Le tre prove dei guerrieri nomadi del Gran Khan

Nonostante l’estremo grado di raffinatezza e complessità, la cultura mongola medioevale poteva avere delle ricadute barbariche tutt’altro che trascurabili. Si narra nel Mongolyn Nuuc Tovčoo, testo storiografico del XII secolo, di come un giorno il grande Gengis Khan in persona avesse assistito al combattimento tra Buri Bokh e Belgutei, entrambi grandi campioni di lotta celebri in tutto l’Impero. Ora in precedenza, a quanto è scritto spiegato, Buri Bokh aveva già sconfitto il suo rivale prendendolo per una gamba e tenendolo a terra con un piede. E nel combattimento tradizionale mongolo, chiamato per l’appunto Bökh, basta toccare il suolo con qualsiasi parte del corpo non sia un piede o una mano, per essere immediatamente squalificati. Ma questa volta, nell’anno della Scimmia, Belgutei rovesciò il vecchio rivale riuscendo addirittura a sedervisi sopra. A questo punto, con sguardo solenne, chiese istruzioni su cosa dovesse fare al suo sovrano. Mordendosi il labbro, quest’ultimo inviò il segnale: allora Belgutei prese Buri Bokh per le spalle e le gambe, poi con un gesto possente, gli spezzò a metà la schiena. Poco prima di morire, lo sconfitto pronunciò le parole: “Non sono mai stato battuto nella lotta. Soltanto stavolta, per intrattenere il mio Khan, sono caduto di proposito. Ed ora ho perso la vita.”
Il concetto di sport del resto, a quell’epoca ancora non esisteva, e l’unico scopo dei naadam (giochi) era selezionare i più forti guerrieri per le orde che avrebbero completato la conquista dell’Asia e l’Europa. Questi eserciti organizzati, come nelle schiere della Cina arcaica, secondo delle unità minime di 10 guerrieri, ciascuna guidata da un uomo particolarmente forte, abile e scaltro. Il quale veniva selezionato, ponendosi tre domande. Sa lottare? Sa tirare con l’arco? Sa cavalcare? Nel tempo, il processo di selezione assunse una codifica ben precisa. Che venne ratificata nel concetto di quelle che oggi definiamo, non senza un vertiginoso parallelismo, le “Olimpiadi delle Steppe”. Qualche punto di contatto c’è: in un giorno ragionevolmente preciso, tra il 10 ed il 12 luglio, tutte le comunità dei mongoli realizzano una cerimonia d’apertura più o meno sfarzosa, quindi con grande risonanza mediatica nazionale, danno inizio a tre importanti competizioni, rimaste pressoché invariate da molti secoli a questa parte. Riunirsi tutti in un luogo, come prerogativa di un popolo nomade, non è considerato essenziale, benché esista un Nadaam “principale” presso la capitale di Ulaanbaatar, che supera di gran lunga lo sfarzo e la spettacolarità di quelli realizzati nel resto del paese. Eppure anche un evento più periferico, come quello del villaggio di Uugtaal qui mostrato in una serie di video di Lauren Knapp, mantengono un loro fascino immemore, ed un collegamento privilegiato coi tempi antichi. In modo particolare per quanto concerne la corsa dei cavalli, che secondo la tradizione inizia alcuni giorni prima degli altri eventi, per poi proseguire fino a dopo le cerimonie di premiazione della lotta e dell’arcerìa. Del tutto unica al mondo, perché a differenza di quanto succede nell’Occidente, la gara media ha una lunghezza variabile tra i 15 ed i 30 Km, con categorie diverse a seconda dell’età del cavallo. Tutti gli animali vengono nutriti con una dieta speciale, nonché trattati con grande attenzione e profondamente riveriti. Ciò non è affatto raro nelle competizioni ippiche provenienti dalle culture del mondo pre-moderno. Dopo l’esecuzione rituale della canzone giingo, vengono fatti avanzare i fantini: per lo più, bambini di 10 anni al massimo, già dei fantini perfettamente abili e soprattutto, molto più leggeri dei loro genitori. Quindi si da il segnale, e VIA! Al termine del confronto, il vincitore di ciascuna categoria verrà chiamato tymnii eh (condottiero di mille uomini) mentre agli allevatori i cui cavalli otterranno vittorie consecutive riceveranno il diritto a fregiarsi del titolo di eroe nazionale. Al cavallo che arriverà ultimo nella competizione riservata ai due anni di età verrà invece attribuita la nomina di bayan khodood (stomaco pieno) e si canterà una canzone in suo onore per augurargli la vittoria assoluta per il prossimo anno. In questo modo, viene oggi celebrata l’importanza della sportività e del fair play.
Il Nadaam fu profondamente riformato, del resto, all’inizio degli anni ’20 del 900, quando con la Rivoluzione del Popolo che scacciò le Guardie Bianche russe e i soldati Qing dalla capitale Ulaanbaatar, diventò una celebrazione dell’indipendenza ottenuta dal più grande paese a nord della Cina. Immediatamente privato di ogni significato religioso su modello della nascente etica sovietica, l’evento annuale diventò una celebrazione delle culture e delle tradizioni di un popolo che, riuscendo a resistere ai ripetuti tentativi di assimilazione da parte della cultura cinese, ora desiderava ritrovare se stesso, e farlo con uno stile esteriore che colmasse gli spazi vuoti del mondo. Per questo, secondo l’usanza, durante i tre giochi partecipanti, arbitri e talvolta anche gli spettatori indossano il costume tradizionale completo di cappello, straordinariamente vario e dai molti colori, noto con il termine generico di dell. Ci sono, poi, casi ancor più particolari…

