Puoi riconoscerla facilmente durante una passeggiata nei boschi decidui centroamericani, ma anche in India, Africa e Sud-Est dell’Asia. Con lo sguardo, per l’aspetto di un alto cespuglio o piccolo albero di 6 metri d’altezza massimi, dai cui rami pendono piccoli grappoli di frutti verdastri tendenti al marrone. O perché no al tatto, vista la resina irritante che scorre al suo interno e ricopre talvolta i rami, capace di indurre arrossamenti pruriginosi, particolarmente in chi presenta una maggiore vulnerabilità genetica ai cianuri e inibitori della tripsina prodotti dalla pianta. Eppure capita spesso, sopratutto tra i più giovani abitanti del suo areale di un mondo vegetale globalizzato, che qualcuno corra incontro alla Jatropha curcas e ne stacchi immediatamente un ramo, col solo scopo di spezzarlo, portarlo alle labbra e… Soffiarci dentro. Si tratta di uno scherzo. Un gioco. Una visione accattivante. Poiché dal compiersi di un tale gesto, consegue l’effetto probabilmente più inaspettato dell’intero repertorio previsto dal regno naturale: nell’aria inizieranno a diffondersi delle piccole bolle di sapone. Nient’altro che l’iridescente conseguenza dell’insolita composizione chimica del contenuto, che include una quantità anomala di saponina. In altre parole, si: è possibile usare una simile sostanza per la produzione dell’olio turco rosso, una delle forme più antiche, ma funzionali, del concetto stesso di una sostanza capace di sciogliere i grassi e rimuoverli da superfici o tessuti. Previa l’aggiunta di acido solforico, al fine d’indurre il processo detto di esterificazione, che trasforma gli acidi organici in esteri e li rende utili a un tale scopo. Ma questo è soltanto l’inizio: una tale pianta, nota agli indigeni americani fin dai tempi più remoti, veniva anche chiamata noce purgante o curativa, per la sua capacità d’indurre la depurazione del corpo una volta assunta in quantità moderata. Per diventare, quindi, pericolosamente velenosa qualora si dovesse esagerare. Un doppio volto condiviso con il suo parente delle euforbiacee Ricinus communis, da cui viene tratta la sostanza lassativa detta in inglese castor oil. Che può anche essere sottoposto a lavorazione, oggi, per creare una forma di carburante biodiesel pronto all’impiego nei campi più disparati del trasporto umano. Come del resto, quasi ogni espressione vegetale che possa essere spremuta o pressata al fine d’estrarre un liquido combustibile sufficientemente privo d’impurità e in conseguenza di questo, del tutto trasparente allo sguardo.
Detto ciò e una volta considerata l’esigenza del consumo pro-capite di carburanti da parte della società contemporanea, accade infrequentemente che il ricino venga usato a un tale scopo, semplicemente perché esistono le alternative economicamente più vantaggiose del mais, la soia o l’olio di canola, un prodotto tratto dalla spremitura della colza. Per non parlare dell’enorme potenziale costituito dalla più celebre macchina per fare bolle del mondo naturale. È particolarmente diffusa in effetti a partire dall’inizio degli anni 2000, una sorta di corrente sperimentale dall’ampio potenziale ritorno d’investimento, specie per la piccola industria agricola e le aziende a conduzione familiare, dedita allo sfruttamento sistematico della Jatropha, in funzione della sua capacità di crescere praticamente ovunque, a patto che la temperatura non scenda mai sotto i 25 gradi. Particolarmente discussa, in ambito agroeconomico, risulta essere dunque il suo potenziale una volta piantata sui terreni per così dire marginali, ovvero che siano già stati privati delle loro principali sostanze nutritive, permettendo così di ritrasformarli in potenziali fonti di guadagno. Come hanno tuttavia scoperto a loro spese alcuni imprenditori che avevano tentato di trasformare un simile approccio nel loro stesso modello di business, poiché stiamo parlando di una pianta non del tutto addomesticata e per questo imprevedibile, non sempre tale presunta adattabilità riesce poi a garantire il raccolto sperato, con immediate conseguenze deleterie sull’investitore poco avveduto o l’intera quantità dei suoi dipendenti. Come in tutte le cose, nella ripartizione dei terreni occorre perseguire il giusto equilibrio…
