Lettera d’あmore dal Giappone

Kenta Watashima

Come abbaìno, abbruciacchiato, allofono ed affranto. Chi ha avuto, ha avuto, aha, voluto. Mai dato, solo ricevuto. AAAaah come Arduino d’Ivrea, coraggioso Re d’Italia verso il primo volgere di un’era millenaria. Che rivive casualmente nell’idea, oltremodo interessante, di un’artista d’altre terre, d’altromondo: Kenta Watashima, programmatore. Vuoi scoprire la ragione? Sarà un lungo viaggio. Per prima cosa, traccia il segno della croce sopra un foglio, però inclina il tratto verticale verso destra. Quindi, muovi il tuo pennello in una virgola parecchio generosa, che giunga lietamente fino alle sue estreme conseguenze. Tonda come il sole, vasta quanto il mare. Possa ricordare un’alfa col cimiero, questo simbolo che viene dal Giappone. Ma non è un grecismo, nossignore: così comincia una scrittura fatta dalle foglie. Metti che un popolo guerriero proveniente dalle steppe della grande Asia, avesse costruito dei tumuli sull’arcipelago del regno di Yamato. Pieni di tesori nazionali. E diciamo pure che costoro, stanchi di dover tracciare gli ardui simboli di un alfabeto troppo arcano, per ipotesi, avessero deciso di semplificarli. Quando questo avvenne, non è chiaro: forse intorno al quinto secolo, oppure poco dopo. La risposta è tutta nella datazione di una spada. L’arma del guerriero Wowake, che gli amici usavano chiamare, per far prima: Ōhatsuse-wakatakeru-no-mikoto. Altro che: “d’Ivrea”.
Costui ebbe a ricevere un bellissimo sepolcro presso l’odierna prefettura di Saitama, con il beneplacito del gran signore Waka Takiru, uno dei protagonisti degli annali mitici del Nihon Shoki. Sia chiaro come fossero, tali testi coévi, tutti scritti nella lingua classica importata dalla Cina. Così era l’usanza, nulla più. Finché proprio quel guerriero, giusto sul volgere di un grande giorno, ricevette in dono un’arma in ferro e magnetite meteoritica, la spada che oggi chiamano col nome del suo tumulo: Inaryama. Che fu scavato solamente nel recente ’68, scoprendo, con somma meraviglia, come sulla lama fosse inciso un lungo testo descrittivo. Scritto in lingua puramente giapponese (infine!) Con un metodo che viene detto: man’yōgana. Tale sistema corsivo, basato sempre sui caratteri del continente, li allegeriva però dal significato originario. Dunque, alla dicotomia di un carattere=una parola, a partire da quel giorno, se ne affiancò un’altra; in cui una lettera, da sola, poteva voler richiamare: una sillaba soltanto. Ah! Ah!

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L’Uomo vitruviano di Taipei

Asian Vitruvian Man

Se apri un polveroso portafoglio dell’odierna Europa modulare, puoi trovarci almeno una persona. Tutta nuda, leonardesca e vitruviana. Raffigurata lì da sola, in opposizione alla cartina geografica, sopra l’unica, mirabile moneta: ovvero il sacco, l’obolo, il pecùnio, singolo e indiviso. Un tondo bimetallico che vale 1 Euro, solamente, eppure sottintende molto, veramente. Rame dentro, ottone fuori, giallo nichel tutto intorno. E proprio in mezzo, quel (presunto) testimonial d’eccezione, in genere selezionato in base ai gusti regionali. Se sei in Austria, ad esempio, incontrerai così lo sguardo di un composto Mozart, preso da vicino, dal sogghigno strano e carico di sottintesi. Mentre in Italia, come dicevamo, fallo e terrai in pugno un uomo tondo, con la corposa chioma di Beethoven, quattro braccia, quattro gambe, aperte-aperte, chiuse-aperte. Progettato sulla somma di quattro arti, sedici possibili posture.  La ragione di cotanto sovrannumero? Poteva essere soltanto una: l’illusione ottica del motion blur. Vorticosamente roteava, costui.
La mente dei viaggiatori opera per vie traverse. E le associazioni logiche, specie in campo internazionale, facilmente riuniscono i paesi e i continenti. Forse anche per questo, CuriousWorldWanderer, lo YouTuber proprietario del presente video, ha scelto di associarlo ad una delle icone più famose della storia dell’arte: l’uomo che era stato estratto da un antico testo sull’architettura, quindi messo sulla carta dal pittore nato a Vinci, infine battuto sul metallo, un cerchio dopo l’altro, dal metallo grezzo e verso la Valuta. Sempre rilevante è il dio-denaro.

