L’uccellino thailandese con la moto

Official Swick

Questa moderna Xena, principessa guerriera dei centauri motorizzati, percorre le strade d’Oriente con aria gagliarda e baldanzosa. La colorazione verde velenosa del suo cornuto veicolo sfuma, all’altezza del sellino, verso le pallide stelle su campo azzurro della Bandiera Americana. Le sue marmitte sono fucili, i manubri affilate roncole ricurve. Un paio di frange disposte ad arte si richiamano allo stile dei cacciatori pellerossa di quel continente particolarmente lontano. Un casco variopinto, indossato con la cinghia lenta, funge da emblema del clan, senza per questo rovinare la splendida chioma rosso scuro di colei che lo indossa. Ma questa feroce eroina dall’aspetto heavy-metal, degna di un fumetto degli anni ’70, non incute alcun timore o soggezione. Perché a seguirla c’è il suo fedele animale domestico: l’uccello. Se questo fosse un falco pellegrino, basterebbe a trasformarla in cacciatrice di taglie tibetana, accorsa in città per catturare un pericoloso criminale in fuga. Se fosse una civetta nera, sarebbe chiaramente una strega vietnamita, in cerca d’ingredienti per il suo pentolone fumigante di pozioni e filtri misteriosi. Se fosse un’aquila di mare, la donna assumerebbe subito l’aspetto di Chuck Norris, invulnerabile sceriffo in grado di sovvertire ogni legge della fisica in nome del popolo texano, non-plus-ultra dei grandi e potenti Stati Uniti. Fortunatamente, ad accompagnarla c’è un variopinto pappagallo, simbolo buddhista dell’altruismo.
Questo uccello viveva in una foresta di bambù sotto le pendici dell’Himalaya, insieme a molti altri  animali.  E poiché tutti gli abitanti del luogo si aiutavano a vicenda, le giornate trascorrevano in pace. Un giorno ventoso, a causa dell’attrito fra le canne, scoppiò improvvisamente un grave incendio. Allora il pappagallo, ricordando la cordialità dei suoi amici, volò presso un lago e si bagnò il più possibile le penne. Tornando quindi sopra la foresta, gettò ingenuamente quel po’ d’acqua tra le fiamme, sperando di salvare la situazione. Buddha, che osservava dalla vetta della montagna, gli chiese con gentilezza: “Pappagallo, il tuo gesto è molto nobile, ma cosa speri di ottenere gettando poche gocce su di un tale grande fuoco?” E lui rispose “Per salvare la foresta farò tutto il possibile, se non in questa, nella prossima vita”. Il vento continuava a soffiare senza posa.

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Un robot cartaceo che ondeggia verso il futuro

Pepakurabot

Con un fruscio che ricorda il battito d’ali di una falena gigantesca, questo buffo essere artificiale innalza i limiti di ciò che può nascere dall’unione fra carta, colla ed elastici. Kikousya, il suo creatore giapponese, lo ha infuso di un soffio vitale che nasce dall’universalità dei principi della meccanica, ricercando applicazioni nuove per questi materiali così spesso incontrati in casa, a scuola o al lavoro. Il suo nome è M.P.M, Mechanical Paper Model. Un robot, l’omuncolo tecnologico, secondo le regole della fantascienza dovrebbe essere in grado di articolare un pensiero. Attraverso il suo computer, fare delle scelte basandosi sui presupposti del momento. Il codice concettuale di un tale essere, basato su file interminabili di zero e di uno, assumerebbe quindi la definizione di “Binario” 011000110110111101[….] Questa linea ideale, la metaforica strada cifrata, non ferrata, divide tali esseri in duplici tipologie successivamente contrapposte. Perché il robot può considerarsi uno(1)-un androide (uguale a noi esseri umani) oppure zero(0)-automatico. Il dondolante M.P.M. rientra, ovviamente, nella seconda di tali classi, assolutamente non confondibili tra loro. Ci sono, a loro volta, due geníe di questi individui privi di raziocinio: (0)mecha e (1)karakuri. La prima suscita immagini di conflitti futuribili, combattuti fra meccanismi possenti di aspetto vagamente antropomorfo, con dentro piloti umani che ne guidano le gesta, come in versioni immaginifiche dei moderni veicoli o aeroplani da combattimento. La seconda é quella dei giocattoli, le curiosità. Nella storia recente del Giappone, fra il XVII e il XIX secolo, vennero prodotte un’ampia varietà di bambole meccaniche, in grado di servire il tè o mettere in scena qualche breve momento di un dramma teatrale particolarmente famoso. Il pupazzo fatto a mano di Kikousya è l’incontro fra questo mondo e quello dei pepakura, le sculture di carta che trascendono le regole ferree degli origami, andando oltre il tradizionale concetto di “un solo foglio, ripiegato su se stesso”. Non c’è il treno della coscienza, sul binario di questo automa fine a se stesso. Ma la sequenza crittografica di un’entità davvero interessante, quella si.