chimica
Lo strano alambicco giapponese per fare il caffè in 12 ore
Consideriamo, come riferimento, due galassie. La prima creata nel vortice incontrollato di materia all’origine dell’universo, in un turbinìo plasmatico d’idrogeno ed elio, raffreddatosi gradualmente fino al formarsi di molti milioni di stelle, ciascuna delle quali dotata della sua collana di pianeti. A causa dell’intenso calore primordiale dovuto alla relativa densità di materia, tuttavia, nessuno di questi ultimi assume un aspetto del tutto solido e adatto alla vita superiore, disegnando un panorama cosmico di sfere celesti splendide, quanto largamente incontaminate. Nel nostro secondo termine di paragone, invece, l’universo ha già una lunga storia alle spalle. Una stella particolarmente grande attraverso un ciclo durato svariati eoni, raggiunge lo stadio di supernova, ingrossandosi fino all’esplosione, dalla quale scaturisce una quantità inusitata di materiale, che dovrà dare forma ai corpi celesti a noi più familiari. Mentre il nucleo centrale si trasforma in un buco nero, quindi, il gelo siderale si propaga improvvisamente per pervadere ogni cosa. A partire da quel momento, alcuni dei pianeti diventano roccia fusa, poi iniziano a ricoprirsi d’acqua. La prima cellula, intesa come struttura pulsante di esseri che nuotano, respirano e mangiano i loro simili, non può che essere il passaggio successivo. Quale di queste due evenienze relative alle origini del Tutto, dal punto di vista umano, dovremmo considerare maggiormente unica e preziosa? Nel primo caso il “sapore” dell’esistenza può dirsi più coerente, ovvero utile ad osservare l’espressione della natura pura e incontaminata, intesa come massima espressione della catena di causa ed effetto. Nel secondo, invece, albergano aromi prodotti da circostanze imprevedibili, ciascuno dei quali destinato, un giorno, a trasformarsi in un profondo mistero.
Siamo talmente abituati a consumare il caffè caldo, preparato possibilmente attraverso il pratico sistema della caffettiera italiana, che non abbiamo più concezione del modo in cui, negli antichi paesi di provenienza di questo letterale nettare degli Dei, esso è stato apprezzato a temperatura ambiente, attraverso approcci tanto diretti, quanto inerentemente funzionali allo scopo di trasformare i semi di una simile appartenente tropicale alla divisione delle angiosperme, in un infuso prontamente assimilabile dall’organismo umano. Le ragioni sono molteplici, a partire dalla fatica che comportava, prima dell’invenzione dell’elettricità, mantenere accesa e scoppiettante una fiamma viva, senza considerare la letterale impossibilità di raggiungere le pressioni necessarie a dare origine alla nostra beneamata versione espressa della bevanda. E se non puoi avere le cose subito, tanto vale farle per bene. Giusto? Così abbiamo cognizione del modo in cui le popolazioni d’Etiopia e delle regioni confinanti d’Africa e Arabia, erano solite sminuzzare i chicchi e lasciarli a bagno anche per molte ore, ottenendo una sostanza densa che, successivamente, veniva allungata con l’acqua prima di berla, possibilmente tutta d’un fiato. Ma forse l’espressione destinata a lasciare un segno maggiormente indelebile di questo approccio possiamo trovarla nell’assai più recenti 1600 d.C, quando sulle navi degli esploratori olandesi, la ciurma era solita assumere caffeina attraverso metodi largamente simili, evitando così di mettere a rischio zone incendiabili delle loro navi, con il valore aggiunto che il caffè preparato a temperatura ambiente, in genere, riesce a conservarsi bevibile per oltre una settimana. Quando costoro giunsero, tra i molti luoghi, nell’arcipelago d’isole situato all’estremità orientale del mondo, i nativi che non avevano mai assaggiato niente di simile rimasero immediatamente colpiti. E come loro massima prerogativa attraverso la corrente di pensiero e i molti esperimenti del cosiddetto rangaku (studi della gente d’Olanda) iniziarono subito a pensare come potesse essere migliorata.
