Lo strano caso della talpa coi tentacoli sul naso

Fatti piccolo, ancora più piccolo, praticamente un topolino. Con due zampe forti per scavare. E un pelo folto, una boccuccia con 44 denti, per meglio fagocitare vermi, insetti o crostacei. Talmente piccolo che le riserve d’energie dovrai tenerle nella coda, in attesa del momento in cui dovrai spenderle, d’un tratto, per cercare una compagna degna dell’accoppiamento! Ma come potrebbe realmente sopravvivere, nella più profonda oscurità del sottosuolo, una creatura del peso di appena 55 grammi, col metabolismo rapido di un roditore… Facendo il possibile per procacciarsi da mangiare ad ogni ora. Una talpa non è un topo. Ed un topo, non è una talpa. Ciascuno può contare sulle sue particolari strategie. Anzi si potrebbe dire a proposito di Condylura cristata, la quale vive nel Canada e gli Stati Uniti nord-occidentali, che il suo sia più che altro uno strumento. Per annusare. E tastare. E misurare! Quale nessun altro mammifero, di questo vasto mondo, possa dire di aver mai provato l’eguale. La chiamano la talpa dal muso a stella, ma per certi versi, direi che il suo assomiglia più che altro a un fiore. Proveniente dalle più remote profondità del cosmo. Una mostruosa margherita, che se mai qualcuno dovesse azzardarsi ad annusare, farà l’indicibile, sniffandoti a sua volta, come l’Abisso filosofico di chi sai tu. Per poi fare sèguito nel giro dei secondi, come da programma, con l’attacco del piccolo e vorace mangiatore.
La talpa in questione è piuttosto inusuale, e non soltanto per il suo organo speciale. Tra tutte e 39 le specie della sua famiglia essa costituisce, in effetti, l’unica che goda di particolari adattamenti per l’ambiente paludoso ed umido dei bassopiani fluviali. Dove l’umidità costituisce un’arma a doppio taglio, perché da una parte permette all’olfatto di percepire più facilmente gli odori, ma dall’altra li blocca completamente, laddove una pozza o infiltrazione si frappone tra predatore e preda. Qualunque fosse la via intrapresa dalla specializzazione dell’animaletto in questione, dunque, deve essere apparso più che mai chiaro già qualche millennio fa, che esso fosse destinato a sopravvivere, o perire, in funzione dell’efficienza del suo senso olfattivo. Una generazione dopo l’altra, dunque, è iniziato ad emergere la soluzione. Gradualmente, nel naso del piccolino si sono concentrate molte migliaia di organi di Eimer, le papille tastatorie che caratterizzano l’intera genìa delle talpe, in grado di tastare e percepire gli odori allo stesso tempo, finché sostanzialmente, non c’era più una superficie sufficiente a contenerle. Immaginate la nascita della mano umana. Un’appendice, dapprima più simile a una zampa, che profondamente manifesta il desiderio di manipolare, manipolare sempre maggiormente ciò che la circonda. E secondo quanto giudicato necessario, a un certo punto, si guadagna le sue dita lunga e affusolate. Ecco, qualcosa di simile per lei, la talpa. Però al centro della faccia. Poi provate a dire che la Natura non ha il senso dell’umorismo…
Tuttavia, lungi dal preoccuparsi della sua classificazione in un concorso di bellezza, la tenace scavatrice ha saputo trarre il meglio da questa mirabolante dotazione. Apprendendo il succo ed il segreto, il Santo Graal del regno animale, di connettere il cervello in via diretta con gli impulsi ricevuti. Studi neurologici hanno dimostrato come oltre il 50% delle fibre pensanti della talpa siano dedicate al controllo e l’interpretazione dei segnali captati dal muso-a-stella. Proprio per questo, si usa dire che la C. cristata sia il mammifero in assoluto più veloce a mangiare, in grado d’identificare in condizioni ideali, ghermire e ingurgitare una preda in un tempo complessivo di appena 120 millisecondi (la media misurata è in realtà 227 ms). Il che sembra quasi superfluo, visto che stiamo parlando di creature piuttosto inermi, come semplici vermi di terra, ma è in realtà assolutamente fondamentale per la sua soluzione biologica di fondo. Meno tempo impiega a cacciare, meno la talpa consuma calorie. E tanto più a lungo, dunque, può sopravvivere con un singolo verme catturato.

