Essere toccati da un fantasma non può essere in alcun caso un’esperienza piacevole, ma risulterà ancor meno tale nel caso in cui l’ectoplasma in questione dovesse tangere le nostre membra mentre sono immerse nell’acqua bassa sulle rive dell’Oceano, dove potrebbe sembrare che qualsiasi cosa possa accadere. Vedi il caso del giovane australiano Sam Kanizay, che ad agosto del 2017 sentì il bisogno di dirigersi di corsa verso il bagnasciuga, avvertendo uno strano senso di debolezza agli arti inferiori. Soltanto per rendersi conto con estremo ed improvviso senso dell’orrore, della scia di sangue che stava lasciando sulla sabbia della spiaggia Melbourne, da quelle che sembravano essere un migliaio o più di piccolissime ferite sui suoi piedi e caviglie. Trasportato rapidamente all’ospedale, e sottoposto a cure rapide ed efficaci, il ragazzo restò quindi un enigma per il personale medico finché a qualcuno non venne in mente l’ipotesi che, per quanto improbabile, sembrava essere a tutti gli effetti l’unica possibile spiegazione: che il fantasma non fosse stato solamente uno, bensì svariate centinaia. Se non addirittura migliaia, che si trovavano per qualche strana ragione ben lontano dal loro naturale habitat d’appartenenza. Rappresentanti dell’ordine di creature, non dissimili da insetti abissali, che il senso comune è solito chiamare per antonomasia “pulci di mare”, sebbene tale coppia di termini sia in genere riferita ad una particolare specie di appartenenza soprattutto terrestre, il Talitrus saltator che abita le spiagge di una buona parte dell’emisfero settentrionale. Lasciando come alternativa più omnicomprensiva il nome scientifico di Anfipodi, o Amphipoda, spesso riferito a questa intera categoria di circa 10.000 specie di crostacei, dalle caratteristiche particolarmente distintive, per non dire addirittura uniche nell’interno regno animale. Creature estremamente specializzate ma comunque versatili, nella miriade di forme verso cui è riuscita a condurle l’evoluzione, questi esseri dalle dimensioni raramente superiori a quelle dei due o tre centimetri presenterebbero una forma superficialmente simile a quella di gamberi o aragoste, se non fosse per l’assenza di una parte fondamentale del loro corpo: la calotta protettiva situata nella parte superiore nota come carapace, entro cui dovrebbero trovarsi raggruppati tutti gli organi vitali e la testa. Lasciando piuttosto ben visibile agli eventuali predatori i loro 13 segmenti raggruppato in testa, torace ed addome, ricoperti di spine draconiche e compressi in senso laterale salvo alcune rarissime eccezioni, vedi l’intera famiglia dei Cyamidae o “pidocchi delle balene” (fatti per aderire nella maniera più idrodinamica possibile al grande corpo degli enormi mammiferi oggetto delle loro attenzioni). Corpo da cui si diramano ben otto paia di zampe aguzze, la metà delle quali rivolte in avanti e l’altra metà indietro, da cui viene per l’appunto il nome scientifico composto dalle parole greche ἀμφί (“diverso”) and πούς (“piede”), atta a sottolineare la natura disparata di una tale configurazione deambulatoria. O per meglio dire natante, come anche favorito dalla tre paia di uropodi situati in corrispondenza della coda, ben divisi tra di loro e dunque incapaci di formare un singolo ventaglio o pinna propulsiva, come nel caso dei gamberi o altri crostacei maggiormente familiari agli umani. Che gli anfipodi siano un gruppo di creature relativamente poco note alla scienza nonostante la loro distribuzione cosmopolita è una cognizione che ritorna periodicamente alla ribalta, come avvenuto l’ultima volta con lo studio pubblicato nel 2017 dai due naturalisti Cédric d’Udekem d’Acoz e Marie Verheye dell’Istituto Reale Belga delle Scienze Naturali, che a fronte di una singola spedizione a bordo della rompighiaccio Polarstern, presso le propaggini esterne del più gelido e remoto dei continenti meridionali, riuscirono a raccogliere e catalogare ben 27 nuove specie di queste minuscole e scattanti creature, tutte appartenenti alla famiglia degli Epimeriidae, genus Epimeria. Rendendo istantaneamente palese quanto poco, in realtà, sappiamo in merito ai confini del loro famelico e zampettante approccio nei confronti dell’esistenza…
draghi
La tartaruga sputafuoco incaricata di custodire il cuore segreto della Provenza
