Nel vasto catalogo dei mostri giapponesi, da tempo persiste la leggenda della nukekubi: uno yōkai (spettro) che può contaminare una giovane donna, la quale in breve tempo si ammala e inizia a dimostrare i sintomi di una forte febbre. Quindi, nelle profonde tenebre di una notte d’estate, mentre rabbrividisce sotto pesanti coperte, la sua testa si stacca dal collo ed inizia a fluttuare in cerca di vittime da attaccare con il suo morso. Una testa volante di nukekubi è uno spauracchio perfettamente efficiente, rapido, agile, difficile da tenere lontano (sembra che neppure le zanzariere possano aiutare). L’assenza del resto del corpo non sembra averne limitato in alcun modo le funzionalità, mentre rincorre gridando i viandanti e diffonde il morbo alle origini della sua stessa esistenza. Chi ha detto che un’esistenza di questo mondo, per ottenere i risultati desiderati, debba necessariamente avere un sopra ed un sotto? Un davanti ed un dietro? Chi dovesse, negli ultimi 20 anni, aver percorso le acque increspate dell’Oceano Atlantico, potrebbe aver avvistato una di queste navi a cui mancava qualcosa di veramente significativo: larghe 104 metri, lunghe 70, perfettamente triangolari. Sotto ogni aspetto, sembrava che fossero tutta prua e niente poppa. Delle vere e proprie mezze-navi, gestite da un colosso dell’estrazione petrolifera per svolgere una funzione estremamente specifica. Ma che un giorno, potrebbero imporsi come nuovo standard della navigazione.
Tutto ebbe inizio nel 1993, quando l’architetto navale norvegese Roar Ramde fu contattato dalla marina del suo paese, per creare un vascello che potesse pattugliare le coste alla ricerca dei loro visitatori maggiormente indesiderati: i sommergibili spia provenienti dall’area russa. Applicando le conoscenze acquisite nel corso della sua lunga carriera, quest’uomo dal nome magnifico (Roar vuol dire ruggito) produsse quindi uno studio d’idrodinamica, secondo il quale sarebbe stato possibile allargare in modo significativo la parte posteriore di uno scafo, mantenendo la prua stretta per incrementare la velocità. Con un adeguato comparto motori un simile vascello avrebbe avuto prestazioni comparabili ad altri della sua classe, ma stabilità, e quindi silenziosità notevolmente maggiori. I militari credettero nella sua idea e l’acquistarono, varando la non-proprio-segretissima Marjata, che da quel giorno fece il possibile per segnalare l’inaccettabile presenza di USO (Oggetti Naviganti non Identificati). Fast-forward di qualche mese: una nave convenzionale della neonata mega-compagnia PGS (Petroleum Geo-Services) operante dal 1991 nel settore delle rilevazioni di giacimenti d’altura, si trova per caso ad approdare nello stesso porto della Marjata. Un ufficiale tecnico a bordo, quindi, la vede ed elabora un’idea: “ECCO quello che ci servirebbe per fare la differenza.” Telefonate vengono fatte, manager si spostano in elicottero. Il direttore prende contatto, quindi un appuntamento col grande Roar: “Potresti farci la stessa cosa, però più grande?” Nel giro di un paio di settimane, gli accordi furono presi per iniziare la costruzione dei primi esemplari.
