L’artista che ha spostato le ossa del deserto per creare zone del pensiero inusitate

Il condor del Nevada diede un pigro battito di ali, mentre perlustrava l’area della valle dove il vento aveva un suono incostante. Non scolpita, come quella accanto, da processi naturali alla pennuta percezione dell’istinto, bensì fatta di ombre, luci ed ombre sovrapposte in qualche tipo di “disegno”. Uccello abituato a vivere lontano dalle costruzioni umane, egli aveva una pur vaga idea di come queste fossero comunemente strutturate: quattro mura, un tetto, vie d’accesso e recinzioni a tratteggiarne i distinti confini. Dal suo punto di vantaggio sopraelevato, in effetti, non era difficile scorgere un paio di ranch creati sulla base della razionalità mondana. Eppure anche il cervello rettile del tutto responsabile dei suoi limitati ragionamenti, normalmente non lontani dai bisogni di trovare fonti d’acqua o di cibo, riusciva ad identificare le difformità di tale luogo eccessivamente geometrico e rispondente alla ricerca di un qualche tipo di disegno. Luci ed ombre in digradanti viali, strade e recipienti vicendevolmente sovrapposti, quasi a competere per il diritto all’esistenza; vestigia di scomparse civiltà le quali, a ben pensarci, non erano mai davvero esistite. A meno di volerne individuare l’ombra scintillante dietro le pupille di un singolo individuo.
Michael Heizer, l’artista, scultore e costruttore che prima di ogni altro, ed in sostanziale solitudine creativa, scelse di trovare il proprio metodo espressivo nel movimento della terra. Non intesa come la danza di questo atletico pianeta, bensì l’effettiva alterazione di equilibri antecedenti alla creazione degli spazi a noi più congeniali, frutto della formazione di un paesaggio inerente. Mai su scala e con palesi risultati che fossero paragonabili a City, l’opera nella Green Valley a nord di Las Vegas al cui completamento ha dedicato 50 anni della sua esistenza. E 40 milioni di fondi, con i primi stanziamenti reinvestiti dalle sue finanze, per poi trovare l’assistenza di fondi federali e mecenati di varia natura. Al fine di creare… Questa Cosa Vuota, una visione lunga 2,5 chilometri e larga 0,5, fondata sulla sua interpretazione personale di un sito archeologico impossibile, conforme alle vestigia di un’antica capitale dimenticata dal tempo. Un miracolo di organizzazione, logistica e pianificazione, per quanto possa esserlo un qualcosa che deriva dichiaratamente parte della propria ispirazione dalle piramidi a gradoni di Chichén Itzá. Che compaiono nella struttura di diverse arene centrali, convergenti verso un sito monumentale che parrebbe il monumento dedicato a una divinità sovrana. Quattro pinne aerodinamiche in contrapposizione a picchi digradanti simili agli scudi in uso per contenere il fuoco dei post-bruciatori sul ponte di volo di una portaerei invisibile. Per alcuni, il più grande spreco di risorse. Secondo altri, il più incredibile degli skate-park…

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La pista da windsurf scavata per estrarre nuovi record dal deserto della Namibia