E se qualcuno tentasse di convincervi che il concetto di conservazione ecologica è nato in epoca moderna, non dovrete far altro che portare il seguente esempio: qualche anno prima del 30 d.C. un colossale serpente, giunto nuotando fin dall’Asia, si accoppiò con un animale in Francia. E da una simile congiuntura nacque la creatura che avrebbe condannato, per un’intera generazione, il popolo drammaticamente impreparato della Provenza. Il nome del mostruoso rettile era Leviatano, così come veniva chiamato anche nella Bibbia e secondo quanto minuziosamente narrato da Jacopo da Varazze, frate domenicano e vescovo di Genova, nel 1298 all’interno della sua Leggenda Aurea, testo sulla storia della natura e dei santi. Mentre la sua consorte, a quanto ci viene qui spiegato, apparteneva alla specie ormai da tempo estinta dell’Onachus, una sorta di mucca in grado di dar fuoco a qualsiasi cosa ne toccasse direttamente il corpo, oppure gli escrementi. Così che in una stretta gola del fiume Rodano, chiamata dai locali Tarusco, venne avvistato per la prima volta l’infernale pargolo simile a un drago, ma che appariva chiaramente come un qualcosa di totalmente nuovo: sei zampe, un alto carapace ricoperto d’aculei, il volto simile a quello di un leone con folta criniera e sul retro, una ricurva coda di scorpione. Il frate non indica mai in maniera esplicita la dimensione di quella che avrebbe preso il nome popolare di Tarasque (in italiano, Tarasca) e perciò i resoconti divergono in materia, benché dovesse necessariamente trattarsi di una creatura piuttosto imponente, data la sua assoluta predilezione per il vorace consumo di carne umana. E il ruolo che avrebbe assunto, in una leggenda particolarmente importante per il patrimonio culturale dell’Europa medievale, inerentemente affine a quella di San Giorgio e il drago. Così come il guerriero impugna la spada, simbolo maschile per eccellenza, allo scopo di ferire o uccidere la bestia, fu sempre insito nella mentalità e morale umana che lo stesso risultato potesse venire raggiunto con le buone, mediante un approccio tipico dell’altra metà del cielo. Il che ci porta, a stretto giro di corsa, verso la figura lungamente celebrata di santa Marta, sorella di Lazzaro resuscitato e Maria che potrebbe essere, ma probabilmente non era, la Maddalena. Citata nei vangeli come la donna che tanto era assorta nelle faccende domestiche, durante la visita di Cristo in persona presso la sua casa, da non riconoscere istantaneamente l’importanza del suo messaggio, un errore a seguito del quale si sarebbe redenta per poi diventare una delle sue seguaci maggiormente devote. Senza mai perdere, tuttavia, l’inclinazione al problem-solving che avrebbe caratterizzato, nel racconto folkloristico alla base della leggenda, la sua successiva avventura provenzale. Pare infatti che ella fosse lì giunta, assieme ai suoi familiari, qualche decade dopo la seconda e finale dipartita del Maestro, per sfuggire alle crudeli persecuzioni dei romani. Per incontrare quindi, in una contingenza particolarmente (s-)fortunata, l’orribile bestia del Tarusco mentre si recava a lavare i panni presso le scroscianti acque del fiume Rodano. Ora l’effettivo inquadramento di una tale casistica, nelle diverse interpretazioni della faccenda, varia sensibilmente, poiché secondo alcuni la santa aveva fatto la scelta cosciente di liberare il mondo terreno da una creatura particolarmente insidiosa, mentre nell’opinione di altri ella volle soltanto, in qualche modo, tentare di salvarsi la vita. Fatto sta che mentre stava per essere divorata dal mostro, Maria si mise istintivamente a recitare più volte il Padre Nostro, e ogni volta che giungeva alla fine della preghiera, la Tarasca diventava più piccola, fino a ridursi a proporzioni comparabili a quelle di un piccolo alligatore sudamericano, benché pur sempre dotato di un alito capace di annientare almeno un paio di cavalieri in armatura. In alcune versioni, Marta asperse anche la creatura con l’acqua santa contribuendo ulteriormente ad ammansirla, benché non sia chiaro esattamente se fosse sempre stata sua abitudine averne copiose quantità nel suo bagaglio di viaggiatrice. Assistendo alla scena surreale da una rispettosa distanza di sicurezza, a quel punto fatale, un abitante del villaggio chiamò a raccolta sedici forti giovani armati di lance ed asce, per approfittare della lieta occasione e finalmente, liberarsi della belva improbabile che per tanti anni aveva trasformato in pasto i loro padri, fratelli ed altri validi connazionali. Otto di loro, nonostante tutto, finirono per perdere la vita, verso l’ottenimento di una vendetta ampiamente giustificata ma che viste le premesse, non può che lasciare un senso di perdita nella storia pregressa dell’eterno conflitto tra uomo e natura…
