In una data per lo più incerta situata attorno alla metà degli anni venti del Novecento, un ragazzo e suo padre lavoravano in un campo. Il giovane, attorno ai quindici anni di età, era intento a regolare l’erba mediante l’utilizzo di una falce di metallo, che utilizzava con sicurezza tenendola con entrambe le mani. Il pomeriggio era avvolto nella lieve foschia che nei dintorni delle Blue Ridge Mountains, tanto spesso, sembrava indicare l’avvicinarsi di un temporale. Tuttavia nessuna goccia di pioggia era ancora caduta a terra, ed i due apparivano sereni mentre preparavano il cortile di casa ai tiepidi giorni della primavera. D’un tratto, il ragazzo smise momentaneamente di lavorare, mentre appariva concentrato su qualcosa che aveva visto verso la linea dell’orizzonte. Nel farlo, sollevò la lama della falce in senso perpendicolare al terreno. Il padre si voltò verso di lui sorridendo e fu allora che… Lo vide accadere. Un singolo possente strale di luce, filtrato a tradimento attraverso lo strato inferiore delle nubi, sfogò la sua furia elettrica lungo svariati chilometri di cielo, soltanto per scegliere nell’ultimo tratto la via di minore resistenza: il manico dell’attrezzo tenuto in mano da suo figlio. Il Dio del fulmine aveva parlato. Ma il giovane Roy Sullivan, non sembrava averne subito le conseguenze. Esiste un’anomalia statistica, occasionalmente discussa, secondo cui chi è abbastanza sfortunato da essere colpito da un fulmine, evento probabile soltanto ad 1 contro 10.000, vede aumentare in modo significativo la probabilità di subire tale fato nuovamente prima del termine della sua esistenza. Il che potrebbe anche essere rilevante nel caso di costui, la cui occupazione futura l’avrebbe condotto in età adulta ad entrare a far parte del Servizio Parchi statunitense, trascorrendo lunghi ed operosi anni tra i boschi della regione di Shenandoah, dove diventò famoso tra i colleghi per la sua saggezza proveniente dall’esperienza, la capacità di riconoscere gli alberi e le tracce degli animali. Resta altresì opinabile che questo individuo, reso celebre negli anni da innumerevoli articoli e trattazioni, fino al suo inserimento all’interno del Guinness dei Primati a partire dagli anni ’70, potesse annoverarsi tra i più fortunati dell’intera popolazione terrestre, per la sua capacità di sopravvivere senza particolari conseguenze ad uno degli incidenti più pericolosi tra coloro che trascorrono la propria vita all’aria aperta, quella di essere trasformati nel terminale conduttivo sul finire della più impressionante scarica prodotta dalla condizioni atmosferica del pianeta Terra. Non una, né due o tre volte, bensì almeno sette in aggiunta a quella non verificabile della sua età adolescenziale. Sopravvivendo fino al 1983 quando all’età di 71 anni, inaspettatamente, morì nel proprio letto in circostanze misteriose e per un colpo di pistola alla testa.
Ma prima di parlare della triste fine di una simile leggenda, sarà il caso di percorrere in maniera ordinata i punti più salienti della sua improbabile vita, partendo dal suo primo incontro, volente o nolente, con la devastante furia elettrica della Natura…
storia
L’arduo viaggio di ritorno delle insegne totemiche intagliate dalle tribù canadesi
Nel 1790 il colono del Nuovo Mondo John Bartlett, sbarcando presso il villaggio di Daidans sull’isola di Landara, vide qualcosa che l’avrebbe lasciato profondamente colpito. Una serie di case dei nativi costruite in legno di fronte alla spiaggia, ciascuna della quale presentava un ingresso ricavato da un ponderoso tronco di cedro rosso, intagliato per rappresentare il volto distorto di una persona. Invitando gli abitanti ed eventuali ospiti a fare il proprio ingresso tra le fauci di simili creature o ponderose entità sovrannaturali. Perché sembrava del tutto impossibile, in quell’epoca appesantita dai pregiudizi, che “popoli selvaggi” potessero essere in grado di costruire opere ed architettoniche tanto complesse, senza aver ancora ricevuto nessun tipo di aiuto da parte dell’uomo bianco. Una situazione, d’altra parte, molto presto destinata a cambiare, all’apertura dei commerci con le Prime Nazioni o popoli indigenti dell’attuale territorio canadese, i quali avrebbero acquistato con notevole trasporto ogni attrezzo metallico per la cesellatura del legno, atto a sostituire quelli precedentemente posseduti e costituiti in pietra, osso e affilatissimi denti di castoro. Così che