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L’epica impresa della macchina del ghiaccio umana

Extreme Ice Cube Stunts

Ad Aprile, con il progressivo scaldarsi del clima italiano, tornano le rondini dai paesi più caldi dell’Africa equatoriale. Percorrendo all’incirca 10.000 chilometri, ciascun volatile ritrova il nido in cui era nato, per dare un suo personale seguito al patrimonio genetico della specie. La capacità di orientarsi è il bene più prezioso della rondine. Togli le piume all’uccello, scambia i tropici con il frigorifero e il nido con un bicchiere di Coca-Cola per ottenere Shane e Collin che preparano i drink per una festa con gli amici. 63 cubetti di ghiaccio in bilico, sospesi tra un capitombolo e il teatro di un fantastico accoppiamento; oggi, comunque vada, si farà la storia. È tutta una questione di reazioni a catena. Stiamo assistendo alla messa in opera di una complessa macchina di Rube Goldberg, l’invenzione che consiste nell’impiego dei fattori più disparati ed inutilmente scenografici al fine di ottenere un risultato piuttosto semplice. In questa qui però, l’abilità umana trova uno spazio molto più significativo della media. Alla fine, le leggi della fisica ti portano solo fino ad un certo punto: l’inerzia sussiste, la gravità attrae e l’applicazione di una forza crea un singolo vettore direzionale. Così, gli amici finiranno per morire di sete. Rinfrescare le bibite richiede sveltezza di mano, prontezza mentale e un alto grado di astuzia; soprattutto, ci vuole una preparazione estremamente accurata. I sessantuno boccali (ci sono due cubetti in più, dove siano finiti non ne ho idea) sono stati disposti ad arte lungo una serie di tavolate parallele e aspettano pazientemente, con il coronamento addizionale di vari tipi di oggetti. Alcuni sorreggono tubi di cartone, altri confezioni vuote dei panini del fast-food, nel caso più singolare c’è tutta una fila di pirotecnici bastoncini da gelato. E sopra a ciascuna di queste improvvisate basi di partenza, c’è il ghiaccio, l’agognata freschezza potenziale dei sublimi liquidi festaioli. Un colpetto lì, un preciso lancio da speciali scivoli costruiti in legno, due o tre pattini e una cannuccia roteante più tardi, l’impresa s’è compiuta. Resta solo da versare la Coca-Cola. Hai detto niente!

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L’artista che imbriglia il vento nelle sue sculture

Antony Howe

L’arte di Anthony Howe nasce da una serie di competenze meccaniche straordinariamente personali, che gli permettono d’incanalare il respiro della Terra all’interno di svettanti installazioni metalliche, basate sul principio stesso dell’infinito dinamismo. Nei centri urbani, in prossimità dei luoghi di passaggio e delle piazze, le sue sculture ci ricordano della fluidità del contesto umano, tutt’altro che immanente: un breve attimo nel giardino dei Venti, terreno fertile per la relativa Rosa. Sospeso nel vuoto cosmico, appoggiato su di un sottile strato roccioso posto fra il magma e il gelo più assoluto, il mondo civilizzato potrebbe dirsi il frutto di uno scontro tra forze che tendono a sfuggire dalla nostra comprensione, con estremo impeto e forza generativa. Siamo circondati da mostri invincibili dai nomi antichi, che si scontrano fra loro in una guerra eterna: la fredda tramontana in opposizione all’ostro, levante e ponente che soffiano dai paesi distanti di civiltà agli antipodi, grecale o libeccio, chi vincerà? Sarà meglio, per noi insignificanti ospiti del pianeta, limitarci ad osservare. Mentre i tifoni, gargantueschi, battono le coste del sud-est asiatico e le brezze ostili si congregano nei terribili tornado del Midwest Nordamericano, questo artista ci mostra il lato più mansueto di tali forze, ovvero come l’aria in movimento possa anche creare e modificare strane forme, con gestualità prevedibile, persino ripetitiva. I petali del fiore, senza le sgradite spine. Simili a meduse, planetari e talvolta quasi accidentalmente figurative, con tanto di volto vagamente antropomorfo, le sue creazioni si nutrono di energia eolica creando negli spettatori un senso ipnotico di assennatezza. Alla fine anche la luce, veicolata da pannelli lucidi o specchietti ultra-leggeri, finisce per fare la sua parte.

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