L’artista della scala di fuoco nel cielo

Sky Ladder Cai Guo-Qiang

Il grande artista non è sempre, o necessariamente, un grande comunicatore. L’espressione del proprio stato d’animo secondo i metodi post-moderni e contemporanei è infatti talmente variegata e imprevedibile che, spesse volte, posti al cospetto di un’opera si tende a rimanere perplessi, finché l’approfondimento della vicenda umana dell’autore, o dell’ambiente in cui detta giustapposizione di concetti è stata implementata per la prima volta, non permettono di contestualizzare quanto si ha di fronte ai propri occhi. Tuttavia questo non va visto come un limite, bensì una chiara scelta di chi percorre questa via, fondata sul vuoto e il suo significato, l’universo e il nulla al tempo stesso. Un esempio? Quest’ultima creazione del celebre Cai Guo-Qiang, artista cinese ormai da lungo tempo residente a New York, che tra una mostra in senso classico ed un’altra è solito dedicarsi a quelli che lui definisce “eventi di esplosioni” sostanzialmente dei fantastici spettacoli di fuochi d’artificio. Non per niente fu proprio lui, di ritorno brevemente in patria, a dirigere personalmente uno dei momenti salienti dell’inaugurazione dei Giochi Olimpici del 2008 a Pechino, quando lo stadio nazionale a forma di nido d’uccello (niǎocháo) fu meravigliosamente illuminato dalle fiamme di girandole e maestosi girasoli, al termine di quello che potrebbe essere facilmente definito lo spettacolo di fuochi d’artificio più lungo ed elaborato della storia. Fummo in pochi, in un primo momento e soprattutto fin qui dall’Occidente, a comprendere le implicazioni logistiche di una tale battaglia fra gli Dei, e la capacità organizzativa che aveva richiesto quella catastrofe calcolata della polvere da sparo, attentamente disposta secondo metodi tradizionali e avveniristici, allo stesso tempo. Mentre che le doti di colui che seppe fare questo, dopo tanti anni, finalmente ricompaiono di nuovo innanzi all’opinione dei non addetti al settore, grazie a una creazione relativamente semplice nel suo concetto di partenza, eppure estremamente difficile da realizzare. Al punto che nessuno, a memoria d’uomo, c’era mai riuscito: ecco una scala, rossa e sfavillante, che si staglia perfettamente nitida, nel cielo in via di schiarimento dell’isola di Huiyu, presso la città della Cina del sudest Quanzhou, che Marco Polo aveva definito, nel suo Milione “Il porto più grande del mondo.” Funzione, questa del ricevere e diffondere le merci più o meno tangibili, che il centro abitato ha di nuovo svolto, grazie all’impiego da parte di alcuni degli spettatori dell’ormai irrinunciabile cellulare con videocamera, che ha permesso alla sequenza di approdare infine su YouTube. Dove sta spopolando in questi giorni, con un successo di visualizzazioni da parte del pubblico generalista senza precedenti, addirittura per questo autore con quasi 40 anni di carriera nel duplice campo dell’arte e dei fuochi d’artificio. La ragione va cercata innanzi tutto nel significato metaforico di un senso d’ottimismo facilmente comprensibile e condivisibile: il pensiero che deriva da un miraggio simile è l’accrescimento dello stato di coscienza a seguito della separazione tra corpo ed anima, con la stereotipica salita di quest’ultima oltre la remota stratosfera. E non a caso Cai Guo-Qiang ha scelto di dedicare l’impresa al raggiungimento dei 100 anni da parte di sua nonna, realizzando per di più la scena all’alba invece che al tramonto, per veicolare uno spirito e un messaggio di speranza. Ma la cosa che ha colpito maggiormente il grande pubblico, e come dargli torto, è il mistero della splendida realizzazione; come può il fuoco assumere una forma definita, come può sussistere una tale cosa? Il segreto risiedeva poco fuori dall’inquadratura…

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Come nasce un cellulare in Cina