C’era stata la grande battaglia di Sekigahara, a quei tempi, e i molti signori della guerra perennemente intenti a combattersi si erano riuniti sotto un solo stendardo, dando origine al grande governo pacificatore dei Tokugawa. Mentre il paese rifiutava quindi in maniera formale ogni contatto con l’esterno, diversamente dalla politica dei commerci praticata da molti dei daimyo (signori feudali) dell’epoca precedente, nelle grandi città costiere, all’interno di quartieri speciali adibiti allo scopo, l’interscambio coi visitatori europei continuava indisturbato. E fu per la prima volta a Kyoto, per quanto ci è dato di sapere, che a qualcuno venne in mente di costruire una di queste torri. Forse la maniera più lenta, eppure a suo modo apprezzabile, di assaggiare questo sapore che toglie il sonno, acuendo al contempo la sensibilità delle percezioni, sebbene in maniera leggera. Andando a costituire un’ulteriore espressione della forma di doping maggiormente diffusa e accettata al mondo. Detto questo, è indubbio che occorra una certa dose di pazienza…
Il magico bicchiere che sostituisce le previsioni del tempo
Si tratta di uno degli scherzi più famosi nel mondo della meteorologia: il sasso che indica le condizioni atmosferiche. Generalmente appeso a un filo, talvolta dinnanzi ad un pub inglese e accompagnato da una targa che ne descrive l’impiego… Se il sasso è bagnato vuol dire che piove. Se il sasso è bianco, sta nevicando. Non riuscite a vederlo? Nebbia piuttosto intensa. Se invece è caldo, vuol dire che c’è il sole. Quando nessun sasso è presente, di recente è passato un tornado. E così via. Nella versione tedesca, d’altra parte, s’impiega una corda, talvolta definita “la coda dell’asino” e conseguentemente posizionata nel punto corrispondente su un’illustrazione dell’equino, voltato di spalle. L’associazione con le bevande alcoliche è generalmente piuttosto stretta, poiché si ritiene che soltanto un ubriaco possa prendere sul serio simili strumenti, effettuando “consultazioni” formalmente precise e traendo le debite conclusioni del caso. Ciò che egli spesso non può sapere, tuttavia, come del resto molti di noi, è che questo approccio per così dire empirico alla meteorologia ha in realtà origini ben precise, mirate a prendersi gioco di un antico sistema, risalente almeno al XVIII secolo, benché nessuno ne conosca effettivamente l’origine geografica precisa. Per non parlare dell’inventore. Motivo per cui esso viene identificato in maniera inesatta come “Barometro FitzRoy” dal cognome del nobile minore e capitano, successivamente ammiraglio della marina inglese Robert, che fu alla guida a partire dal 1828 dei viaggi scientifici della HMS Beagle. La nave famosa per aver condotto Charles Darwin verso il Sud America e da lì, fino l’elaborazione della sua teoria delle specie. Così mentre il grande scienziato annotava le sue scoperte nel ponderoso taccuino destinato a fare la storia del metodo scientifico, caso vuole che il comandante fosse solito ritirarsi nella sua cabina, dove anch’egli era intento a porre le basi di un testo che avrebbe cambiato negli anni a seguire il corso stesso della sua vita. E nel contempo, quello di molti altri: “Il libro del tempo [atmosferico]” occupato in buona parte dalle sue osservazioni sul funzionamento di svariate tipologie di barometro, tra cui quello da lui preferito, in sostanza nient’altro che un semplice barattolo sigillato ricolmo di un liquido misterioso.
Notazioni del tutto simile a quelle riportate da quest’uomo, oggi, ricompaiono nei bigliettini allegati ai prodotti di siti di curiosità scientifiche e gadget, per indicare il corretto impiego dell’apparato. La somiglianza con la teoria del sasso o della coda dell’asino appare davvero lampante! Tranne che per l’associazione con l’immediato futuro, piuttosto che il presente: se il liquido contenuto all’interno appare limpido, vuol dire che uscirà presto il sole. Se invece si opacizza, nubi fosche si addensano all’orizzonte, con l’estremo di un temporale nel caso in cui perda del tutto la trasparenza. Piccole particelle nel brodo di sospensione lasciano presagire gelo. Talvolta, la lettura di un tale barometro può trasformarsi in una vera e propria arte, con precipitazioni sul fondo immediatamente associate alla neve, o filamenti prossimi alla superficie, associati all’insorgere di situazioni ventose. Il che potrebbe ragionevolmente sembrare un’associazione fantastica fondata pienamente sul nulla: dopo tutto, che connessione potrebbe mai esserci tra i mutamenti dell’atmosfera e il contenuto di un barattolo sigillato? Se non che in qualche maniera, le mutazioni effettivamente avvengono, giorno dopo giorno, e questo per una ragione estremamente precisa. Sto parlando del contenuto dello stesso, tutto, fuorché ordinario. Fu lo stesso FitzRoy, per primo, a metterne nero su bianco la “ricetta”: mezza oncia di cloruro di ammonio, mezza di nitrato di potassio, un’oncia di alcol puro, due once di acqua distillata. E per finire, l’ingrediente primario: una quantità variabile