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L’arte ipnotica dei vortici di sabbia

Krugovorot

L’artefice, l’esecutore: spiriti affini sul sentiero di Nettuno, alchemico pianeta degli artisti. Il primo lo ritrovi, facilmente, nello studio di pittura, fra la polvere di marmo in un laboratorio; circondato dalla luce mattutina, nato sotto l’astro Sole, riproduce ciò che vede, i propri gusti e sentimenti. Sua è l’arte statica, immanente purché meriti il soverchiamento dell’oblio. L’altro, verso il vespro, recita sul palco e danza, canta o rende voce all’illusione di un teatro, nella notte oscura e misteriosa. Saturnino, puoi chiamarlo se lo vuoi. La sua tela in poche ore si dissolve, volentieri, purché il giorno dopo ricompaia, dietro gli occhi luminosi della gente. Ed è una lotta senza vinti, questo suo trionfo ripetuto, possibilmente in grandi prime, soirée agognate, infine sospirate repliche, purché ci sia la voglia di partecipare. Esserci, vedere o fare l’esperienza…Dell’invisibile meraviglioso. Lasciare un segno, nella sabbia? Due figure che raccontano la stessa storia, divergendo, possono incontrarsi raramente.
Ma nel caso dell’artista russo KRUGOVOROT, sul quale Internet sa dirci molto poco, convivono i due aspetti, attraverso un certo tipo di esclusiva esibizione: tracciare cerchi, con le dita e una spugnetta, poi virgole, arcuate lingue fiammeggianti, fiori ed altre cose ricorsive, su di un grosso piatto turbinante grazie a un tornio. Come un tavolino naufragato, perso tra le acque di un potente mulinello. C’è parecchia tecnica, nel suo lavoro. Ci sono pure le conchiglie. Guardando il lungo video d’apertura, che parrebbe quasi terminare in un momento, s’intuisce la presenza di un motore: troppo fluido e regolare appare il corso dell’illuminata giostra, per essere venuto da un pedale. Questa precisione di una macchina, di un meccanismo elettrico, ben lascia libere le mani umane, di produrre molte cose. Sono tre le tracce utilizzate, musicali e tematiche allo stesso tempo.
Il primo piatto, del colore giallo-spento del Sahara, è metodico, misticheggiante. In un rapido rincorrersi dei mesi, vi appaiono i fulmini piovosi dell’autunno, circondati dalle nubi, seguiti dalla rigida struttura dei cristalli dell’inverno. Neve, poi lo sboccio di una rosa e il fuoco, il mare ondoso: wow, che magnifiche stagioni!

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Demiurgo delle centomila macchinine

Metropolis II

Chi ha detto che l’arte contemporanea debba essere, per sua intrinseca natura, difficile da interpretare? Le opere di Chris Burden sono più dirette della scia di una cometa, forti e corpose quanto l’alba di una torrida mattina nel Sahara. Guardate questa, ad esempio. Un’intera flotta di automobili giocattolo, coloratissime, che percorrono senza posa la più straordinaria delle piste. Praticamente, una città; anzi, Metropolis II, la scultura cinetica su quattro livelli, con 18 superstrade di cui una a sei corsie, alti grattacieli e un’intera ferrovia, attualmente in mostra presso il LACMA di Los Angeles. I piccoli ed agili veicoli si muovono all’equivalente (in scala) di 240 miglia orarie, giù per le ripide discese, compiono maestose parabole e poi si bloccano, impattando rumorosamente contro il posteriore delle loro simili-partite-poco-prima. Quindi, imboccato il difficile sentiero di quel nastro, che lentamente le riporta al punto di partenza, avanzano affannose, riproducendo il traffico di una terribile ora di punta. Non c’è continuità, diversamente dall’autostrada di un lungo viaggio; si va lenti, poi veloci e così via; “È questa la ragione principale dello stress di guida” Spiega lui, mentre manovra i pochi interruttori “Il ritmo diseguale, l’accelerazione a seguito di brusche soste”. Anche la fonte dell’usura delle auto, con conseguente spesa, come ben sanno i precari e i pendolari urbani. Naturalmente, l’opera contiene molte tematiche ulteriori. C’è lo spazio architettonico irreale, fatto di palazzi svettanti, con le travi a doppia T e gli altri elementi dell’urbanistica disumanizzata. Che in un altro frangente lui schiantava nella terra, neanche fossero le fiocine del capitano Achab. Il tutto è mescolato con sapienza estetica davvero navigata. Vista dall’alto, questa pista-scultura potrebbe costituire il sogno di un bambino di qualunque età. E poi ritorna, con essa, il ricorsivo pluralismo delle cose indipendenti, tanto caro a chi l’ha costruita. Vedi ad esempio All the Submarines of the United States of America (1987), in cui l’autore aveva appeso alla rinfusa in una stanza 625 piccoli sottomarini, tutti uguali. La città di Metropolis II ha un che di selvatico, che sfugge all’immediata comprensione. Più che un meccanismo, pare un organismo.
La gente la circonda, osservandola da tutti i lati. Le auto girano vorticose, intorno all’edificio e poi pure dentro, sopra e sotto la scultura. Lo stesso fanno i globuli, gli zuccheri e le altre sostanze, nelle vene di colui che siede in centro. L’artigiano-demiurgo preme il tasto, avvia la giostra: il resto è rubiconda gravità.

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