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Le straordinarie doti dell’attrezzo da pesca coreano

Sembra un giocattolo. La bacchetta di Harry Potter. Una sorta di fidget spinner, l’oggetto che una volta stretto tra i palmi delle mani, viene fatta roteare velocemente, prima di prendere il volo come un elicotterino. Oppure un’ammazzazanzare che avendo preso una folata di vento, si è rigirato in parte su se stesso, formando l’accenno di una spirale. Eppure, se voi foste stati uomini o donne di Beopseongpo, villaggio costiero nella provincia di Jeollanam-do durante la media dinastia Joseon (XV-XVI secolo) l’avreste tenuto in alta considerazione, come strumento principale della vostra serenità economica e il ruolo sociale ereditato. L’attrezzo dei pescatori appartenenti al popolo, che non avevano paura di immergersi nei fiumi o salire su una zattera, entrambe prassi che un nobile o un funzionario non avrebbero mai neppure pensato di fare allora. Ma c’è un detto in Corea: “In autunno, anche i ricchi scendono a lavorare nei campi.” Ed è così che attraverso i secoli, l’attrezzo da pesca gyunji è stato sdoganato come prezioso patrimonio culturale, simbolo di una tradizione tipica di questa penisola che sembra ormai strano dirlo, ma un tempo fu saldamente unita. Chiunque abbia studiato i paesi dell’Estremo Oriente, ben conosce questo problema: in mancanza di specifici approfondimenti, la terra al di là dei Picchi del Diamante viene a malapena menzionata, come “Una via di mezzo tra Cina e Giappone” oppure il tramite passivo di arti, mestieri e religioni dal continente verso l’agognato arcipelago del Sol Levante. Niente potrebbe essere più errato. Poiché le genti di origine siberiana da cui discese questa nazione avevano una loro visione del mondo, una diversa scala di valori e un particolare metodo di approcciarsi ai problemi. Attraverso le epoche, questo metodo diede i suoi frutti nei più diversi campi dello scibile e le attività umane. Uno di questi, fu la pesca tradizionale Gyeonji.
Nessuno potrebbe mettere in dubbio che Jung-Hoon Park, il pescatore mostrato ed intervistato dal sempre ineccepibile canale Great Big Story, sia un abile rappresentante di questa categoria operativa. Mentre una volta immerso nel fiume di Hadong. nell’omonima contea dell’estremo meridione, prepara il campo per la pesca secondo i precisi passaggi previsti dalla tradizione. In primo luogo, pianta nel basso fondale il bastone da passeggio soo jang dae, dal quale fuoriesce un lungo filo da pesca. Al quale è stato legato un sacchetto di pietre chiamato salmang, il cui ruolo è quello di agire da punto di ancoraggio, ma non solo. Alcuni pescatori vi attaccano infatti il retino per contenere i pesci o le esche, mentre altri ancora, inseriscono al suo interno una certa quantità di mangime per pesci, che in breve tempo verrà trasportato dalla corrente al livello del fondale. Questa tecnica dell’esca granulare, usata altrove più che altro per gli squali, è considerata molto importante nel Gyeonji coreano, al punto il pescatore ne rilascerà dell’altra direttamente dalla sua mano, mentre si appresta a lasciar scivolare nell’acqua la lenza principale, anch’essa dotata di un qualcosa di finalizzato ad attrarre il pesce, come un verme o una mosca artificiale (sono previste entrambe le alternative). Non c’è lancio in questa disciplina, che prevede invece che l’amo venga allontanato dalla semplice corrente. La strana “canna” del resto, se così vogliamo chiamarla con i suoi circa 30-40 cm di lunghezza, è troppo corta per fungere a tale scopo. Non c’è nient’altro, tuttavia, che non possa fare: la gyunji è infatti maneggevole, straordinariamente resistente, e può svolgere anche la mansione del mulinello. Tutto ciò che Jung-Hoon deve in effetti fare, nel momento in cui la carpa di fiume puntualmente abbocca, è iniziare ad attorcigliare il filo attorno alla caratteristica testa dell’oggetto, affinché lo spazio di manovra del pesce risulti sempre minore. Per poi coglierlo, alla fine, mediante il retino. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non ci sono stringenti limiti alla dimensione massima della preda catturata con questo sistema. L’attrezzo viene infatti realizzato in resistente bambù, o nel mondo moderno grafite o altri metalli dall’alto grado di resistenza, al punto di piegarsi durante l’impiego, per poi tornare sempre, immancabilmente, alla sua forma originaria. Mentre durante l’inverno, grazie al suo alto grado di maneggevolezza, diventa l’ideale per pescare i piccoli pesci bingeoh attraverso il ghiaccio, che secondo la tradizione vengono mangiati crudi con il condimento di un impasto rossastro al peperoncino. Una soluzione talmente pratica che verrebbe in effetti da chiedersi come mai, non facciamo anche noi così…

