espressione si animò. Gli occhi si spalancarono, la bocca si alzò agli angoli in un accenno di sorriso: “Ottimo, fantastico!” Entrambi sapevano che cosa significava una tale ammissione. C’era una storia, dietro. Già Dreyfus, uomo di parola più che ogni altra cosa, adocchiava l’immacolato mazzo di carte. Era giunto il momento lungamente atteso: “Come promesso. Giochiamo?”
personaggi
I maestri Zen delle teiere di Tokoname
È una casualità più volte ripetuta, nella storia delle arti e dei mestieri giapponesi, quella per cui un sistema mutuato dai paesi confinanti di Corea e Cina, portato verso Oriente dai commerci e le testimonianze dei viaggiatori, fosse entrato a far parte del repertorio nazionale in forza del buon gusto della collettività. Eppure, il paese degli alfabeti sillabici e dei samurai non fu mai alla stregua di una mera provincia culturale, per il semplice fatto che ciascun influsso era studiato, scorporato e modificato, sulla base di esigenze estremamente specifiche nonché sentite. È innegabile. Che un simile discorso generico sia appropriato, più che mai, a descrivere l’esperienza di vita del monaco Eisai, colui che recatosi in un centro religioso buddhista presso la regione continentale di Jingde, aveva avuto modo di studiare molto a fondo il suo respiro, la sua mente, il fondamentale pezzo di terra e la proverbiale piccola pietra. Diventando quindi attorno al 1191 d.C, da semplice studente che era, a sua volta un insegnante, di quello che a partire da quel giorno sarebbe stato nazionalizzato con il termine di Zen – “meditazione”. Non riuscendo, strano a dirsi, a lasciare un segno nelle usanze del suo paese che potesse dirsi maggiore, a conti fatti, dell’impatto avuto dal contenuto del suo borsello: alcune foglie di un’umile pianta, le cui foglie riscaldate sopra al fuoco assieme all’acqua avevano la dote di liberare un infuso dal sapore, se non estremamente buono al primo sorso, per lo meno… Interessante. Stratificato e pregno della sostanza stessa di quel mondo sopra il quale si doveva ricercare l’Illuminazione, attraverso una conoscenza sensoriale irrimediabilmente imperfetta. E quella pianta era il 茶. Pardon! Quella pianta era l’o-cha (Giappone). Anzi per essere più chiari: volevo dire chuan (dinastia Han) No, dai. Si trattava del ming (cinese mandarino). Ovvero, tè. Si, proprio the: come dicevano a Xiaomen, la città da cui parecchi anni dopo, questa sostanza sopraffina sarebbe stata imbarcata e trasportata fino in Occidente. Dai nonni dei nostri trisavoli, che invece di assaporarlo per ciò che era e meditare, ci misero lo zucchero dentro. Che terribile occasione perduta, di…
Ma sarebbe certamente ingenuo, e intriso della presunzione dei moderni, immaginarsi gli antichi che intingevano bustine o utilizzavano il colino, come anacronistici tecnocrati del bar dello sport. È anzi un fatto largamente acclarato, che le metodologie impiegate per la preparazione di una simile bevanda erano esse stesse considerate alla stregua di un rito, che i seguaci di Eisai acquisivano attraverso la lettura del suo testo Kissa yōjōki (喫茶養生記 – Come guarire bevendo il tè – 1214). Considerato dai primi abati dei templi, per il suo carattere sacrale, preferibilmente al di sopra delle rustiche ceramiche possedute dai giapponesi dell’epoca, risalenti ancora all’artigianato nazionale delle trascorse epoche Jōmon e Yayoi, nient’altro che terra cotta nei vasti forni sotterranei detti anagama, qualche volta decorate dall’impressione di un tratto di corda. Durante tutto il corso dell’epoca Heian e la prima parte dello shogunato di Kamakura, quindi (1185–1333) si fecero alcuni timidi tentativi di applicare la vetrinatura a tre colori a base di piombo mutuata dai popoli vicini, benché i recipienti preferiti per abbeverarsi alla sorgente della creazione, da parte di chiunque potesse permetterselo, fossero sempre rigorosamente importati da lontano. Quasi come se le genti del Regno di Mezzo disponessero di un canale preferenziale per comunicare con il Buddha, il suo làscito, la fluidifica sapienza della sostanza usata per avvicinarsi a Lui. Finché non avvenne, attorno all’XI-XII secolo, che quattro dei forni più celebri del paese di Yamato non prendessero spontaneamente, e ciascuno per un’iter differente, a migliorare le proprie tecniche e il prodotto che recava i loro marchi: erano costoro i “sei grandi” di Shigaraki, Tamba, Bizen, Seto, Echizen e Tokoname. Proprio lo scenario, quest’ultimo centro, assurto al ruolo di città durante le riforme catastali della Restaurazione Meiji (1889) dell’opera del mastro ceramista del video di apertura, l’uomo noto con il nome d’arte di Hokujo (al secolo – Genji Shimizu). Certificato nel 2013, nel corso di un’importante cerimonia, come patrimonio vivente della nazione e dell’umanità. Un traguardo, se vogliamo, non proprio alla portata di chiunque.
