Le tre flotte fantasma sui confini degli Stati Uniti

Suisun Bay

Mentre il vento della guerra soffia e infuria la tempesta, i pollini del desiderio e dell’ingegno imperversano sui mari della Terra. Sono fatti di metallo, plastica fibra di vetro. Plutonio, tritolo e petrolio; dove attecchiscono, nascono le navi. Incommensurabili e possenti, oppure rapide, agili e scaltre: gli strumenti dell’umanità in guerra sono tutto, tranne che uguali a loro stessi. E persino la prototipica capacità di variare delle cose naturali, al loro confronto, impallidisce nella sua essenza. Perché in quell’altro luogo, in cui vige il passo dell’evoluzione, tutto è costruito sulla base di una logica, che sopra ad ogni cosa aborrisce gli sprechi. Laddove le nazioni, fallibili quanto coloro che le costruiscono e sostengono, talvolta operano in forza del “Se puoi farlo, fallo. L’utilità? La troveremo. Altrimenti…” Sopraggiunge l’abbandono, inevitabile, tragico e indesiderato. A tal punto che non c’è mai stato, nella storia militare degli Stati Uniti, un momento in cui qualcuno ha detto: abbiamo troppo di QUESTA particolare cosa. E tanto meno ciò è avvenuto nell’ambito della marina, dove c’è un intero ente, il MARAD (United States Maritime Administration) che tra le sue molte mansioni, annovera il custodire e mantenere semi-operativo l’intero catalogo in arretrato degli scafi-surplus della sua nazione. Un proposito operativo non esattamente semplice, quando si considerano gli impressionanti costi implicati dall’operazione ed un budget che, per quanto tutt’altro che insignificante, non può fare a meno di essere influenzato dalle fisime della finanza odierna. Ma sopratutto, così terribilmente, mostruosamente ingombrante…
Al momento culmine della sua storia verso la metà degli anni ’50, la Flotta Nazionale di Riserva (NDRF) contava ben 2.277 navi, ripartite tra otto distinti siti di ancoraggio: Astoria, Oregon; Stony Point, New York; Wilmington, North Carolina; Mobile, Alabama; Olympia, Washington; James River, Virginia; Beaumont, Texas e Suisun Bay, California. Le navi ivi custodite, ancora dotate di una certa patina residua d’utilizzabilità, furono impiegate in diversi significativi casi, con il ruolo di trasporti di approvvigionamento, oppure per le truppe stesse da inviare al fronte, in Corea e Vietnam. Oltre a servire da risorsa ipotetica, da utilizzare in caso dello scoppio di una nuova guerra mondiale, furono inoltre tenute presenti, e qualche volta schierate, in diversi momenti di crisi del commercio internazionale. Ma col trascorrere degli anni, gli effetti dell’erosione atmosferica, dell’acqua salata e della ruggine hanno intaccato l’antica patina di splendore e funzionalità, lasciando solamente il guscio e l’apparenza di quello che un tempo era stato tanto formidabile. Oggi sopravvivono soltanto tre degli antichi siti: James River, Beaumont e Suisun Bay. In buona parte, sono diventati dei veri e propri cimiteri sul mare.
Il termine tecnico è mothballed fleet – flotta (messa) sotto naftalina. Una metafora in realtà tutt’altro che calzante, visto come la strutturale risultanza della nostra ingegneria navale non possa, purtroppo, essere tratta in salvo alla maniera dell’abbigliamento, venendo chiusa dietro le ante di un sicuro armadio. Ma purtroppo sia costretta, per la sua imponenza e attraverso il corso dell’intera vita operativa e pensionamento, a giacere nell’equivalenza di un lenzuolo, attaccato a un filo del bucato e poi lasciato a sventolare, tra le alte e basse pressioni di mesi, anni, generazioni. I risultati, purtroppo, sono difficili da trascurare. In particolare il punto d’approdo più famoso, che si trova a poca distanza dalla città di San Francisco, in prossimità del delta risultante dalla confluenza dei fiumi Sacramento e San Joaquin, offre uno spettacolo impressionante e senza eguali nel mondo, con le poche navi residue ancora saldamente ancorate al fondale basso della baia, a perenne monito di chi comprende a pieno l’ardua verità: non c’è niente, senza tempo. Tranne il tempo stesso. E quegli svettanti pennoni d’altri tempi (in realtà ben più prosaiche e moderne antenne) svaniscono nella nebbia, all’orizzonte…