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La fabbrica tradizionale che fa il sapone con l’olio d’oliva

È un’antica prassi, ampiamente nota nella sua Cisgiordania d’origine e in effetti, mai realmente imitata da chicchessia. Con estrema attenzione, l’uomo raccoglie la sostanza densa di un intenso color crema dal serbatoio mediante l’impiego di un secchio, quindi la versa dentro un apposito recipiente, mantenuto in posizione su una piattaforma rialzata vicino alle spalle del suo collega. Questi quindi lo solleva, con estrema cautela, ed inizia a dirigersi nell’area preposta alla lavorazione, facendo attenzione a non versare neppure una singola goccia dell’impasto. Ciò perché all’interno di esso, grazie a un processo chimico noto fin dall’epoca della città di Babilonia, già una miscela di sodio alcalino affine alla liscivia, frutto delle ceneri della pianta qilw (barilla) mischiate col limo, sta sperimentando a contatto con l’acqua e l’olio d’oliva la reazione chimica che la trasformerà in pericolosa soda caustica. Fino al raffreddamento progressivo e l’indurimento sul pavimento di un’enorme officina, dove avrà luogo la seconda parte del processo di creazione.
I conflitti portati avanti per ragioni culturali o politiche, nel susseguirsi delle vicende storiche di un popolo, pesano come macigni che deviano lo scorrere del fiume del progresso. Specialmente quando un’intera regione geografica, data la sua sfortunata collocazione all’interno di un sistema internazionale instabile, attraverso le generazioni si ritrova incapace di ricevere le facilitazioni tecnologiche dei moderni processi industriali. Ed è proprio per questo che senza ulteriori opzioni, gli abitanti si ritrovano imperterriti nel praticare le arti e i mestieri dei loro genitori. Senza macchine, apparati automatici ed invero, neppure la capacità di comprendere ed usare tali cose, se pure all’improvviso esse dovessero arrivargli come parte di un improbabile rifornimento umanitario. Ma nessuno consiglierebbe mai davvero di evolversi alle vecchie fabbriche di sapone in Cisgiordania, semplicemente perché allora, dal mercato svanirebbe l’unico ed il solo sapone di Nablus. Che fin dai tempi della regina Elisabetta I d’Inghilterra, veniva esportato fino alle corti d’Europa, come prezioso status symbol e sostanza dalle qualità notoriamente ineguagliate nel suo settore. Ma non per la presenza di particolari ingredienti, essenze o un raro tipo di profumo: questo prodotto, in effetti, ha un odore per lo più neutro, se si eccettua un lontanissimo sentore d’olio d’oliva. Esso trova, piuttosto, la sua forza nella semplice e inadulterata qualità della composizione, frutto di un processo collaudato, che è al tempo stesso semplice, nonché eseguito con un’assoluta consapevolezza del modo migliore per portare a compimento ciascun singolo passaggio necessario. Proprio per questo il sapone della Palestina, così come quello siriano della città di Aleppo, ha costituito per secoli un’importante risorsa dei commerci coi popoli beduini, che fornivano la qilw ed in cambio ricevevano una parte del prodotto finito, scambiato a caro prezzo nei mercati dell’intero Medio Oriente. E vi sorprenderà sapere che in effetti persino oggi, la quantità relativamente ridotta che viene inviata a partire da questi stabilimenti costituisce un’importante segmento di mercato, particolarmente importante per tutti coloro che non vogliono avere nulla a che vedere con prodotti derivanti dalla lavorazione dei grassi animali. Un appellativo alternativo del prodotto, che guarda avanti e ne adatta il concetto alle sensibilità odierne, lo vede connotato dall’aggettivo di [sapone] vegano. Ma ciò costituisce una mera conseguenza della precedente disponibilità dell’uno, piuttosto che l’altro ingrediente, e non la risultanza di una precisa scelta programmatica effettuata in partenza.
Sicura resta, ad ogni modo, la reazione suscitata dal popolo di Internet dinnanzi a simili sequenze registrate in loco: stupore, disagio, persino un vago senso di rabbia. Perché “Non c’è proprio nulla di speciale…” questo è il consenso di almeno un paio di community distinte: “…Nel complicarsi la vita. Basterebbe l’impiego di alcuni semplici accorgimenti per risparmiare una quantità spropositata di fatica.” Perché non usare, ad esempio, un coltello dal manico più lungo per tagliare le saponette, evitando di dover lavorare piegati a 90 gradi? Già, perché?