Gadgets from China

L’atmosfera è tranquilla, il clima, rilassato. Abituati alle sequenze di qualche anno fa, quando andò di moda interessarsi brevemente alle cosiddette “fabbriche di iPhone”, questo reportage sul campo dall’industria della città di Shenzhen, SAGA, appare quasi mistica nella sua pacatezza calcolata. Mancano le schiere di banchi nell’enorme capannone, col frastuono dei distanti macchinari. Non c’è il viavai degli addetti al controllo della qualità che corrono da un lato all’altro dell’impianto, nel tentativo di spronare l’opera degli individui stipendiati. Mentre tutto pare muoversi a un ritmo (relativamente) rallentato, con i vari componenti che vengono smistati dai capienti magazzini, poi saldati attentamente sulla scheda madre. Mentre un secondo addetto, come di consueto, si occupa di chiudere la scocca del dispositivo. È una visione della formidabile, insospettata verità: perché guardando tutta l’elettronica che connota le nostre case, è facile notarne l’ostentata perfezione. Siano dieci o centomila, poco importa. Ciascun singolo oggetto che abbia quel determinato logo o numero di serie, lo schermo, la tastiera, il mouse, il laptop, la console per videogiochi, sarà perfettamente identico ai suoi simili arbitrati. Perché la fonte originaria dei suoi singoli diversi componenti, è sempre quella e solamente lei, la macchina industriale. Mentre il tocco umano è infuso in ciò che viene dopo, l’assemblaggio che può essere visto come un più complesso confezionamento. Cosa acquisti, in fondo, quando esci dal negozio con la scatola più amata? Un microfono, l’altoparlante, un touch-screen da 4 o 5 pollici, la batteria. E dentro la memoria a stato solido, la scheda logica e un prezioso processore, che da allora si occupa di elaborare i dati fatti transitare dietro all’interfaccia. Questo è l’insieme dei tuoi “beni” fisici, ma non l’intero valore oggetto del tuo acquisto. Perché è la produzione il grosso della spesa, spesso data in sub-appalto, in quanto non può prescindere, persino oggi, dal volubile fattore di due mani esperte, moltiplicate per ciascuna postazione. Che sono generalmente attaccate in via diretta a quelle braccia, che a loro volta si diramano da un individuo. Con pensieri, aspirazioni, conti da pagare. Questione, questa, che è davvero facile dimenticare. Noi che siamo l’ultimo anello della catena di montaggio, esposto al Sole ed alle stelle di un ipotetico avvenire, non differiamo fondamentalmente in alcun modo, dal cerchietto di metallo precedente, né da quello prima ancora e così via, incastrati tra gli argani ed i capestani sotto l’ombra del capanno funzionale. Neppure in quello che facciamo, quotidianamente e in senso lato: offrire un operoso contributo ai nostri simili distanti. Ricevendo in cambio di quel fare, lo stipendio d’entità variabile, che può permettere di uscire ad acquistare i cellulari. Cina, Europa, zero differenze nel sistema dell’economia di scala. Tranne una forse, ma davvero significativa: sapete quanto guadagna uno di questi operatori, dalla tenuta azzurra ed il grazioso cappellino? Lo dichiara orgogliosamente l’accentata voce fuori campo, appartenente alla titolare del canale di YouTube GFC (Gadget From China): “Soltanto un centesimo l’ora! Assumono nei villaggi vicini, per garantire l’immissione sul mercato di un prodotto a prezzi contenuti.” Beh, su QUESTO è veramente dura darle torto. Si tratta di un risparmio straordinario.
Il video di una decina di minuti si sviluppa attraverso una serie di capitoli, ciascuno intervallato da una dissolvenza in rosso con in campo il logo dell’impresa mediatica e divulgativa citata, nei fatti, ormai ferma da diversi mesi. Nelle battute di apertura, viene mostrata un’impressionante fila di scaffali, suddivisi per categoria. Questo è infatti l’ambiente in cui viene immagazzinato ciascun singolo componente, acquistato dalle compagnie specializzate nei diversi aspetti che costituiscono lo squillante, parlante, luminoso insieme. È interessante notare come i pacchi già scartati non contengano compatte balle di minuzie elettrotecniche, bensì veri e propri vassoi, egualmente distanziati, quasi ad esporre all’aria una verzura particolarmente profumata. La ragione di una tale disposizione standardizzata va ricercata nei passaggi che vengono prima…

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Il pesce che doveva essere morto