La questione, essenzialmente, è questa: il design definito Ramform, probabilmente dal verbo “spingere” piuttosto che dalla memoria dei computer o il termine anglofono per identificare il maschio della pecora, risulta indubbiamente notevolmente stabile. Ma è anche un’altra, fondamentale cosa: largo. Larghissimo. A tal punto che la sua più recente versione sovradimensionata varata nel 2013, riprodotta attualmente nei quattro esemplari che costituiscono la classe Titan, rappresenta la tipologia di navi più ampie in senso latitudinale che abbiano mai percorso i mari. Questo è molto importante per effettuare la rilevazione sismica, il tipo di business in cui la PGS è leader indiscussa ormai da un’intera generazione. Poiché si tratta di una procedura che consiste nello sparare con un cannone ad aria compressa delle potenti onde sonore verso il fondale, aspettando che rimbalzino verso l’alto per captarle di nuovo con dei microfoni e ricavare, quindi, una mappa tridimensionale di ciò che sotto. Il che non può essere effettuato senza gli streamer, dei lunghi cavi che trainano gli equipaggiamenti di rilevazione, a distanza sufficiente dal frastuono prodotto dal motore della nave stessa. Un vascello convenzionale può trascinare 6, 9, al massimo 12 streamer. La classe Titan arriva a schierarne 24, potendo realizzare studi ad alta definizione di un territorio ampio, in tempi comparabilmente molto più brevi. E i vantaggi non finiscono certamente qui…
oceano
La pacifica vita di un polpettone di pietra
Tra tutte le zone biologicamente atipiche visitate da Coyote di Brave Wilderness, il documentarista internettiano dall’inseparabile cappello da cowboy, quella che ci ha regalato maggiori soddisfazioni è probabilmente il piano mesolitorale, ovvero quella parte della spiaggia che risulta soggetto all’avanzamento ed al ritiro delle maree. Luogo in cui lui, che non sembra temere alcun morso o puntura da parte di un altro essere vivente, infila con entusiasmo le sue due mani sotto le rocce più grandi che gli riesce di trovare, riportando in dietro, il più delle volte, una qualche creatura mai vista prima. Ma in quest’ultimo episodio ambientato presso le isole di San Juan sulla costa del Pacifico, al confine tra il Canada e lo stato settentrionale di Washington, potremmo ben dire che la sorte l’ha davvero assistito. Poiché in un sol colpo, mentre andava in cerca della “strana creatura” del giorno, gli è riuscito di trovarne in un sol colpo non una, bensì due. Trovandosi a fermare accidentalmente, con somma fortuna di una in particolare delle parti coinvolte, una delle più lenti ma inesorabili predazioni del qui presenta habitat naturale: quella condotta dalla stella marina viola (Pisaster ochraceus) ai danni del chitone-caloscia o polpettone di mare (Cryptochiton stelleri) mollusco dall’aspetto insolito che soltanto in questi luoghi, riesce a raggiungere l’impressionante lunghezza di 36 cm. Praticamente, poco più della metà dell’eccezionale lepre di mare (Aplysia vaccaria) il lumacone nerastro a cui dedicai un altro articolo qualche tempo fa. Si tratta di un animale morfologicamente molto difficile da comprendere, e questo per uno specifico motivo: il suo corpo è interamente ricoperto da un tessuto rigido e connettivo noto con il nome di girdle, dall’intensa colorazione che può variare tra il rosso e l’arancione, probabilmente utile ad acquisire un qualche tipo di mimesi tra le alghe kelp. Non che l’essere vi trascorra una parte significativa della propria vita: successivamente al passaggio dallo stato larvale fluttuante a quello di creatura dei fondali, infatti, il chitone tende a strisciare fino agli scogli ed aderirvi saldamente, sfruttando la sua radula (lingua ricoperta di denti) per raschiare via cellule di vegetazione che apparivano letteralmente inscindibili dalla pietra. Strisciando qui e la, dunque, gli riesce di sopravvivere fino alla riproduzione. In condizioni normali, la parte sotto di questi molluschi non viene mai esposta all’aria, poiché una volta rivoltati, essi non possono ribaltarsi, esattamente come le tartarughe. Ed è per questo che diventa rilevante il momento in cui Coyote ribalta il suo formidabile ritrovamento, per mostrarci, esattamente, come sia fatto sotto.
Tenuto così in mano, il chitone tende a piegarsi su se stesso per proteggere almeno in parte i suoi punti deboli e benché non possa arrivare a chiudersi effettivamente come un riccio di terra, sembra aver fatto un lavoro piuttosto buono. Nel centro dell’addome spicca il lungo piede, del tutto analogo a quello delle lumache, con cui può muoversi ad una velocità ridotta, ma per lo più efficiente. È al culmine di tale arto quindi (organo?) che si trova la bocca, quasi invisibile se l’animale non si sta nutrendo. Invisibili allo spettatore, perché coperte da apposite pieghe protettive, sono invece le branchie, che corrono ai lati per l’intera lunghezza dell’animale. Quello che invece non si vede affatto, e non potrebbe essere altrimenti, sono le placche protettive di aragonite che costituiscono la conchiglia dell’animale, coperte interamente, come dicevamo, dal girdle. Tutti i molluschi bivalvi, ovvero dotati di una conchiglia apribile in due metà presentano infatti un resistente “cardine” muscolare, che gli garantisce un uso idoneo dell’impenetrabile protezione. Il chitone, tuttavia, fa eccezione anche in questo, poiché possiede non una, non due, bensì 8 placche o valvi, concepiti per garantirgli una sufficiente flessibilità a muoversi su ogni tipo di superficie. Quando l’animale poi muore e si decompone, essi non sono più tenuti assieme dalla parte molle del suo corpo, e vengono quindi trasportati fino a riva dalla risacca, assumendo il nome altamente descrittivo di conchiglie a farfalla. Ma prima che questo possa accadere, il nostro amico avrà fatto il possibile per liberare nella corrente il suo codice genetico, nella speranza che questo riesca a incontrare le letterali molte migliaia di uova lasciate vagare libere dalla sua distante compagna. E questa, in effetti, è l’unico caso in cui cerchi d’incontrarsi con un simile della sua specie.