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Il pesce col parabrezza e due paia di fari

Immaginate di vivere la vostra intera vita guardando davanti. La vista letteralmente bloccata, incapace di spingersi al di sopra dell’orizzonte: quale concezione avreste dell’universo? Cosa pensereste delle ombre che corrono al di sotto delle nubi, del bagliore diffuso della Luna, del verso inesplicabile degli uccelli? Avreste elaborato una vostra filosofia del futuro… O vivreste unicamente nell’oggi, come una tartaruga intrappolata nell’unico guscio che abbia mai conosciuto… Ecco, qualcosa di simile! Ma orientato all’inverso: il famoso Macropinna microstoma, uno dei pesci più singolari mai ripresi a largo della California dallo MBARI (Monterey Bay Acquarium Research Institute) è una creatura con gli occhi a forma di telescopio, anatomicamente orientati in alto. Che dal 1939, anno della sua prima descrizione scientifica, si ritenevano completamente fissi, mentre proprio in occasione delle riprese qui mostrate, un esemplare finalmente catturato vivo, ed osservato attentamente per un paio d’ore. Potendo finalmente prendere atto di un qualcosa di inaspettato: il pesce che si dispone in verticale, come una balena addormentata. E i due grossi organi verdi riorientati nel senso di marcia, pronti a individuare l’ombra o il bagliore di potenziali prede.
Per comprendere pienamente le implicazioni di un tale gesto, sarà opportuno descrivere a pieno l’aspetto e le caratteristiche di questo essere scaglioso di 15-20 cm medi, tra i preferiti dei giornali scientifici e le antologie di curiosità. Il pesce barreleye atlantico, come viene altrimenti definito (occhi a barile) se visto da dietro appare come un normale nuotatore delle notevoli profondità a cui vive, forse un po’ tozzo e goffo, dalla coda biforcuta e le grandi pinne ventrali. Di lato, inizia a notarsi qualcosa di strano. Ma è l’aspetto frontale, a risultare immediatamente inusitato: perché dove dovrebbe trovarsi il cranio, c’è invece uno scudo trasparente simile al parabrezza di un motorino, che inizia esattamente in corrispondenza dell’ultima scaglia e si congiunge all’area frontale della mandibola. Sul davanti, due punti neri che non sfigurerebbero in un vecchio cartoon della Disney, non hanno in effetti alcuno scopo connesso alla visione, costituendo piuttosto le nares, organi olfattivi equivalenti alle narici umane. Mentre i sopracitati rilevatori d’immagine, due cupole a rilievo affiancate, dominano l’interno dell’area protetta, per la maggior parte del tempo intenti a scrutare…Verticalmente. Si tratta di uno strano adattamento, in realtà presente in svariate altre specie della famiglia Opisthoproctidae, evolutasi per occupare una nicchia ambientale particolarmente inaccessibile, l’oceano delle grandi profondità. Tra i 600 e i 2.000 metri, dove la luce che giunge dovrebbe essere talmente limitata, da non permettere in alcun modo di sopravvivere provvedendo alle proprie necessità alimentari. Se non quando, ed è questo il punto fondamentale dell’intera questione, l’obiettivo si trova a stagliarsi tra la distante fonte del delicato bagliore e l’osservatore, stagliandosi come una silhouette del teatro delle ombre cinesi, infusa del gusto magnifico dell’ulteriore sopravvivenza sommersa. In merito a questi pesci, la cui biologia resta largamente ignota, è stato ipotizzato che la principale fonte di sostentamento potrebbero essere piccole meduse, plankton e cobepodi, che avrebbero imparato a sottrarre dalle grinfie dei sifonofori, le colonie di minuscoli polipi trascinate in giro per l’effetto della corrente. A tal proposito, la protezione frontale trasparente avrebbe proprio lo scopo di evitare che i delicati occhi possano essere raggiunti dal veleno dei nematocisti, le cellule urticanti che ricoprono l’inconsapevole vittima del ladrocinio.
Ma ogni teoria in merito alla vita di queste creature, osservate poco più di una manciata di volte in condizioni realmente scientifiche, resta per l’appunto, solamente una teoria. Tutto quello che possiamo fare è osservare la loro improbabile fisiologia, per trarne le nostre migliori, benché personalissime conclusioni…