Può bastare una persona per scavare un tempio di arenaria?
Benedetta geologia. E vivere davvero in New Mexico, conoscerne gli spazi naturali fuori dal contesto cittadino, significa acquisire dimestichezza per lo meno visuale con un certo tipo di pietra sedimentaria che non è un tutt’uno. Bensì un ammasso senza fine d’insignificanti granuli, accorpati tra di loro grazie alla matrice, una mescolanza di argilla, calcite, feldspati e miche, che l’antica acqua marina, o più recenti infiltrazioni di torba, hanno trasformato nel giro dei secoli in cemento. Arenaria, abbiamo scelto di denominarla, e il fatto vuole che talvolta, se l’orecchio è adeguatamente allenato, sia possibile sentire il suo richiamo di rimando. “Venite! Vieni! Scavami!” Perché non c’è altra roccia, in questo mondo, che sia al tempo stesso così resistente alla compressione, tanto da poter costituire il cuore di montagne intere, ma friabile se abrasa, con i giusti strumenti, plasmata come una sostanza per le costruzioni dei bambini. Quasi altrettanto… Facilmente? Lo sapevano i Romani, che da un tale materiale famosamente trassero la Porta Nigra di Treviri in Germania, un edificio alto 30 metri che formalizzava il maggiore punto d’ingresso cittadino, nonché l’intero forte di Castlefield, non troppo distante dal fondamentale magnum castrum, luogo strategico nel North West dell’Inghilterra. Così come gli abitanti successivi delle regioni circostanti quella stessa regione di Collyhurst, che dalla famosa pietra trassero innumerevoli chiese, ivi inclusa la svettante cattedrale anglicana di quella che sarebbe diventata, a un certo punto della loro storia, la città di Manchester – Per un processo di mutazione fonetica dal termine latino, sia chiaro. Ed altrettanto bene, senza dubbio, deve aver udito la pietrosa voce l’americano Ra Paulette, originario dell’Indiana ma che laggiù in New Mexico, tra valli remote e in prossimità dell’ombra degli arbusti, ormai da 25 anni ha ritenuto di percorrere la via dell’eremita sapiente, come tanti altri filosofi ed artisti, prima di lui.
Quest’uomo che non è un minatore, eppure trova vie d’accesso estremamente semplici all’interno dei rilievi; che non è un architetto, ma determina la posizione di spaziosi atri e stanze ad uso proprio oppure dei suoi committenti; che non è uno scultore, pur sapendo realizzare intriganti bassorilievi ed ogni tipo di naturalistiche figure usate per dare carattere ai suoi ambienti titolari. Reso celebre dalla recente produzione del documentario nominato all’Oscar, Cavedigger (Jeffrey Karoff – 2013) ma che certamente non cercava la fama internazionale, ne pare lavorare per l’approvazione di qualcuno che non sia se stesso, il proprio spirito, o forse addirittura il cane, fedele compagno delle sue ultime avventure. Tutto ebbe inizio al principiare degli anni ’80, quando l’allora quarantenne Paulette (oggi ha più di 75 estati alle spalle) veterano del Vietnam e con due storie d’amore naufragate alle spalle, scelse di provare per un certo periodo questa cosa di essere campioni solitari, e scoprire come si trovasse trasferendosi in una baita autocostruita vicino alla località di Des Montes, diversi chilometri a nord di Santa Fe. Si trattava di un piccolo edificio in legno, sito a circa 3.000 metri dal livello del mare, ben costruito e semi-sepolto nel terreno, tenuto nascosto da alcuni vecchi frassini defunti ormai da tempo. Nonostante Paulette avesse mirato ad un terreno di proprietà pubblica, in effetti, successivamente scoprì che il terreno rientrava per pochi metri all’interno di un’antica concessione privata della Corona spagnola, facendo parte di uno sconfinato ranch. Questione che negli gli causò alcuni problemi, inclusa la visita di controllo di un ranger locale e l’occupazione da parte di alcuni giovani abitanti del luogo, che ne fecero un luogo di ritrovo occasionale. Ma per lui, che allora vi passava solo alcuni mesi l’anno, quest’ultimo punto fu in effetti un lato positivo: le montagne a tale latitudine sono infatti estremamente umide, e ogni volta che tornava alla sua capanna, la trovava lievemente più sprofondata nella terra e nel fango. Tanto che dovette a un certo punto, nonostante la manutenzione effettuata sia da lui che dai suoi ospiti “abusivi”, dolorosamente abbandonarla.