entro l’inizio del XIX secolo, l’antica arte della costruzione di pali totemici, eretti da queste genti con un’ampia varietà di scopi non soltanto, né primariamente di natura religiosa, fiorì più che mai in precedenza, portando alla creazione seriale di eccezionali meraviglie artistiche capaci di mostrare una vena creativa “Paragonabile a quella dei nostri Turner e Gaugin, Van Gogh, e Cézanne.” Benché il testo rilevante del 1950 dell’etnografo Marius Barbeau, intitolato per l’appunto Totem Poles, non mancasse di notare all’interno dello stesso capitolo come si trattasse di “Un’arte ormai legata ad un passato che è scomparso da tempo, mentre l’energia culturale delle antiche tribù sta scomparendo da questa e tutte le altre regioni del mondo.” Un’affermazione ironica, tutto sommato, se si considerano i fatti storici intercorsi tra i due momenti: le dure e repressive leggi, tra cui la più famosa resta quella contro i potlach (celebrazioni collettive spesso culminanti con l’erezione di un totem) del 1867, sottoscritte entusiasticamente da parte del Parlamento Canadese con la ferma intenzione di accelerare “l’integrazione” e generosa “conversione etica” delle genti native, così da farne membri produttivi e pienamente sottomessi ai crismi della cosiddetta società contemporanea. Una vera e propria aberrazione in tal senso, forse tra le malefatte peggiori commesse durante la colonizzazione dell’America settentrionale, che avrebbe portato all’eccesso surreale delle scuole aborigene residenziali, luoghi presso cui venivano introdotte e segregate dai loro cari le nuove generazioni dei cosiddetti indiani per imporgli un’educazione cristiana e l’assoluta proibizione di dare continuità alle proprie tradizioni ancestrali. Con i trascurabili effetti collaterali di subire occasionali molestie di natura pedofila e/o perire in massa a seguito d’epidemie di tifo e vaiolo importate dalla buona, vecchia Europa. Mentre di pari passo, nei terreni di caccia, cimiteri, luoghi sacri e villaggi dei loro genitori, qualcosa di altrettanto iniquo stava portando all’innegabile furto del più prezioso avere di queste genti: gli alti pali totemici ricavati da un singolo tronco di cedro nel corso degli ultimi due secoli, nell’idea dichiarata di preservare e proteggere la loro storia “inspiegabilmente” avviata all’auto-annientamento. Così che la gente nativa di quei luoghi aveva modo di vedere con i propri stessi occhi increduli la loro storia abbattuta a colpi d’ascia, e trasportata via senza troppe cerimonie lungo il corso dei fiumi fino alle imponenti città portuali dei propri aguzzini. Sotto ogni punto di vista, l’insulto finale…
L’odierna e funzionale riscoperta dei ponti ad arco nel sistema delle infrastrutture africane
“Così è il modo. Questo è il metodo. Abbiamo trovato la soluzione.” Parole significative scaturite, nel momento della prima opera portata a compimento, dai supervisori di uno dei progetti più importanti portati a coronamento negli ultimi anni dall’associazione belga di assistenza ai paesi in via di sviluppo, la Enabel impegnata a lungo termine entro i confini della Tanzania. Alla constatazione della massima efficienza, con cui il popolo di agricoltori della regione di Kingoma poteva finalmente raggiungere la piazza dei propri mercati regionali, senza dover camminare al di sotto del livello di sicurezza nel guado di svariati profondi e problematici torrenti. E per una volta non dovendo fare affidamento sulla buona grazia, la poca considerazione ambientale ed il continuativo supporto di un’impresa di costruzione proveniente dal facoltoso Nord del mondo. Bensì l’energia dei loro stessi muscoli, coadiuvata dal più utile ed operativo degli strumenti: la conoscenza. Quella contenuta per l’appunto all’interno di un conciso manuale, che potremmo collocare tra gli scambi più fondamentalmente utili derivanti dall’incontro con i popoli di questo continente. Il cui titolo è sorprendentemente semplice e diretto, così come l’effettivo materiale contenuto tra le sue pagine: Stone Arch Bridge. E chi l’avrebbe mai potuto immaginare che nel secondo decennio degli anni duemila, una significativa fascia di popolazione avrebbe tornato ad affidarsi a una simile tecnologia, risalente a niente meno che l’epoca del Mondo Antico, da cui tutt’ora alcuni esempi restano perfettamente in piedi e sono utilizzati occasionalmente. Avete presente, ad esempio, il ponte Fabricio verso l’Isola Tiberina?
