Un fruscio tra l’erba sudamericana, un movimento ai margini del proprio sguardo. All’improvviso, in mezzo alla vegetazione, si palesano due orecchie triangolari. Una volpe rossa? A queste latitudini? Con la barba bianca? Poteva sembrarlo, fino a poco fa. Se non che in questo momento, dietro a quel paio di acuti occhi neri, si sta sollevando una criniera scarmigliata, simile per certi versi a quella di iena. E poi, cosa ancor più strana, tutto l’animale parrebbe fluttuare nell’aria fresca della pianura, tanto è distante da terra in proporzione alle sue apparenti dimensioni. Esso avanza lentamente all’altezza di 90 cm circa, senza sobbalzare in alcun modo. quindi fuoriesce dalla copertura del sottobosco, per mostrare…. Quattro zampe nere, lunghe, lunghe, affusolate. Degne del più leggiadro tra i levrieri o gli ungulati. Che si muovono in alternanza, negli spostamenti: prima le due destra, poi quelle in opposizione. Finché l’impossibile chimera, giunta ormai troppo vicino, apre la sua bocca. Ed inizia a parlare.
Si usa dire che il lupo sia l’antenato del cane, così come la scimmia lo è dell’uomo, ma se lupi e scimmie ancora esistono, come potrebbero mai questi essere i nostri progenitori? Non è attestato, nell’evoluzione così come in qualsiasi aspetto dell’universo, il concetto di un qualcosa che resta immutato attraverso i secoli e i millenni, senza sviluppare dei tratti che derivino in qualche maniera dal suo ambiente naturale. Sarebbe quindi più corretto affermare che, in ciascuno dei due binomi citati, sia presente un punto di partenza in comune. Un precursore, una creatura simile a una delle due rimaste che colonizzò il pianeta, incorporando il seme della propria crescita futura. Proprio per questo si usa parlare di “albero” genealogico, in cui il tronco è antico e solido, mentre i rami molteplici, flessibili e progressivamente più sottili. Certo, non fa piacere pensarlo! Che una creatura elevato come l’uomo, persino all’apice delle sue possenti e variegate civiltà, non possa fregiarsi di una discendenza più onorevole di quella dell’orango, del gorilla e dello scimpanzé. Ma la stessa cosa si sarebbe potuta dire dell’Homo neanderthalensis, e guardatelo ora. Riprodotto nella cera, dietro le vetrose teche dei musei. L’abbiamo (fin troppo) chiaramente dimostrato: noi non siamo figli suoi.
Mentre il genere canis, cui appartengono le mille e più razze del nostro compagno domestico più diffuso, si sa, è piuttosto omogeneo. Non c’è una grande differenza, dal punto di vista genetico, tra un carlino, un pitbull, un alano, o persino la temibile creatura che divorò la nonna di Cappuccetto Rosso. Benché i ruoli e gesti quotidiani, questo è inevitabile, risultino piuttosto vari. Diverso è invece il caso, se prendiamo in considerazione l’intera famiglia dei canidi, della quale fanno parte anche gli sciacalli, i dingo le volpi… Esseri non così distanti nell’aspetto superficiale, ma che presentano caratteristiche altamente specifiche nella dieta, nella dentatura, nella forma del cranio e per innumerevoli altri marker distintivi della biologia. Tanto da costituire, a tutti gli effetti, dei rami ben distinti dell’antico arbusto, il cui punto condiviso è tanto in basso che potremmo situarlo, se vogliamo, anche nel punto in cui s’incontrano le radici; che per inciso, nella classica metafora non andrebbero considerate. Tutto cresce e muta, dunque. Ma talvolta, riesce a farlo rimanendo ben distante dai suoi simili, tanto da mantenere la propria fondamentale identità. Se oggi esistessero ancora gli uomini di Neandertal, che fine avrebbero fatto? Li avremmo riconosciuti come nostri distanti e meritevoli cugini? Nel mondo dei cani, qualcosa di simile è già successo. Purtroppo, nessun lupo accetterebbe nel suo branco un crisocione.