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Come spostare una barriera lunga quattro chilometri in un’ora

Zipper Truck

Come ogni giorno, mattina e sera, il camion giallo del Golden Gate lascia ancora una volta il suo deposito, per avventurarsi lungo il suo tragitto da un lato all’altro di quello che costituisce, da ormai 83 anni, il singolo ponte più famoso e fotografato del mondo intero. Tanto che la prassi di cui tale veicolo è il protagonista, in atto da circa un anno, non può che essere definita una sostanziale novità. La scena si verifica al termine delle due ore di punta maggiormente temute, ovvero quando gli abitanti della zona residenziale a nord del grande ponte hanno finalmente concluso la loro marcia, con auto, moto e vari tipi di furgoni, verso il centro cittadino, diciamo verso le 9:00/9:30 circa; quindi, ancora una volta di sera, in senso contrario e dopo le 19:00, quando l’ingorgo di ritorno a casa si è finalmente districato e tutti si apprestano al consumo della meritata cena. È una visione insolita, ma niente affatto incomprensibile: dopo il primo attimo di spiazzamento, persino a dei turisti provenienti da fuori come potremmo essere noi, appare totalmente chiaro quello che sta succedendo. Una squadra di circa 6 uomini, egualmente suddivisi nelle due cabine di comando del bizzarro veicolo, sono impegnati a manovrare la più grande chiusura lampo che si sia mai vista. Proprio così. Beh, non esattamente… Tuttavia, se ci fosse della stoffa attaccata agli oggetti della loro attenzione, ed un altro camion due corsie più in là, tale descrizione corrisponderebbe esattamente all’assoluta e chiara verità.
Si tratta di un’esigenza piuttosto gravosa, eppure del tutto inscindibile da questo luogo. Il fatto è che il vecchio e magnifico ponte, la cui costruzione condotta secondo i crismi estetici dell’Art Decò fu portata a termine proprio al culmine della grande depressione americana degli anni ’30, fu costruito pensando al futuro, ma non abbastanza. Ed ebbe un successo superiore alle aspettative; giacché la promettente città di San Fran, rispetto agli altri grandi centri della Costa Occidentale, non sembrava crescere in modo sufficientemente veloce. Eppure nessuno sembrava pensare, in quell’epoca, che sarebbe diventata di lì a un paio di generazioni la 13° per popolazione degli interi Stati Uniti. Con quasi un milione di persone concentrate in 600 Km quadrati, proprio sulla punta nord dell’omonima penisola californiana. Con una densità tale, da raggiungere quella della metropoli di New York! E tutta quella gente, che sarebbe restata unita alla terra ferma da un solo lato, se non per quella sottile striscia di cemento sospesa ai possenti cavi, lanciata coraggiosamente da un lato all’altro di una baia ventosa e soggetta a correnti particolarmente violente, tanto che per molti anni il progetto fu ritenuto “sconsigliabile ed imprudente”. Ma il fatto è che il ponte si fece, eccome. Anzi a chiedere agli odierni pendolari che ne fanno l’impiego più assiduo, ce ne sarebbero voluti anche due. Non credo sia nemmeno lontanamente comparabile al consueto concetto di ingorgo stradale, questa situazione di una vera e propria strettoia geograficamente insuperabile, attraverso cui devono filtrare quotidianamente, come i granelli di una clessidra, tutti gli appartenenti alla working class locale, che nella loro vita non sono stati abbastanza fortunati, o facoltosi, da procurarsi un’abitazione nella vera e propria Città della Nebbia (che non è Avalon, ma…) Sei corsie. Soltanto tre in ciascun senso, ed anche piuttosto strette, al punto che nei momenti di traffico leggero e veloce, il sorpasso diventa un’impresa complicata ed ansiogena per qualsiasi automobilista inesperto. Ora, in simili situazioni sulla terra ferma, generalmente si opta per un ampliamento del tratto stradale, tramite l’aggiunta di qualche costoso metro ai due lati della carreggiata, che si estenda per l’intero tratto oggetto del sistematico congestionamento. E qualcosa di simile, incredibile a dirsi, fu fatto anche nel caso di almeno un ponte, quello di Auckland in Nuova Zelanda, che nel 1965 fu visto arricchirsi delle due celeberrime “Nippon Clip-on”, delle aggiunte posticce alla carreggiata, prodotte e messe in opera dalla compagnia giapponese Ishikawajima-Harima (il buffo nome è un’eredità della diffidenza popolare rimasta dall’epoca dell’allora vivida seconda guerra mondiale). Grandi opere ingegneristiche, che tuttavia comportarono una spesa estremamente considerevole, ed iniziarono ad essere oggetto di continue limitazioni d’utilizzo dopo pochi anni dal completamento, quando si scoprì che un ipotetico, sebbene quasi impossibile ingorgo di grandi camion, avrebbe potuto teoricamente portare ad un cedimento catastrofico della loro struttura.
Mentre qui negli Stati Uniti della vecchia frontiera, fu chiaro da subito, si sarebbe scelto un approccio più semplice e tradizionalista. La definizione di una corsia mediana, o per così dire, “ballerina”, che venisse impiegata a turno dalla maggiore parte della collettività. Ed il problema fu, fin da subito, trovare un metodo per regolamentare la cosa…