Non sappiamo esattamente cosa esclamò il surfista francese di una certa fama Sebastien Cattelan, quando nel 2004 durante una vacanza africana raggiunse l’ex città mineraria di Lüderitz, nella regione meridionale della Namibia. Un luogo celebre per le sue buche un tempo scavate alla ricerca dei diamanti, una piccola chiesa gotica, la residenza del sindaco e quella del capo delle aziende di estrazione all’inizio del XX secolo. Esempi di architettura modernista ragionevolmente interessanti, ma non quanto la ciò che seppe costruirvi la natura: la baia riparata dalle onde dell’oceano, sul finire di una costa tanto piatta da poter servire ipoteticamente come pista d’atterraggio per gli aeroplani. Se non fosse per l’incredibile energia dei venti. che in determinati periodi dell’anno tendono a soffiare da meridione, in maniera sostenuta e prevedibile, convogliandosi a ridosso di un basso promontorio che perfeziona ulteriormente la loro forza. 40, 50, persino 60 nodi sono la norma in questi luoghi, così da trasformare ogni leggiadra vela nell’equivalenza di un motore fuoribordo, in grado di spingere chi ne fa uso alla velocità di un falco pellegrino che è appena riuscito a individuare la propria preda. Pericolo a cavalcare le tavole a vela in questo inferno del possibile, c’è ne abbastanza. Esaltazione, indubbiamente. Ma soprattutto, l’ambizione possibile di trasformare tale ebbrezza in un sentimento per molti versi istituzionale. Così chiamato sulla scena il proprio amico e collega Fred Dasse, comprovato organizzatore di eventi sportivi, i due misero in pratica l’eccezionale idea. Di prendere a noleggio uno scavatore, e lavorando alacremente per diverse settimane, ricavare un tragitto… Curvo, come la curva di una pista da formula NASCAR, nella sabbia riarsa con un fondo piatto non troppo profondo. Onde scongiurare il più possibile la formazione d’increspature. Nemiche imprescindibili di chiunque abbia il desiderio, in simili frangenti, di andare il più possibile veloce. Erano questi gli anni del magnifico record di velocità umana di 49.09 nodi (90,9 Km/h) stabilito da Antoine Albeau presso il canale di Sainte-Maries de la Mer, nella regione della Costa Azzurra. Eppure molti si chiedevano se non fosse possibile, nelle condizioni ideali, superare il muro concettuale dei 50, entrando in tal modo a far parte imprescindibilmente negli annali della tavola a vela. Le condizioni ideali, finalmente, sembravano essere state trovate. E nel 2007, durante la prima edizione di quella che avrebbe preso il nome di Lüderitz Speed Challenge, ci si andò già piuttosto vicino…

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Lo scavo di Serse che aprì una falsa rotta verso l’immortalità persiana

Se si legge davvero Erodoto, giungendo a interpretare le parole del padre della storiografia attraverso lo strumento della logica, non è impossibile la percezione di una prospettiva molto più pragmatica di quanto gli scienziati tendano ad attribuire a tali scritti. oggettivamente calibrati sulla base di un bisogno di veicolare sottotesti moralisti ed un messaggio per le generazioni future. Così per il conflitto alle Termopili, idealizzato nella narrativa culturale e folkloristica come il prototipo tra scontro di civiltà contrapposte, egli ci forniva un corollario, troppo spesso trascurato nelle rappresentazioni idealizzate dell’impresa di Re Leonida e i suoi Trecento. Proprio perché fastidiosamente utile a nutrire il dubbio che il Nemico, supremo governante del vasto ed assillante Oriente, fosse caratterizzato da uno spirito fattivo ed ingegnoso, lo stesso attribuito in modo stereotipico agli altri produttori di un valore nel Mondo Antico. Sto parlando, chiaramente, di Serse e della battaglia navale di Capo Artemisio (stesso anno di quel passo leggendario: 480 a.C.) e del percorso per cui tramite la flotta degli Achemenidi raggiunse il golfo Termaico, luogo dove avrebbe conosciuto la sua più acerrima ed irrimediabile sconfitta in parallelo alle forze di terra facenti parte dell’invasione. Nonostante una disparità di forze ancora una volta a vantaggio dell’invasore, per 1.207 scafi contro gli appena 271 della lega Pan-Ellenica, per di più costituite da vascelli più piccoli ma proprio in conseguenza di ciò, capaci di navigare molto agevolmente tra le forti correnti del Mar Egeo. Al punto che sarebbe stato lecito chiedersi come Serse fosse riuscito, esattamente, là dove suo padre Dario aveva fallito, nel doppiare uno dei tratti marini più pericolosi dell’intera regione balcanica, il primo dei tre capi costituenti il “tridente” della penisola Calcidica, sotto l’ombra del monte sacro di Athos. Un luogo costato, 12 anni prima, una buona parte delle 300 navi e 20.000 uomini al comando del generale persiano Mardonios, quando una raffica di vento improvviso li aveva portati ad impattare contro la scogliera, permettendo nelle parole di Erodoto stesso, alle bestie feroci “di portare via i viventi” volendo alludere molto probabilmente all’opera di grandi squali bianchi. Come convincere di nuovo la leadership militare sottoposta all’autorità del Re dei Re che la sola strada per la Grecia fosse nel contempo la migliore immaginabile, nell’interesse della maggior fama delle proprie genti e il fato manifesto che ne guidava le imprese? Così prosegue lo storico di Alicarnasso: scavando un canale capace di aggirare il problema.
Due chilometri di lunghezza per 30 metri di ampiezza, realizzati in un periodo di tre anni circa, facendone effettivamente una delle opere d’ingegneria militare più significative della propria Era. Al pari guarda caso del ponte di barche per attraversare l’Ellesponto per una lunghezza di 1.300 metri circa, anch’esso fatto edificare da Serse ed estensivamente descritto nelle Storie a qualche capitolo di distanza. Ma senza lo stesso problema fondamentale di credibilità immanente. Poiché se un grande canale attraversò per qualche tempo la Calcide, per quale assurda ragione non ve n’è la minima traccia residua? Indagini, in epoca moderna, avrebbero seguìto agli spunti d’analisi risultanti…