di canfora, sostanza di origine vegetale famosa per l’impiego nel campo dei cosmetici ed il suo odore intenso, nonché la sua propensione chimica, tipica dei chetoni, a cristallizzarsi. E sarà proprio questo in effetti, il fenomeno a cui ci troveremo ad assistere, ogni qualvolta si verifica un cambiamento nel contenuto della bottiglia, secondo un catalogo di possibilità che scaturisce dall’osservazione diretta, lungo un periodo sufficientemente esteso. Molti studiosi del clima, a partire da quell’era remota, si sono applicati nell’approfondimento di questo meccanismo ancora in parte misterioso, giungendo a conclusioni discordanti, e generalmente piuttosto deludenti sull’effettiva affidabilità del barometro, definito dal capitano stormglass (bicchiere della tempesta). Ma a nessuno di essi è mai davvero venuto in mente di mettere in dubbio dell’importanza che avrebbe avuto, al ritorno della HMS Beagle, una simile invenzione nel far progredire di molti anni la scienza a quell’epoca altamente informale delle previsioni del tempo…
Il seme al centro di un’industria: la cioccolata
Visto da fuori, sembra proprio un melone d’inverno. Se soltanto quest’ultimo si fosse ritrovato il DNA del suo cultivar incrociato con quello di una misteriosa pianta preistorica, assumendo un aspetto selvatico e strano. Bitorzoluto, crestato, dalla solida scorza. Se lo scuoti, produce un suono: drrr, drrr. E se vi dicessi che questo frutto, in effetti, l’avete mangiato non soltanto una volta, bensì migliaia? Centinaia di migliaia di volte? Ci sono persino buone probabilità che esso rappresenti, a conti fatti, il vostro cibo preferito. Caso vuole in effetti che, per ogni volta in cui i vostri genitori vi redarguivano con il consiglio: “Basta coi dolci, mangia verdure” era loro intenzionale scelta la mancata considerazione di alcune delle componenti vegetali, pressoché imprescindibili, in ogni merendina che si rispetti. Tra cui lo zucchero (canna, barbabietola) la vaniglia (innocente orchidea) e lui/lei, la sostanza Theobroma, dall’espressione greca che vuole significare “[il più] divino tra gli alimenti”. Cacao che nutre, polvere lenitrice, in grado di curare ogni fisima dello spirito mentre assuefà il corpo.
È incredibile, tutto considerato, quanto il consumatore medio di questa delizia, tra le più amate dai palati del mondo moderno, abbia poco presente il suo aspetto al momento in cui prende forma nel mondo della natura. In mezzo alle foreste di Brasile, Colombia e Perù, dove un tempo costituiva una parte inscindibile dei più importanti rituali Maya ed Aztechi. Popoli tra i quali, la preparazione di una simile regalìa a guisa di bevanda era prerogativa e appannaggio esclusivo delle classi al potere, costituendo un segreto gelosamente custodito dai sacerdoti dei templi al centro di ciascuna delle due civiltà. Ma il cacao era anche una merce di scambio, nel senso che i suoi semi piuttosto grandi, oggi chiamati fave, circolavano in forma essiccata al di là dei confini, assolvendo alla mansione di merce di scambio, una sorta di valuta ante-litteram. Bitcoin commestibile, se lo vogliamo. Finché il 15 agosto nel 1502, una data destinata a restare iscritta nella storia della gastronomia, Cristoforo Colombo e suo figlio Fernando, nel corso della loro quarta missione nelle Americhe, catturarono una canoa poco fuori dal territorio di Montezuma. All’interno della quale, con interesse, scoprirono l’alimento che gli riuscì di associare alle testimonianze frammentarie della strana, brodosa bevanda di cui gli “indios” andavano così eccezionalmente fieri. Fu loro scelta, quindi, per non dire imprescindibile prerogativa, inviare il carico verso la corte spagnola dei Re Cattolici. Dove inizialmente, il consenso delle opinioni in merito fu largamente negativo. L’approssimazione europea del cosiddetto chocolātl mesoamericano aveva in effetti un gusto forte ed amaro, essendo inoltre caratterizzato da una consistenza granulosa che lo rendeva difficile da mandar giù. Eppure, ben presto iniziò a circolare la voce che come tutti gli alimenti sgradevoli, il cacao facesse bene alla salute. Che potesse costituire, addirittura, la panacea di tutti i mali! È del resto una cosa nota che la theobromina, tossica per cani e gatti, sia una sorta di droga leggera, in grado di dare assuefazione. Quella che Colombo aveva riportato in Europa, stavolta, era la più leggera, e per questo pervasiva, di tutte le droghe della storia. Riusciremo mai a ringraziarlo abbastanza per questo?
Ma il mondo industriale è anche questo. Dimenticare, sull’onda del sogno post-modernista, la provenienza effettiva di tutte le cose, persino quelle più importanti per noi. Così all’inizio del video qui riportato, in cui lo youtuber H.I.S Survival ci mostra come fare la cioccolata “da zero” ci si può anche aspettare un certo grado di perplessità da parte dello spettatore medio. E persino disagio. Lo sapevate, ad esempio, che la barretta più amata da tutti i bambini è un prodotto della fermentazione, come la soia, la birra, o il cavolo coreano?