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L’imminente decollo del sedere più grande al mondo

Airlander

Sarà un grande giorno, per le aspettative troppo a lungo disattese. Sarà un momento storico per l’intera storia dell’aviazione. Sarà grande, sarà magnifico, davvero emozionante. Una visione pari a quella degli extraterrestri, che in tanto cinema di genere gettarono la loro ombra sopra le piazze o i monumenti della Terra. Proviamo per quanto possibile, con gli occhi della mente, a prefigurarci il varo del possente dirigibile HAV-3, volgarmente detto Airlander 10. E ancor più volgarmente… Siamo nel Bedfordshire, tra Northampton e Cambridge, nel cuore di quel verdeggiante mondo che è la dolce campagna inglese. È una mattina dell’imminente estate del 2016, ovverosia quando il progetto più che quinquennale, almeno stando alle più realistiche previsioni, sarà finalmente giunto a compimento. Dozzine, centinaia, ma che dico, decine di curiosi, oltre alla stampa richiamata per l’occasione e gli onorati potenziali investitori della compagnia produttrice, si saranno assai probabilmente radunati, sulla cima di un colle, a poca distanza dalla vecchia base militare della RAF a Cardington, dove notoriamente soggiaceva il grande Leviatano…
E sarà un brusio continuo, di confronti e discussioni, compunte descrizioni delle alterne aspettative: “Hai sentito, si tratta dell’aeromobile più grande al mondo! Ma non il maggiore che sia stato costruito. Quel record spetta ancora all’Hindreb-Hinderburg…Ah, che sfortuna! Davvero quei tedeschi…” Farà Larry con l’inseparabile pipa, un agricoltore di Kempston; “Si, ma 91 metri? Capisci cosa significa? Una lunghezza paragonabile a quella di un campo da rugby, o in altri termini, 6 autobus a due piani. Crickey! Stavolta si tratta di un’eccellenza nazionale, un qualcosa che soltanto noi inglesi, potevamo meritarci!” Risponderà Steve, stimato panificatore della vicina comunità rurale di Clapham (non il quartiere di Londra, semplice caso di omonimia toponomastica). Mentre i rispettivi cani, un entusiastico Airedale Terrier ed un Labrador Retriever, continuano la folle corsa dietro a una palla da tennis, ritmicamente recuperata e riportata ai rispettivi padroni, con lo sguardo perennemente rivolto all’orizzonte. Finché non ebbe a palesarvisi, come da precise aspettative, l’ombra di un qualcosa di meraviglioso. Uno sferoide, assai distante, eppure si capiva: totalmente colossale. “Guarda, eccolo lì!” Il grande velivolo, a distanza pluri-chilometrica, appariva ancora come una massa indistinta. Chiaramente puntata, con un soave senso d’esultanza, proprio verso loro due, con tutti gli altri spettatori. “Steve, io, io…Non so che dire!” Con le nubi a fargli da cornice, l’impossibile presenza non poteva che apparire in proporzione, ancor più megalitica e imponente. Passarono i minuti. Lo spazio continuò a ridursi. Finché ciò che era stato un tutt’uno apparve, quasi all’improvviso, definibile da proporzioni ben precise. Il davanti del colosso: due forme cilindriche, come globi allungati, con l’apogeo disposto a culmine, nel punto focale dell’intera incomparabile struttura. Ed in mezzo, un’attraente rientranza, come uno spazio tra due alte colline che volavano nel cielo. Ma non proprio, una dolce valle. Bensì uno stretto canyon, angusto, misterioso. Come colti dal pathos dell’attimo fuggente, i due cani tacquero, sedendosi compunti ad osservare l’atmosfera. La palla giacque, ormai dimenticata. “Larry.” Fece l’altro, con la pipa bene stretta nella mano destra, lievemente scostata dalla sua bocca alzata all’angolo con smorfia carica di sottintesi: “Questa cosa. Non sembra tanto anche a te un divino…”
Lo chiamano, ormai da qualche anno, con la denominazione commerciale Airlander 10. Non è esattamente un dirigibile, né un aereo. E non è di certo un elicottero, benché generi una parte significativa della sua portanza grazie all’uso di due eliche intubate, rigorosamente rivolte verso il suolo. Il fatto che ricordi vagamente, nella sua suggestiva forma, l’essenza incomparabile del gluteus maximus (muscolo più grande e forte del corpo umano) è una pura coincidenza, dovuta a considerazioni di tipo aerodinamico e utilitaristico. Semplicemente, volava meglio così. Se lo si osserva dal retro, del resto, l’illusione svanisce, vista la presenza di ben tre tondeggiante preminenze, ovvero, una in più. Una questione accuratamente studiata e definita, poiché, contrariamente alle apparenze, questo velivolo pieno d’elio non è di un tipo che possa realmente definirsi più leggero dell’aria. Appartenendo, piuttosto, alla classe degli aeromobili ibridi, che pur contando sulla propria naturale tendenza a fluttuare, non potrebbero mai rimanere a distanza dal suolo, senza sfruttare anche l’energia di uno o più potenti motori. Una curiosa, e alquanto rara via di mezzo. Che presenta dei notevoli vantaggi operativi.