Il pesce che si fonde alla sua compagna per procreare
Nelle profonde oscurità oceaniche, per una vita ti ho cercato. Due, tre, quattro settimane. Tu sei la mia alba ed il mio tramonto, la mia Luna, casa ed avventura. So bene che se riesco finalmente a trovarti, la mia vita cambierà radicalmente: niente più nuotare liberi, nessuna ebbrezza della caccia. Tu sarai per me l’apoteosi e una prigione, al tempo stesso, l’Alfa e l’Omega della mia insignificante vita. Ma se l’immensità di questo ambiente, le grandi distanze ed il vertiginoso senso della solitudine, alla fine, avranno la meglio sulla mia ricerca, allora morirò di fame, lentamente. Pensando a te. Questo è il senso dell’amore per “noi”. Che cosa siamo? In Italia ci chiamerebbero, con esibizione d’antonomasia, la rana pescatrice, benché in effetti quel particolare tipo di pesce abissale sia bentonico, ovvero abituato a vivere in prossimità dei fondali e per questo appiattito verticalmente, mentre noi che pratichiamo questa specifica modalità di accoppiamento siamo i veri diavoli del nulla, gli abitatori dei grandi spazi vuoti tra i 1.000 ed i 2.000 metri di profondità. Scientificamente: i Ceratiidae, ma anche qualche specie di Melanocetidae. Quasi mai, i Lophiidae delle più spericolate tavole ittiche europee. In inglese, ci chiamano anglerfish, con riferimento alla lenza luminosa che impieghiamo, assai frequentemente, per attrarre a noi le piccole prede da cui siamo chiamati a trarre nutrimento. Perché quaggiù nell’infernale vuoto, il cibo è scarso per definizione, richiedendo uno sforzo continuo per mantenersi in vita. Così l’evoluzione ha dotato le nostre femmine, ma non noi maschi, di una pinna dorsale modificata, in cui il primo raggio cartilagineo presenta una serie di pori, all’interno dei quali vivono batteri bioluminescenti. Ma questo non è il solo caso di interrelazione simbiotica tra lei ed altre creature. Esseri come il qui presente pseudo-parassita, che dovrà fare il possibile per dare un morso alla sua pelle. E in un abile colpo di mano, diventare tutt’uno con lei.
È un fatto relativamente poco noto che questa intera categoria di pesci abissali (oltre 200 con distribuzione in tutti gli oceani della terra) presenti il più marcato dimorfismo sessuale dell’intero regno animale. Il che vuol dire che mentre lei, a seconda della specie, può arrivare a misurare fino a un metro di lunghezza, raramente lui supera i 3-4 cm dalla testa alla coda. Come può avvenire, dunque, la fecondazione? Se non grazie alla straordinaria furbizia e capacità strategica della natura… Dal momento stesso della nascita, lui dispone infatti di un olfatto straordinariamente sviluppato. Seguendo la direzione delle sue spropositate nari, le più grandi in proporzione alle dimensioni del cranio, cerca attentamente finché non gli riesce di trovarla, possibilmente, girata da un’altra parte. Questo perché un anglerfish è perennemente affamato, e mangerebbe pressoché qualsiasi cosa prima ancora di aver capito la sua effettiva natura. La segretezza è importante perché non deve esserci una battaglia. Bensì soltanto lui che, avvicinatosi a sufficienza di soppiatto, trovi un punto da mordere per fare come il pitbull col postino, che stringe quella caviglia per non lasciarla andare mai più. E quindi secerne una saliva contenente l’enzima digestivo, che dissolve la sua mascella e il preciso punto di congiunzione, creando i presupposti per l’orribile ibrido uomo-cane. Ma tralasciando una simile visione degna dell’isola del Dr. Moreau, e ritornando quindi a noi, ovvero a me & Lei, tutto quello che noi chiediamo da una simile contingenza è l’opportunità di realizzare la fecondazione.
L’esigenza di un simile complesso rituale, che tra l’altro sembra diminuire la probabilità di sopravvivenza del maschio, è in realtà giustificato dal medesimo fattore sopracitato: la mancanza di sufficienti forme di cibo nell’habitat circostante. Per questo lui mangia pochissimo, o persino non mangia affatto. Un po’ come la farfalla ormai pronta a spiccare il volo e non guardarsi indietro mai più.