Jizai okimono, i draghi plasmati sulle incudini dei samurai
Con guanti e mascherina bianca, l’addetto del Museo Nazionale di Tokyo maneggia il piccolo dio dei fiumi come se potesse spiccare il volo da un momento all’altro. Apre e chiude la bocca, solleva le zampe, piega innanzi la coda. L’animale straordinariamente vivido, benché del tutto passivo, mantiene un’espressione indecifrabile mentre i suoi baffi oscillano lievemente, per il solo effetto dell’inerzia e lo spostamento d’aria. Mentre con il potere posseduto dagli antichi manufatti, riesce ad evocare non soltanto lo spirito degli antenati grazie a un ruggito inaudibile, bensì la stessa catena di eventi che avrebbe portato, senza deviazioni possibili, alla sua magnifica esistenza.
Invincibile, orgoglioso, pronto a tutto. Dopo quel cruciale inverno del 1615 in cui aveva diretto con successo la difesa del castello di Osaka, all’età non più giovanissima di 48 anni, il famoso samurai Sanada Yukimura dovette infine rassegnarsi a un crudele destino: l’alta fortezza temporanea in legno che portava il suo nome ormai smontata, così come i due fossati che circondavano il suo signore erano stati riempiti per l’inganno del conquistatore di Mikawa, che pur avendo promesso la pace continuava a insediare l’eredità di colui che avrebbe dovuto essere shōgun. Quel Toyotomi Hideyori figlio del reggente imperiale, tradito e circondato da truppe nemiche assieme ai più fedeli servitori, rimasti legati a un senso dell’onore che non era soltanto creato dalla forza, bensì dal diritto di nascita e le promesse fatte in una vita trascorsa, ormai soprasseduta dal progresso inarrestabile della storia. Così circondato dai Tokugawa e affrontato da un guerriero senza nome, che soltanto a partire da quel giorno ne avrebbe avuto uno sulle pagine della storia, il penultimo dei Sanada si tolse il celebre elmo con le sei monete sulla placca frontale. Ed ormai esausto, venne così decapitato sul campo di battaglia.
Il concetto particolarmente amato dalla filosofia nipponica del cosiddetto “Ultimo Samurai” viene generalmente attribuito alla figura di Saigo Takamori, colui che 9 anni dopo il totale rinnovamento politico del paese nel 1868 si ribellò assieme al suo feudo nel tentativo di riportare innanzi gli antichi valori. Per morire armato di spada ed arco contro le manovre di un esercito dotato dei più avveniristici fucili con canna rigata, ed alcuni esempi importati dalle potenze occidentali di primitive mitragliatrici con assemblaggio rotativo. Ma se quella fu la fine di un’ideale, resta difficile negare che il suo mestiere avesse cessato di avere una logica già oltre due secoli prima, con la fine dell’ultima vera, grande battaglia delle guerre civili per l’unificazione del paese. Il che avrebbe portato ad una serie di cambiamenti a tutti i livelli della società, incluso quello di un’intera industria metallurgica, per cui la costruzione di spade e armature aveva costituito, attraverso i secoli, la linfa vitale della propria stessa esistenza continuativa di un tempo. Sarebbe possibile affermare dunque che, così come la fine di un epoca si era consumata all’ombra delle mura del castello di Osaka, l’inizio di un’altra avrebbe avuto luogo sotto quelle di Himeji, l’antica rocca fortificata col soprannome di Airone Bianco che il trionfatore di Sekigahara e del successivo assedio avrebbe assegnato al suo seguace Ikeda Terumasa. Situata nell’omonimo centro abitato famoso, tra le altre cose, per la qualità del proprio artigianato guerresco. Di cui tra i praticanti più celebri figurava la famiglia Myochin, le cui armature ancora vengono celebrate nel mondo del fantastico e dei videogiochi, come sinonimo insuperabile del concetto di protezione personale. Ma quale poteva essere il loro scopo, nella nuova, lunga epoca di una nazione finalmente in pace con se stessa e gli altri?