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Le moto-sculture di un “Michelangelo” dell’Art déco

Decoson

“Dannato Zardoz, questa volta non mi sfuggirai!” Esclamò Gordon fra se al semaforo, mentre si guardava attorno circospetto, prima di attraversare la trafficatissima Rodeo Drive, la sua micro-astronave sfavillante sotto il caldo sole della California verso l’inizio della primavera. Cromature, dietro al suo sellino, cromature sul manubrio e le fiancate, cerchioni cromati e neanche a dirlo, un casco degno di far parte di un servizio in silverware, con tanto di coda aerodinamica appuntita, per incoraggiare l’aria a far la scia. E in tasca un foglio consegnatogli direttamente dal sovrano direttorio della Federazione dei Pianeti, con sopra l’identikit, la descrizione e l’itinerario del nemico pubblico numero 1, un uomo incauto e disattento, che per l’ultima volta aveva messo i suoi bastoni tra le ruote del club dei potenti della vecchia Terra, John, Jim, Jackson e Lorelene (l’unica donna dell’intera cintura alcolico-asteroidale!). D’improvviso, i pirati della Sesta Luna palesarono il consueto attacco aurale, sul momento della curva delicata per immettersi su Carmelita Avenue per dirigersi verso i territori periferici di Santa Monica, quando un grosso Hummer-tron, veicolo tutt’altro che inusuale in tali luoghi, suona il clacson disturbante all’indirizzo del centauro spaziale. Con la mano destra che già lascia il suo manubrio, per stringersi sul calcio della piccola pistola a raggi in dotazione dal consueto sferoide rosso in punta, come le ray-gun dei vecchi film di fantascienza, Gordon guarda chi c’è a bordo della minacciosa fuoristrada; ah, ok! Di nuovo! È soltanto un giovane che lo saluta, sorridendo. Ah, questi terrestri… Non avete mai neppure visto, un’astro-personal-motorbike-aerodynamic-Decoson? Sollevando momentaneamente gli occhialoni da aviatore, l’eroe galattico si solleva in alto sul sellino, quindi compie un gesto di spontanea simpatia. Ma l’attimo di relax è già trascorso, mentre i letterali metri al secondo scorrono sotto di lui, assieme all’asfalto e a ogni residuo di tranquilla umanità. Le ingiustizie devono essere contrastate. E il fattorino-criminale, questa volta, porterà la pizza al giusto club dei giocatori di ruolo fanta-stellare. La “Federazione”, per l’appunto, dei Pianeti. “Dannato Zardoz!”