Questa nave si capovolge per ascoltare il mare
Per tre giorni e tre notti, lungo la placida distesa d’acqua che è il Pacifico Settentrionale. Quando finalmente, l’Oceano sembrò aver deciso di fare la sua mossa. Nel giro di un pomeriggio, nubi fosche si addensarono attorno alla portacontainer Brubacker’s Thunderbolt. Onde alte come un palazzo di due piani presero a percuotere lo scafo del colossale gigante costruito dall’uomo. E veri e propri fulmini, manifestandosi a babordo, parvero costituire una parete elettrica tra l’equipaggio scrutatore e l’orizzonte. Qual’è in fondo, l’utilità di una vedetta designata durante una tempesta dei nostri giorni? Radar, sonar, GPS e altri strumenti ne fanno le veci, mentre nulla di imprevisto, a livello geografico e situazionale, potrà cogliere il natante impreparato. Nonostante questo, il giovane mozzo della situazione lo si trova sempre, e lo si colloca generalmente nello stanzino sul castello di prua. Dove la solitudine, se non altro, potrà insegnarli il rispetto del Re dei Mari. Ma per quella volta, soltanto in quel caso, il destino volle fare uno scherzo al neodiplomato di San Diego, salito a bordo per fare la sua prima esperienza di lavoro. Come un’ombra, tra le onde, con la forma di un cucchiaio messo in verticale. Non credendo ai suoi occhi, Derek fece il possibile per mantenere stabile l’inquadratura del binocolo, al di sopra delle oscillazioni brutali di quello che era ormai diventato tutto il suo mondo. Dopo un’altra rapida messa a fuoco, la scena iniziò a farsi più chiara. Era una torre, quella cosa, precisamente adagiata in un punto arbitrario del vasto mare. Circondata e sovrastata dalla furia degli elementi, eppure più stabile che se poggiasse le sue fondamenta su di un giacimento di granito delle colline ad est di Chula Villa. Su e giù, su e giù. Così la linea di quello che al momento costituiva il suo orizzonte. Mentre la misteriosa struttura restava perfettamente alla stessa altezza, e non pareva muoversi neppure in linea longitudinale. Gradualmente, l’unica possibile verità iniziò a farsi chiara nella sua mente: “È la prua! O la poppa! Sollevata verso il cielo, mentre il resto del battello inizia ad affondare. Devo…Chiamare subito il capitano…” Ma il suo istinto, affinato da una oltre decade di film sui pirati, gli diceva di aspettare. Ad un tratto, qualcosa parve muoversi all’interno dell’inquadratura. C’era un uomo, sopra il terrazzamento che in altre circostanze sarebbe stato una paratia verticale. Vestito di arancione, salutava Derek con la mano, in maniera all’apparenza totalmente rilassata. Ma la cosa più incredibile era il collega accanto a lui. Il quale, incurante della furia degli elementi, sembrava intento nel gestire un qualche tipo di strumento. Quindi, ad un tratto, il mozzo capì: si trattava di una griglia per il barbecue. Quei due signori, nel mezzo di una tempesta prossima al cataclisma, si stavano preparando il pranzo… Come si trattasse di uno scherzo rivolto personalmente a lui.
Tutto ciò perché la SP FLIP, nave oceanografica prodotta e gestita dall’istituzione scientifica Scripps, con fondi forniti dalla Marina degli Stati Uniti d’America, non può e non deve evitare le tempeste. Né disporsi nella direzione parallela al vento. Del resto, come ci riuscirebbe? Non ha nemmeno il motore. Fin dall’epoca del suo varo, avvenuto nel remoto 1962, non ha fatto altro che venire trainata nei pressi di un possibile tifone. Quindi, una volta calata l’ancora, è rimasta lì. Il segreto di un simile vascello, impossibile da comprendere semplicemente con lo sguardo durante la fase operativa, è la sua forma: in condizioni di navigazione normale, si presenta essenzialmente come la prua di una nave convenzionale, attaccata al corpo lungo e tubolare di un sommergibile militare. O in termini più prosaici, si potrebbe dire che un pezzo di barca con attaccata una gigantesca mazza da baseball, lunga esattamente 108 metri. Raggiunto il punto designato quindi, i serbatoi di zavorra vengono fatti riempire con tonnellate d’acqua, iniziando gradualmente ad affondare. Un po’ alla volta, il davanti si solleva vertiginosamente, in una macabra imitazione dell’antico naufragio del Titanic. Ma giunto al punto culmine del movimento, l’affondamento si arresta. L’assetto è stato trasformato e il dispositivo, pronto a fare il suo dovere, rimane lì. Già, ma qual’è lo scopo? Perché mai è stato costruito un qualcosa di così strano ed indubbiamente, anche costoso? E come mai dopo esattamente 55 anni, non è stato ancora inventato un modo MIGLIORE per farlo? Forse, volendo lanciare un’ipotesi lievemente azzardata, non ve n’era affatto la necessità…