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Le anziane cacciatrici che afferrano i serpenti a mani nude

L’acqua fredda fino alle ginocchia, dentro la caverna oscura, verso le ore più profonde della notte: è questo l’ambiente ideale per Yoko Fukuchi e Setsuko Kohagura, sacerdotesse noro del più alto grado fin dal 1978, nonché le ultime praticanti di un’arte culturalmente rilevante ed antica. Raggiunta un’età in cui la maggior parte delle persone preferisce passare le proprie ore sul divano di casa, meditando su un buon libro, la televisione o dinnanzi al PC, queste due famose signore dell’isola di Kudaka, situata pochi chilometri dinnanzi alla piccola città di Nanjō-shi ad Okinawa sfidano serenamente il fato, quasi ogni giorno, per il semplice senso di abitudine e la fedeltà all’importante ruolo rivestito nella società. D’un tratto, nell’oscurità si sente un tonfo: è il braccio di Setsuko, rigorosamente privo di guanti o altre protezioni, che s’immerge con sicurezza tra le rocce aguzze, quindi afferra saldamente con la mano… Qualcosa. “Yokatta!” Esclama sottovoce la collega (Buon lavoro!) Mentre la cacciatrice veterana raddrizza agilmente la schiena, estrae il pugno con cautela dall’acqua ed illumina con la sua torcia l’animale catturato, un esemplare femmina di oltre un metro. Contorcendosi vistosamente, la creatura agita la testa e mostra gli artigli grondanti la mortifera tossina, due volte più pericolosa di quella di un cobra con gli occhiali: è un serpente di mare bocca gialla (Laticauda colubrina) fantastico animale a strisce bianche e nere, che un tempo costituiva il pasto spirituale del re. Sorridendo soddisfatta, La catturatrice rivolge il serpente verso Yoko. Che secondo un codice di solidarietà acquisito grazie all’esperienza, l’assiste nel metterlo nel grosso sacco d’ordinanza. Immediatamente, sulla scena torna a regnare l’assoluto silenzio, fatta eccezione per il suono della risacca che s’insinua nella caverna. Illuminandone i più distanti recessi, le cacciatrici ricominciano a cercare…
È un’anomalia così profondamente rappresentativa dell’arcipelago delle Ryūkyū, questa, il singolo luogo con la vita media più lunga la mondo. Dove nel 2007 è stato calcolato che risiedevano 457 centenari, il 20% della popolazione, e i casi di malattie cardiovascolari sono inferiori dell’80%, per esempio, rispetto agli Stati Uniti. Ed è chiaro che a questo punto, il raggiungimento della pensione non è più il segnale che occorre cambiare vita, bensì l’inizio di una nuova, fantastica avventura. Che può culminare, in particolari casi particolarmente estremi, così. È in effetti la prima nozione inculcata a qualsivoglia turista di questa terra emersa di appena 8 Km quadrati, per lo più rurale, il fatto che non sia per niente una buona idea immergersi tra queste acque, per quanto limpide e attraenti possano apparire, se non presso particolari spiagge e prestando sempre la massima attenzione ai dintorni. Questo perché l’isola di Kudaka, fin da tempo immemore, è la patria di oltre 30 diverse specie di serpenti molto velenosi, dalla leggendaria vipera asiatica habu (fam. Trimeresurus, Ovophis) a creature più esclusive di questi luoghi come gli irabu (Elapidae) di cui fa parte per l’appunto il genus dei succitati Laticauda, riconoscibili dalla punta della coda adattata per funzionare come una sorta di pinna posteriore, ma anche perfettamente capaci di strisciare sulle assolate spiagge o tra l’erba. Il che significa, essenzialmente, che qui ci troviamo in un ambiente in cui è possibile morire, anche se si ricevono immediatamente i soccorsi, per la semplice incapacità d’identificare il rettile da parte dei non-nativi, che non riusciranno quindi a ricevere il trattamento del giusto siero. Tanto che si racconta di come a giugno del 1945, durante la drammatica battaglia di Okinawa sul finire della seconda guerra mondiale, i soldati americani fossero più propensi a tenere gli occhi rivolti verso terra piuttosto che in direzione di un possibile agguato nemico. Il che inevitabilmente, portò per loro a non poche infauste conseguenze.

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