Tra cimici diverse: l’evoluzione di draghi, droidi e giganti
Assolutamente certo del suo destino, il guerriero marcia innanzi lungo il fusto del Grande Tronco, in realtà nient’altro che un semplice albero di limoni. La prospettiva, d’altronde, è lo strumento di cui abbiamo bisogno per interpretare la realtà. E nel guardare l’individuo erbivoro dall’elmo cornuto (o forse dovremmo chiamarle antenne?) tutto ciò che questi offre ai nostri occhi è la piastra impenetrabile dell’ampio scudo simmetrico, posto sulla schiena per proteggerlo dal ferro acuminato di combattenti più grandi, pennuti e forti di lui. Barbari volanti che avranno il compito, per farne un singolo boccone, di superare l’arma chimica che fornisce il nome per la sua macro-categoria d’appartenenza: emitteri>emerotteri>Pentatomoidea>Tessaratomidae o come sono soliti chiamarli in lingua inglese, insetti-puzza giganti (giant stink bugs). In qualche forma, potremmo dire di averli già conosciuti. Non c’è infatti grande differenza dal punto di vista del ciclo vitale e stile d’alimentazione tra questi e i Pentatomidae, la più vasta famiglia di quel particolare ramo dell’albero dell’evoluzione cui appartiene, tra gli altri, anche la cimice verde comune in Italia (Nezara viridula) che del resto rassomiglia vagamente nell’aspetto, a parte la varietà sgargiante dei colori, alle sue distanti cugine particolarmente diffuse nei paesi tropicali del Vecchio Mondo. Almeno una volta raggiunta l’età adulta, visto come nell’ottica di una crescita di tipo emimetabolico, ovvero soggetta a metamorfosi parziale attraverso una serie di “fasi”, le nostre impressionanti Tessaratomidae vivano un periodo di diversi mesi coperte dalla forma di uno scudo tanto appariscente che, se fossimo nel mondo di Warhammer o il Signore degli Anelli, dovrebbe avere senz’altro un qualche tipo di potere leggendario. Vedi l’insetto gloriosamente rosso ed arancione mostrato in apertura che sarebbe poi la ninfa (forma sub-adulta) del Pycanum rubens, creatura originaria del Sud-Est Asiatico introdotta successivamente, con effetti particolarmente problematici, nel delicato sistema naturale d’Australia. Per la sua capacità notevolmente affinata d’infiggere la lunga proboscide attraverso la corteccia di piante degli ordini Rosales e Sapindales, tra cui agrumi, mango, anacardio, incenso ed acero, con conseguente danneggiamento significativo dei relativi raccolti provenienti dalle coltivazioni di chiara appartenenza umana. Immaginate, a tal proposito, un insetto che prolifera come le cimici nostrane, ma dalla grandezza individuale di fino a tre centimetri e mezzo, la cui crescita esponenziale dal momento della fuoriuscita dall’uovo richiede l’assunzione di commisurate quantità di linfa, con conseguente deperimento delle piante oggetto del suo gastronomico interesse. Con il problema addizionale dell’inefficacia dei pesticidi, data la capacità di bucare la pianta o il frutto assumendo il nutrimento dal suo salubre interno, dove i veleni non riescono a penetrare. Il che non toglie, di contro, alcun merito estetico al sorprendente fascino di questi insetti, così facilmente in grado di dominare la collezione di un entomologo, grazie alla forma geometrica e la fantastica varietà di livree. Poiché così in guerra, come nell’ecosistema, anche l’occhio vuole la sua parte…