Per giurare, da quel giorno, due cose: che non si sarebbe mai fermato più in un posto tanto a lungo. E che avrebbe trovato un materiale da costruzione differente dal legno, più adatto a resistere alle intemperie ed all’incedere spietato del tempo!
Come sbancare un telequiz degli anni ’80
Una strana sensazione che sale inesorabile, come fosse una marea. L’impossibile sospetto, via via riconfermato, che ogni giorno pare sempre più terribile, perché una volta giunti fino a quel punto semplicemente, non si può tornare indietro. Possibile che…? Ogni volta…? Si, si. È così. Difficile trovare tali sicurezze, nella vita. Ma se ci riesci! Devi fare, devi rischiare, devi volare, fino a Los Angeles nei patinati e variopinti studi della CBS, per tentare la fortuna, o come si diceva allora negli Stati Uniti, forse ancora più che adesso: Press Your Luck. Il titolo, fra le altre cose, di un rilevante telequiz. In cui commessi, casalinghe, spazzini, assistenti dentistici, insegnanti, idraulici e tutti gli altri membri della variegata umanità lavoratrice, con finalità di rappresentanza, potevano per qualche ripido minuto diventare l’America intera, essenzialmente indissolubile dal fluido e il carburante della situazione umana, il dio Denaro. Reso manifesto tra gli splendidi gettoni e premi lì elargiti ai concorrenti. Tra cui: un autista di furgoni dei gelati, che come si potrà facilmente immaginare, aveva qualche problema a guadagnarsi da vivere, in inverno. Il rinomato Michael Larson, un personaggio spesso citato come il partecipante di maggior successo a quel particolare gioco (nonché di un programma del daytime, un record che secondo Wikipedia, regge ancora) e come diretta conseguenza, resa ricco oltre ogni aspettativa: 110.237 dollari di allora, corrispondenti a circa 251.000 attuali al cambio dell’inflazione. Ma non fu il Fato, niente affatto, a determinare la sua invidiata condizione. Bensì una serie incredibile di errori, primariamente di natura tecnologica, compiuti dalla produzione del programma, uniti alla sagacia del suo metodo, creato nei lunghi mesi a partire dal 19 settembre 1983, data della messa in onda del primo episodio dell’ennesima, costante fissazione collettiva.
Fu quella un’epoca di riscoperta e rinascita, all’interno del particolare format d’intrattenimento. Dopo la serie di gravi scandali della fine degli anni ’50, che durante la presidenza di Dwight D. Eisenhower portarono ad indagini approfondite da parte di una speciale commissione del congresso sui metodi ed i retroscena di alcuni programmi di estremo successo, tra cui Twenty One, Dotto e The $64,000 Question, fu clamorosamente svelato come molti dei partecipanti di allora fossero non soltanto attentamente selezionati dalle produzioni con secondi fini ben precisi, ma recitassero nei fatti uno specifico copione, fornito completo delle risposte alle domande che dovevano fornire, sotto l’occhio attento delle telecamere e del pubblico da casa. L’aspetto più incredibile dell’intera questione, poi, fu il fatto che una simile condotta non fosse effettivamente, all’epoca, illegale per le leggi federali, al punto che l’unico danno ricevuto dalle personalità coinvolte in tale clamoroso ladrocinio, in ultima analisi, fu alla reputazione. Ma una volta rivelata la verità, naturalmente, nulla poteva continuare come prima. Nei mesi immediatamente successivi ad agosto del 1958, quando un concorrente dello show Dotto, non coinvolto nella truffa, rese pubblicamente noto di aver scovato negli studi di registrazione un bloc-notes con le esatte risposte che una sua collega stava dando durante lo show, aprendo un vaso di Pandora letteralmente privo di precedenti, il genere del telequiz sparì letteralmente dai palinsesti statunitensi, ritornando solamente a distanza di un paio d’anni, con premi notevolmente ridotti. Il sogno, all’occhio della collettività, sembrò finito per sempre.
Ma la gente dimentica, e con essa i produttori. Il varo di una nuova serie di leggi, concepite varate nel decennio tra il ’60 e il ’70 con l’enfatico supporto delle principali lobby delle telecomunicazioni, istituì una serie di severe punizioni per chiunque avesse tentato nuovamente di alterare il corso del destino. Ed infine, attraverso un lungo e graduale periodo di re-acclimatamento, si giunse ad una nuova età dell’oro, con telequiz che raggiungevano nuovamente premi di centinaia di migliaia di dollari, con conseguente successo nella fantasia popolare di allora. E uno di questi nuovi trionfi delle onde di trasmissione si stava dimostrando, per l’appunto, Press Your Luck.