Strani veicoli si aggirano per le strade degli Stati Uniti occidentali: non sono molti, ma colpiscono immediatamente l’immaginazione. L’opera complessiva del glitterato garage di Green Pass di Randy Grubb, nel verdeggiante Oregon dei parchi naturali e della Cascade Range, costituisce l’insolita dimostrazione di quello che succede quando il buon gusto (piuttosto raro) incontra la tipica passione statunitense per i mezzi di trasporto personalizzati, costruiti generalmente con finalità meramente utilitaristiche, come le classiche hot-rods prive di cofano, o votate agli eccessi ad ogni costo, vedi tutti quei rombanti monster trucks con ruote giganti, oppure i dragsters, veicoli sottili quanto un freccia, ed altrettanto abili nel curvare. Mentre qui siamo di fronte ad un qualcosa di generalmente utilizzabile, benché non proprio limitato da un design che si possa realmente definire, minimalista. Ed è proprio dalle misurate vie di mezzo, ancora una volta, che nasce un principio totalmente oggettivo di assoluto ed armonia. Le sue creazioni più recenti, coronamento di un progetto nato attorno al 2012-13, meritano poi un paragrafo del tutto dedicato: visto che costituiscono, per la prima e speriamo non ultima volta, l’applicazione del suo metodo al mondo delle due ruote, con tre classi ben distinte di scooter e moto, ciascuna, di per se, degna di guidare sugli anelli di Saturno. In primo luogo abbiamo il deco-bipod, sostanzialmente nient’altro che un motorino Piaggio Fly 150, al quale è stata rimossa interamente la carrozzeria, per sostituirla con…Qualcosa…Di unico. Un vero e proprio guscio aerodinamico in alluminio, del tipo che lo stesso Randy sa creare, un singolo pezzo alla volta, ribattendo il malleabile metallo con i suoi strumenti, tranquillamente degni di trovare posto nell’officina di un fabbro. L’oggetto è organico e flessuoso, con un corpo a forma di goccia che si stringe nella parte posteriore, un singolo faro frontale e due luci di posizione montate su gondole rialzate, simili agli ugelli di un razzo spaziale. Le rivettature delle singole piastre, incastrate tra di loro a formare una serie di linee organiche ed attraenti, non vengono nascoste, ma piuttosto sono messe in evidenza, come previsto da uno stile che enfatizza il ruolo tecnologico dei suoi singoli elementi (chi non ricorda Metropolis del 1927, il film muto capostipite del genere raygun-punk). Ma la storia, chiaramente, non finisce qui. Nei primi mesi del secondo anno, infatti, l’artista si è procurato un altro motociclo della piaggio, nient’altro che il popolare scooter a tre ruote denominato “MP3”. Un mezzo certamente più pesante, e stabile, più che mai adatto a sorreggere una sovrastruttura di alluminio ancor più stravagante. Dotata, questa volta, di ben due sportelli, e persino una griglia da radiatore degna di una Bugatti degli anni ’20 e ’30. E non siamo ancora giunti al non-plus ultra: immaginatevi cosa potrebbe fare un’individuo simile, trovandosi a disporre di una Harley-Davidson Sportster del 1984…

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