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La cupola che condensa l’aria umida della Provenza

Un Colosseo alieno. I comignoli della ridente cittadina di Trans-en-Provence, sita a 30 Km nell’entroterra dalle celebri spiagge della Costa Azzurra, si susseguivano nella composizione del panorama, costruendo la prospettiva di un intrigante dipinto. Dalla cima della collina Hermitage Clos, l’ingegnere civile Achille Knapen scrutava l’alto muro della sua più desiderata creatura, alta 13 metri, perforata da oltre 100 piccole finestre rettangolari. Il capo del cantiere, suo amico di vecchia data, attendeva istruzioni in merito a una comprensibile incertezza sul prossimo passo da compiere, verso la realizzazione dell’imperscrutabile obiettivo. “Si, la malta e il cemento per la cupola vanno bene. Ma secondo i miei calcoli, simili materiali non riusciranno a dissipare una quantità sufficiente di calore. Dovremmo ricoprire anche la parte superiore con dei mattoni d’ardesia. Ne ordinerò un’altra tonnellata.” Certo, niente sembrava scoraggiare quest’uomo dalla doppia laurea, apparentemente dotato di risorse monetarie infinite. Il suo successo sulla scena francese e belga, del resto, era stato sancito dall’invenzione di un particolare sistema per preservare dall’umidità i palazzi e gli antichi monumenti, il sifone Knapen, concepito come un tubo d’argilla verticale in grado di estrarre l’aria attraverso le pareti. Ma questo grande successo, impiegato nell’anno del nostro Signore 1930 presso rinomati siti come l’Abbazia di Chaise-Dieu, il Grand Trianon e la stessa reggia di Versailles, era ormai rimasto addietro nella sua mente di fervido inventore. Che ricercando nuovi metodi per migliorare il mondo, si era riorientata su un’altra domanda: “E se…Fosse possibile invertire il processo?” Una fonte inesauribile, come un bricco sovrannaturale fuoriuscito dal corpus leggendario dell’antica Grecia. Acqua per tutti, in qualsiasi momento, utile a irrigare i campi nelle regioni aride, fornire sostentamento agli assetati, abbeverare le bestie, gli uccelli e le piante… Un qualcosa che in determinati luoghi, avrebbe potuto cambiare le prospettive stesse e l’aspettativa di vita per molte migliaia di persone. Il “pozzo” aereo, cosa c’è di meglio!
Annuendo in maniera enfatica, il manovale esperto del vicino paese di Puget-sur-Argent fece un cenno al ragazzo che stava trasportando i mattoni verso il cilindro traforato, non ancora dotato di un tetto. A quanto pare, la giornata di oggi si sarebbe conclusa senza fare ulteriori progressi. Era chiaro che Mr. Knapen, come suo solito, aveva un’idea precisa nella costruzione dell’edificio, benché fosse difficile intuirla. Di strutture simili, attraverso la sua lunga carriera, lui ne aveva costruite almeno altre tre, sopra e sotto la Provençale, principale arteria stradale che unisce la grande città di Marsiglia a Nizza, importante porto del Mediterraneo. Si trattava, secondo la classificazione professionale del suo mestiere, di nient’altro che follies, sul modello delle antiche decorazioni dei giardini barocchi francesi e inglesi, spropositate curiosità mirate ad intrattenere gli ospiti con il loro aspetto improbabile che alludeva alle fiabe. La torre avrebbe costituito una vista decisamente insolita dagli ampi spazi della villa, con oltre 200 mq di terrazzi colpiti di traverso dal sole. Lui di certo, c’era da ammetterlo, non ne aveva mai vista una così: larga e tarchiata, ben diversa da qualsivoglia castello o fortezza fatata, risultando piuttosto simile a un torreggiante alveare. E poi, c’era l’interno… Secondo il preciso progetto del rinomato ingegnere, i suoi operai avevano dovuto edificare un’alta colonna con un tubo metallico al centro, integralmente ricoperta di protrusioni di cemento, resa intenzionalmente ruvida da una vasta serie di solchi. Tutto sembrava mirare a una funzione, uno scopo per lui misterioso… Ma ben presto, l’oggetto sarebbe avrebbe ricevuto la sua copertura finale. Ed allora, non sarebbe più stato un SUO problema!