Dead Fish

Guarda! “Non ha più la testa” – He ain’t got no head! e poi “Non c’è niente dentro!” – He aint’ got no GUTS! Neanche l’ombra di un singolo organo residuo, niente che possa permettergli di mantenersi vivido e in salute. Tutto il sangue se n’è andato via. Questo non è più “un” pesce, ma semplicemente, pesce. Da pulire oppur squamare (almeno, se si vive in quella parte dell’America settentrionale in cui si è soliti mangiare anche la pelle, ovvero gli stati del Sud). Però aspetta, ancora non mangiarlo! Perché Cthulhu mi sia testimone, a danno della logica del mondo, questa bestia eppur si muove. È quel momento della tua giornata, improvviso e significativo, in cui il corso degli eventi prende una diversa piega. A uncino, come la coda dell’umido protagonista, che sfugge a quella presa e batte rumorosamente sul tagliere. Le voci fuori campo, della cuoca e forse di suo figlio, tendono a farsi concitate. Si può comprendere la loro condizione. Perché empatia significa, nella maggior parte dei casi, riuscire ad immedesimarsi in tutto ciò che si dimostra in qualche modo simile a noi; è un istinto naturale, è impossibile da spegnere a comando. E se un pesce può nuotare, almeno in teoria, in qualche maniera è ancora parte di quel regno del sensibile cui apparteniamo pure noi. Non è una pianta, di certo non è stato mineralizzato. Si, torturatore. Hai fatto a pezzi quel che ancora è in grado di reagire? Beh, non proprio. In fondo, la sede del pensiero superiore e della memoria è sita nel cervello, quella parte che ormai giace dentro al lavandino, scollegata in modo fisico dal resto. Però considera anche questo: il pesce la sua testa non l’ha mai davvero usata a fondo. Sotto l’onde dell’oceano, splendide sirene permettendo, nessuno mai si ferma a far filosofia. Il susseguirsi degli eventi è spinto innanzi dal bisogno di nutrirsi, l’intenzione di riuscire a riprodursi, qualche volta, al massimo, la curiosità finalizzata all’autoconservazione. E cos’è in fondo la vita, se non la capacità di acquisire dall’ambiente circostante un qualche tipo di risorsa, poi metterla a frutto, in modo variabilmente sensato, per far muovere la parte muscolare di se stessi…
Un lungo pomeriggio, un freddo androne, la finestra posta in alto che interrompe la parete del museo. All’interno del quale, per un tempo fortunatamente breve, saranno esposti i reperti anatomici in possesso della Premier Exhibitions, la compagnia che organizza in vari luoghi degli Stati Uniti e da diversi anni quella controversa mostra intitolata Bodies, con un gran totale di circa 20 cadaveri provenienti dalla Cina, preservati e in diverse condizioni di apparente completezza. O forse si tratta di Body Worlds: The Cycle of Life, quell’altra macabra esposizione che si è conclusa lo scorso 21 giugno al SET di Roma, dopo aver viaggiato per buona parte dell’America e d’Europa. Simili finestre itineranti sul possibile non sono cosa nuova. C’è quell’individuo che è ormai poco più di uno scheletro, corredato dalla descrizione del sistema rigido che sostiene tutto il resto. C’è quello, invece, con i muscoli e senza la pelle, in posa plastica, il pallone sottobraccio, lo sguardo fisso eppure d’effetto. Ci sono polmoni scarnificati, crani sezionati, piccoli e bizzarri diversivi. E poi c’è sempre, verso l’uscita, un duplice lastrone trasparente, illuminato dalle lampade più fredde e cliniche dell’intero allestimento. Al suo interno, un globo grigio, con sotto il familiare susseguirsi delle vertebre ripiene di midollo. Tutto intorno, un labirinto di diramazioni, ad un’estremità grandi come radici, all’altra sempre più sottili, quasi invisibili persino in controluce. Sono i nervi che trasmettono i segnali del cervello. Una placca che denuncia la fondamentale verità: tutto QUESTO, sei tu. Umano. Rimossa la macchina che ti permette di masticare, digerire, defecare, respirare, senza gli occhi per guardare, né le dita per toccare, ciò che resta è l’unica parte davvero significativa. Quando, nel remotissimo futuro, sarà stato scoperto il modo per riuscire a trasferire la coscienza, difficilmente si potrà prescindere dal riprodurre tali astruse ramificazioni, nel modo più possibile fedele a quello originale. Ciò perché i riflessi periferici del nostro corpo, nonostante l’apparente predominio del possente centro di comando, contribuiscono a renderci quello che siamo.
E se…Immagina adesso una creatura, il cui essere è tanto semplice, il metabolismo primitivo, da non richiedere particolari afflussi di sangue ossigenato per continuare a funzionare. Addirittura talmente istintivo, nella sua esistenza, da ricorrere al cervello solamente in casi occasionali. Anzi, lascia perdere. Sbrigati, cala il coltello sul tagliere.