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La costosa fortezza concepita per tenere una temuta carpa fuori dall’America settentrionale

Avevano promesso alle mie pinne una vasca senza pareti, ma alghe. La terra mistica dove ogni desiderio può trovare realizzazione. Una distesa sabbiosa e simile, per molti versi, al Paradiso. Ciò che i pesci mentitori non avevano incluso nei loro muti aneddoti, era la sensazione paralizzante d’attraversare una scarica elettrica a media tensione. Né i suoni terrificanti anteposti a una membrana di bolle omicide. Seguita da una desolante distesa di cemento sommerso, senza nascondigli o validi pertugi per tentare di riprendere fiato. Sotto ogni punto di vista rilevante, l’Inferno di noi carpe, verso nessun tipo di certezza finale. E tutto ciò che avremmo potuto rappresentare per coloro che possiedono il potere, se soltanto avessimo posseduto le stesse colorazioni attraenti e variopinte dei nostri cugini domestici, quelle attraenti, vanesie appartenenti alla categoria dei Koi.
Passaggi che collegano le parti separate di un insieme, i fiumi di un paese, particolarmente se numerosi e interconnessi tra di loro, non differiscono in maniera concettuale dal sistema circolatorio di un organismo biologico di questo mondo. Totalmente imprescindibili per quanto concerne il transito delle creature contenute all’interno, come infrastrutture necessarie per l’effettivo mantenimento in essere del sistema ecologico vigente. Svolgendo la funzione di sentieri, tuttavia, essi costituiscono al tempo stesso il potenziale di elevare in senso esponenziale un problema sfortunatamente presentatosi ad un punto qualsiasi della loro estensione. Vista la capacità di raggiungere, nella nostra analogia, gli organi preziosi di un’intera regione geografica rimasta precedentemente intonsa. E cosa dovrebbe rappresentare, in effetti, il maestoso complesso dei cinque Grandi Laghi nordamericani all’interno di una simile analogia? Un polmone? Il fegato? Il cervello del continente? Ad ogni modo un qualche cosa d’importante. Che ormai da tempo rischia di essere contaminato, in modo irrisolvibile, da un parassita deleterio delle circostanze. Potendo quindi agire alla maniera di una letterale rampa di lancio, ai danni del reticolo di fiumi situato oltre il valico di questo potenziale paradiso delle forme vita. Naturalmente occorse e da sempre appartenenti a questi luoghi oppure… No. Di sicuro avrete già presente, a tal proposito, il dramma storico e internazionale della cosiddetta “carpa asiatica”. Una gestalt di specie in realtà, costituita da circa una decina di varietà distinte, giunte oltre l’Atlantico a seguito della malcapitata iniziativa d’introdurle per pulire dalle alghe determinati bacini idrici facenti parte dei copiosi labirinti del Mississippi River. Per poi scoprire, con estremo senso di sorpresa, come non sarebbe bastato qualche intraprendente pellicano e l’occasionale orso di passaggio per riuscire a contenere la prolifica genìa di pesci capaci di raggiungere il metro e sessanta di lunghezza e i 35 Kg di peso. E dunque, adesso, eccoci qui. Con i primi esemplari facenti parte di quel gruppo che iniziano a fare la loro comparsa, a mesi o settimane di distanza, nelle acque strategicamente deleterie del lago Michigan, che rappresenta il punto di svolta per il proseguire della loro drammatica espansione. E tutto a causa in modo particolarmente rilevante, così e stato determinato, di un singolo segmento della rete idrografica costruito, per di più, dalla mano malcapitata dell’uomo: il Chicago Sanitary and Ship Canal, utilizzato fin dall’anno 1900 dall’omonima città per drenare l’eccedenza della propria rete fognaria. Un’impresa che avrebbe richiesto, tra le altre cose, l’inversione del corso del fiume Chicago, costituendo l’essenziale base della questione. Perché le carpe, come innumerevoli altri pesci di fiume, AMANO andare in senso contrario alle scorrere di quegli umidi sentieri…

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