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Il miracolo del secchio che si svuota da solo

L’acqua. L’acqua non è priva di una propria imprescindibile volontà. Chiunque abbia mai ponderato il tracimare di una diga, il crollo degli argini, l’onda devastante di uno tsunami, non può che essere giunto alla conclusione che l’elemento più fondamentale per la vita, dopo averne ricevuto l’influenza fin dalla più antica genesi delle creature, ha finito per esserne influenzato in qualche modo, acquisendo non soltanto la forza necessaria per comportarsi nello stesso modo 9 volte su 10. Ma soprattutto per fare l’esatto opposto, quella fondamentale decima volta! Avevate mai pensato, ad esempio, che l’acqua può scorrere in salita? Proprio così, non c’è niente di particolarmente insolito: di certo avrete familiarità con il concetto del sifone. Non quello del WC a forma di U, che poi sostanzialmente sarebbe in effetti l’ESATTO opposto del sistema di sfruttamento del fenomeno sfruttato, fin dai tempi degli egizi, per le mansioni più diverse, tra cui irrigare i campi, svuotare un serbatoio, iniziare il processo di pulizia di un acquario, rubare la benzina direttamente dalle auto (che resta pur sempre un liquido) …Ovvero un ponte ad arco formato da un tubo flessibile, con un’estremità posta più in alto dell’altra, in grado di garantire il travaso del primo recipiente all’interno del secondo. Per lo meno fino al calo del pelo dell’acqua fino all’imboccatura di partenza. Un’attività funzionale allo scopo, che tuttavia presenta un significativo problema: l’avviamento. Perché possa verificarsi il fenomeno del sifone, infatti, occorre che il circuito su chiuda, per così dire, giungendo a riempire lo spazio di raccordo con un’unica massa indivisa della sostanza bersaglio, che unisca letteralmente i due ambienti coinvolti nella specifica missione. Il che costituisce, in effetti, un problema. Perché nessuna delle soluzioni è davvero soddisfacente: di certo non la prassi più utilizzata, che prevede di utilizzare la nostra stessa forza polmonare per succhiare il fluido all’interno del tubo, rischiando di ingurgitarne una sgradevole parte. Ne quella d’inserire l’interezza di quest’ultimo all’interno del recipiente, lasciare che si riempia e poi tapparne un’estremità, poco prima di spostarla all’interno del secchio sottostante. Per poi aprire il tappo, e dare inizio alla spontanea magia…. Ma pensate voi a voler praticare un simile metodo all’interno di uno spazio niente affatto raggiungibile, come il già accennato serbatoio di un veicolo a motore… Giammai, potrete riuscirci… Ecco a voi, dunque, un sistema migliore.
Ce lo mostrò Rob Morrison, uno dei conduttori del programma australiano degli anni ’70, ’80 e ’90 The Curiosity Show, costellato di una serie di esperimenti semplicemente riproducibili ed altre dimostrazioni scientifiche di chiaro interesse generale. In questo segmento durante il quale, a un’occhio inesperto, potrebbe sembrare che sia stata messa in pratica della vera e propria stregoneria. Dopo aver travasato dell’acqua con un sifone convenzionale, dunque, il divulgatore ne impiega uno decisamente più sottile, costituito da una semplice cannuccia ad angolo acuto di vetro, costruita per poggiare il suo gomito esattamente in corrispondenza del bordo del recipiente quadrangolare. Perché in quel caso, il salto necessario per far iniziare all’acqua lo spostamento è talmente insignificante, che il semplice gesto di tappare l’altro buco con un dito, poi permettere all’aria di entrare all’interno tutta d’un colpo, si dimostra sufficiente a far partire l’orchestra delle molecole in festa. E tutto questo potrebbe sembrare già piuttosto notevole, finché non si assiste al passaggio ancora ulteriore: una versione più sofisticata dello stesso concetto, con la forma di una M asimmetrica, che una volta inserita nell’acqua inizia IMMEDIATAMENTE a sifonare. Senza alcun intervento da parte degli umani. Davvero siamo di fronte, ad uno dei maggiori misteri del nostro tempo…

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