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Come una padella se potesse cuocere il gelato

Thai ice pan

Qual’è il segreto di quest’uomo? L’individuo che sopra un piastra getta latte e cioccolato, poi percuote il tutto con la sua paletta fino a che…L’insieme, meravigliosamente, si trasforma in una dolce e splendida frittella. Ma non pronta da staccare: perché il freddo crea tensione sulla superficie, e l’aderenza, parimenti, si sviluppa tra le cose lisce e quelle fluide, se soltanto gli dai modo. Poco importa? Questo non è affatto un male. Anzi, crea l’origine di un piatto nuovo, in cui gustosi rotolini (per citare quel binomio già sentito) provengono dalle implicazioni stesse di un simile metodo, ormai esportato ai quattro angoli del globo, ma soltanto qui espletato fino alle sue estreme conseguenze. Siamo a Ko Phi Phi Don, la più grande delle sei isole che compongono uno degli arcipelaghi più amati dai turisti della Thailandia, dove ancora una volta si sta dando adito quella pratica realizzativa parecchio invitante, del gelato un tempo detto Chǎo xuěgāo (炒雪糕) ovvero, in cinese: saltato in padella, mentre in inglese stir-fried. Un termine che nel presente caso, diversamente dall’accezione trattata sui maggiori dizionari, non sottintende nessun tipo di frittura, ma bensì l’immersione degli ingredienti in un fitto strato di brina, creata grazie all’uso dell’azoto in bombola pronto per tutte le occasioni. Una sorta di pratica della brutale evoluzione: non c’è praticamente nulla, a questo mondo, che tritato e posto assieme a un qualche tipo di cremoso impasto, raffreddato ben oltre i -100 gradi centigradi, non si trasformi in un gelato. Per citare il motto a margine di un’istituzione simile statunitense: “Se può essere frullato, noi lo rendiamo un gelato.” L’unico limite è la fantasia, nonché per inciso, le contrapposte situazioni di partenza.
È la naturale differenza, profonda come quella tra culture poste all’altro capo dell’universo dei palati, tra il cibo da passeggio e quello che invece, per sua massima natura, nasce sulla strada e lì rimane, diramandosi dai carrettini con la bombola, i furgoni, le basi mobili di scaltri operatori commerciali. Noi dello Stivale, ad esempio, che del bar abbiamo fatto una struttura portante della nostra intera società fuori le mura abitative, abbiamo questa concezione per cui la merenda o lo spuntino vengono quasi sempre consumati nello stesso luogo in cui li acquistiamo, salvo un paio di eccezioni e tutto ciò che ruota attorno ad esse: la pizza al taglio e il cono gelato. Certe particolari alternative, di contro, vedi le caldarroste o lo zucchero filato, compaiono in contesti situazionali assai specifici, sempre più rari. Mentre basta rivolgere lo sguardo verso Oriente, per scrutare un mondo in cui qualsiasi viale, vicolo e/o piazzola, vengono percorsi dalla gente con le mani piene, di ogni sorta di delizia, di frittelle o dolci e patatine, alimenti stravaganti o piccole dolcezze della tradizione. Ce n’è letteralmente un po’ per tutti i gusti e le stagioni. Perché ovviamente, come in tutte le questioni alimentari, nulla ha un effetto maggiore sopra l’appetito che il variare da un estremo all’altro della temperatura ambientale, che in alternativa può concedere un sollievo che trascende la comune sazietà, estendendosi alla regolazione del calore nell’esofago, che pur stando in ombra, è collegato a tutto il resto. E chiede sempre gran soddisfazione, però come si dice, pure l’occhio vuole la sua parte e…

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