Il tutto verso un approccio logico al problema che potremmo definire estremamente logico, quando si considerano le implicazioni del suo contesto. Nella stessa maniera in cui nel XIX secolo il Dipartimento per le Opere Pubbliche della Colonia del Capo assunse a distanza e accolse tra le sue fila il giovane ingegnere inglese Joseph Newey, le cui competenze avrebbero portato, per i 32 anni a venire, alla costruzione di un gran totale di 80 ponti dislocati in quella regione critica e i paesi confinanti, molti dei quali costruiti con le metodologie moderne del cemento precompresso e travi di ferro. Ma alcuni tra la moltitudine, nelle opere di restauro e miglioramento di strutture pre-esistenti, fondati sull’applicazione di un particolare metodo del tutto simile a quello utilizzato dagli Antichi Romani. Non c’è una grande necessità di risorse d’altra parte, materiali e tecnologia, quando tutto ciò che ci si mette a fare è sollevare una serie di centine ed altrettante volte, per tutta la lunghezza resa necessaria dall’attraversamento di turno. Laddove ciò che potrebbe piuttosto sollevare un senso di latente meraviglia, è il fatto che nel corso degli ultimi anni, a partire dall’inizio della venture collaborativa avviata nel 2016, la quantità di opere realizzate entro i confini di un paese oggettivamente molto meno facoltoso del Sudafrica abbia ampiamente eguagliato e persino superato di numero gli obiettivi raggiunti dal solo Newey nel corso della sua intera carriera. Anche grazie alla spontanea partecipazione d’ingenti parti della popolazione locale, motivata dai successi supervisionati direttamente dalla Enabel, scegliendo di aggiungere il proprio contributo al territorio natìo. Potendo finalmente realizzare il sogno proibito, e spesse volte neanche menzionabile, che fosse la stessa gente d’Africa, ad affrontare le sfide necessarie a migliorare la locale qualità della vita…
Dalla Cina il bianco fungo che facilita l’intramontabile ricerca della bellezza terrena
Potrebbe sembrare strano avvicinarsi all’antica e vasta disciplina della Medicina Tradizionale Cinese con le aspettative dogmatiche tipiche di un culto religioso, considerando le profonde implicazioni per lo meno pseudo-scientifiche necessariamente facenti parte di qualsivoglia procedura mirata alla conservazione, o la riconquista del benessere dell’organismo umano. Eppure non sarebbe del tutto erroneo individuare in un particolare testo redatto nel periodo culturalmente importantissimo della dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.) il ruolo di effettivo libro sacro, e nell’autore alle origini dell’ancestrale tradizione orale da cui deriva quello di un effettivo nume tutelare ed imperituro. Sto parlando chiaramente del Ben Cao Jing (本草经 – Canone delle Erbe Mediche) di Shennong (神農 – Il contadino divino) semi-leggendario dio-antenato e Imperatore Rosso vissuto attorno a 5.000 anni fa, cui viene attribuita un’ampia gamma di nozioni relative alla coltivazione e l’utilizzo dei tesori della terra come tramandate da un’insigne ed operosa posterità cinese. Trattazione parzialmente basata su atti di fede e preconcetti, oggi facilmente superati dalla scienza moderna, benché in altri casi le due discipline abbiano trovato, inaspettatamente, significative ragioni di concordia in merito a particolari argomenti. Ed ingredienti: vedi per l’appunto il caso dell’Yin’er shu (银耳属 – Orecchio d’argento) trattato nel capitolo sulla salvaguardia dell’energia oscura dello Yin, ovvero la specie fungina correntemente nota come Tremella fuciformis, una specie parassita dai caratteristici corpi fruttiferi candidi come la neve, simili nella forma a dei voluminosi fiori o da un’altra angolazione, piccoli cervelli abbarbicati alla corteccia degli alberi della foresta. “Andate a coglierli in inverno nelle foreste d’abeti.” Recitava l’antica trattazione, in assenza di una metodologia evidente per poter riuscire a coltivarne significative quantità all’interno di situazioni controllate artificialmente. Almeno finché molti secoli dopo, attorno al XVIII-XIX secolo, le prime fattorie iniziarono a perseguire una produzione seriale di questa particolare specie, mediante l’utilizzo di tronchi sezionati e fatti marcire negli spazi cupi ed umidi di apposite foresterie. Un procedimento ulteriormente migliorato, in epoca più recente, tramite l’acquisizione della tecnica per il trapianto intenzionale del micelio o spore di questo fungo, sebbene anche un tale approccio sembrasse lasciare nel processo dei significativi margini di miglioramento. Questo perché ancora mancava la presa di coscienza, risalente essenzialmente all’epoca contemporanea, della necessità dell’ingrediente di crescere a discapito di altre specie usate come base fertile, da cui trarre il necessario apporto di sostanze nutritive per la crescita: varie specie dall’ascomicete Hypoxylon, tra cui soprattutto quella successivamente riclassificata nella specie Annulohypoxylon archeri, oggi mescolata preventivamente all’interno di un apposito additivo, contenente anche la forma generativa del fungo Tremella. Per quella che è giunta progressivamente a costituire un’industria gastronomica e di portata quanto meno asiatica, mentre niente meno che globale riesce ad essere quella consistente nella creazione di creme e trattamenti cosmetici prodotti con sostanze di questa natura, con un’effetto misurabile d’idratazione della pelle paragonabile a quello dell’acido ialuronico. O persino superiore, in base a certi parametri, ad un simile prodotto dell’odierna tecnologia clinica, dimostrando una solida base per l’originale utilizzo da parte delle classi privilegiate della Cina pre-moderna, tra cui quella più importante di tutte: la corte stessa dell’Imperatore…